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mer
31
mag 23

Populismo. Giorgia attacca il “pizzo di Stato” (che serve a sanità e scuola)

PIOVONOPIETREUn caro pensiero va a tutti gli italiani che in questi giorni o settimane saranno sollecitati da un’associazione chiamata Agenzia delle Entrate a pagare il “pizzo di Stato”, come ha detto in un comizio a Catania il/la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Un vero e accorato appello contro un’organizzazione che vessa e deruba i cittadini, cercando di far pagare le tasse o di recuperare quelle non pagate. Tasse che poi dovrebbero servire a non chiarissimi scopi come per esempio sanità, scuole, servizi, insomma tutte cose di cui potremmo fare allegramente a meno tornando a curarci con erbe e radici, oppure pagando sanità, scuole e servizi privati (cosa che peraltro facciamo sempre più spesso). Potremmo ovviare a questa richiesta estorsiva anche prendendoci a colpi di clava e facendoci giustizia da soli, invece di chiamare Carabinieri, magistrati e altri membri della stessa organizzazione che chiede il pizzo.

Fa parte dell’imperdonabile distrazione di questi tempi allegri che nessuno abbia usato a proposito delle esternazioni meloniane sul “pizzo di Stato” l’abusata parola “populismo”. Davvero strano: per anni e anni si è accusato di “populismo” chiunque avesse una visione del mondo appena un po’ discosta da quella consigliata e autorizzata dall’autorità costituita. Era “populista” aiutare i poveri, per esempio, mentre invece correre in soccorso di chi non paga le tasse, perdipiù durante una campagna elettorale, colpo di scena, non è “populista”. Bizzarro.

E ancor più populista, se possibile, è l’ottima intuizione del/della Presidente del Consiglio, secondo cui la lotta all’evasione fiscale va fatta contro multinazionali e banche, e non contro il piccolo commerciante. Vero, sacrosanto, nemmeno da dire, ma anche un po’ comodo, visto che le multinazionali e le banche non votano per il sindaco di Catania, mentre invece molti piccoli commercianti sì.

A parte le considerazioni semantiche, però, c’è questo piccolo dettaglio che non è vero. Cioè, non è vero che l’evasione fiscale in Italia è in gran parte un’evasione di necessità (che pure esiste, data la crisi perenne, l’inflazione e altri doni del sistema economico vigente). Solo il venti per cento, infatti, è “evasione da versamento”, cioè dichiari le tue entrate e poi non hai i soldi per pagare il dovuto. L’80 per cento deriva invece da omesse dichiarazioni o dichiarazioni infedeli, cioè, diciamo così, da eroici resistenti al “pizzo di Stato” che si portano avanti col lavoro già in fase di dichiarazione dei redditi.

Esiste una cosa che si chiama “tax gap” e che misura la differenza tra le tasse che lo Stato si aspetta e quelle che arrivano veramente. Le cifre non sono sbandierate da picciotti con il rigonfiamento sotto la giacca, ma rese note dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e il tax gap per il 2020, per esempio, era di 89,8 miliardi. Non proprio noccioline: più di 28 miliardi di Irpef, più di 25 di Iva, 9 miliardi di Ires (questi sarebbero a carico delle imprese), oltre 5miliardi tra Imu e Tasi (questi sarebbero i proprietari di immobili), più 4 miliardi e mezzo di Irap e poi giù per li rami con cifre meno eclatanti ma che, sommate, pesano quanto peserebbero tre o quattro manovre economiche all’anno. Tutte cose che però, in un comizio per sostenere un sindaco valgono poco e niente. Meglio il messaggio squillante, diretto e cristallino: se le tasse sono un pizzo e se a richiederle è un “intollerante sistema di potere”, come ha detto Meloni, si risolve così: non pagatelo. Niente male, per non essere “populismo”.

mer
24
mag 23

Grandi lagne di governo. Comandare fingendo di essere dissidenti oppressi

PIOVONOPIETREOra che Tg1, Tg2, Tg3, Rete4, Tg5, Studio Aperto, Tg7 e TgSky24 ci hanno mostrato Giorgia Meloni “lontano da microfoni e telecamere”, possiamo dormire tranquilli.

Ma intanto si registra un persistente mal di testa dato dall’inseguire voci e propagande della destra di governo, che lotta come un leone, come in un fortino assediato da comunisti e invece (ho controllato) è proprio al governo del Paese. Lo dico subito: Meloni che fa (pardon, non fa) passerella tra gli alluvionati è giusto e doveroso, cioè quello che uno si aspetta da un capo del governo. Un po’ meno edificante è la narrazione messa in piedi: lei che lascia il G7 in gramaglie, e poi la favola del “non è una passerella” con tono pre-offeso (traduzione: lo dico prima, non vi azzardate a dire che è una passerella). Insomma, è incredibile che anche in una normalissima e doverosa azione di capo del governo non si riesca a rinunciare a un ingrediente culturalmente centrale della destra italiana: il vittimismo.

In generale, spulciando qui e là tra esternazioni e commenti di questi giorni frenetici si direbbe che c’è gran confusione, è molto difficile codificare una strategia mediatica. La palma d’oro va, come spesso accade, al ministro cognato Lollobrigida, un campione. Mattarella, attraverso le celebrazioni del Manzoni, gli ha fatto pelo e contropelo con una lezioncina da maestro di sostegno su razza, etnia e Costituzione. E lui se n’è uscito con uno strepitoso: “Non credo che ce l’avesse con me”, per poi pubblicare odi ad Alessandro Manzoni. Riassumo: abbiamo un ministro dell’agricoltura che diventa raffinato esegeta manzoniano pur di fingere che gli schiaffoni non li ha presi lui (cfr, “Io mica so’ Pasquale” di Totò).

Spicca nel quadro Marcello Veneziani, da alcuni decenni candidato a tutto quello che c’è di destra, dal convegnetto di nostalgici alla spedizione spaziale. Ha esternato sulle contestazioni alla ministra Roccella accusando il direttore del Salone del Libro, Nicola Lagioia, intervenuto per mediare, di “violenza di origine anarco-comunista”. Qui siamo alla meraviglia, al vittimismo onirico, come se contestare un ministro, pratica democratica quant’altre mai, fosse la Comune di Parigi (nota mia: magari!).

Ma in generale il ricorso allo spettro del comunismo è frequente e generalizzato e fa parte del gioco fascio-vittimista: governare il Paese ma fingere di essere dissidenti braccati in Corea del Nord. Comandare su tutto, ma dare la sensazione di essere minoranza oppressa (dai “comunisti”, poi, creature ormai mitologiche).

E poi, c’è lei, Augusta Montaruli, che allo stesso Lagioia, al Salone, urlava “Vergogna, vergogna e “Con tutti i soldi che prendi!”. Ora, sommessamente, un consiglio spassionato agli anarco-casinisti della destra: se hai tra le tue fila una condannata in via definitiva per peculato, è meglio impedirle di andare in giro a parlare dei soldi degli altri, è una questione di decenza, una cosa che somiglia molto all’autogol da metà campo.

In questi giorni abbiamo dunque visto in tutta la sua sgangherata potenza una certa esuberanza mediatica. E mentre ci balocchiamo con questi proclami un po’ improvvisati, tra il patriota Manzoni e i moti insurrezionali contro la ministra Roccella (che due ore dopo la terribile censura in stile Pol Pot era in televisione a dire la sua), registriamo la pressante richiesta – degli stessi – di costruire finalmente un’egemonia culturale di destra. Oh! Basta con Bertold Brecht e Rosa Luxembourg, su, fate spazio, arriva Veneziani con la Montaruli!

mer
17
mag 23

Soldi, soldi, soldi. Dal tafazzismo di massa al vero porno-capitalismo

PIOVONOPIETRELa madre di tutte le narrazioni, poveretta, è la narrazione sui soldi. Follow the money, segui i soldi, è un sistema sempre valido per stanare qualcuno, ma anche per percorrere certe curve ideologiche disegnate male, alcune a gomito, altre scivolose assai. A seconda delle angolazioni, averne troppi è una piccola trascurabile colpa, averne pochi è una colpa anche quella (molto più grave); ma averne troppi è anche motivo di ammirazione, si dimostra che uno è bravo, (ha fatto i soldi!), così quello che non li ha fatti si dimostra che non è bravo, confermando la storiella che si sente spesso tra le righe: “Insomma, ‘sti poveri si diano da fare!”.

Tra quelli bravi, che si sono dati da fare, si mettono molto in vista alcune star di Instagram e Tik Tok. Ammetto di guardarli affascinato, diciamo che è una forma di porno-capitalismo un po’ estremo. Sono ragazzotti italiani aitanti, fanno primi piani intensi, vivono a Dubai, ci comunicano che hanno incassato ottantamila, centomila – in un giorno – mostrano orologi da trecentomila euro (300k, come dicono loro, perché la neolingua vince sempre), Ferrari e Lamborghini, piscine sull’attico. Allargano le braccia per mostrare un paradiso senza tasse e senza rotture di coglioni, dove i poveracci lavorano (suppongo che qualcuno pulisca la piscina, magari depurandola dallo champagne versato), e loro accumulano portentose ricchezze. Ah, dimenticavo: il tutto senza parlare di lavoro, mai (al massimo di “business”). Vendono manuali e corsi per insegnarvi a diventare come loro, trattatelli a metà tra il trucco commerciale e il seminario motivazionale, cose come: “Ehi, molla il tornio nella fabbrichetta del bresciano e vieni a Dubai a fare business! Tra due mesi avrai la Lambo anche tu!”.

I soldi saranno anche tanti, ma le ambizioni restano basic, la macchina, l’orologio… Non credo che ci caschino in molti (nel caso, nessuna pietà), ma resta il fatto che migliaia di persone si bevono ogni giorno, grazie al cellulare e al pollice scorrevole, questa nuova santificazione dei soldi, un po’ ridicola ma molto social, molto moderna.

E’ noto comunque che i soldi danno alla testa, soprattutto a destra. E’ bastato che gli studenti sollevassero il problema del caro-affitti per sentire allarmatissimi allarmi antibolscevichi, tipo “i comunisti” (eh?) che attaccano la proprietà privata” (eh?). Divertente. Così come divertente è la reazione di tutti (tutti!) quando qualcuno mormora la parola “patrimoniale”, che suona ormai come “esproprio”, o “rapina a mano armata”. Con lo strabiliante testacoda che anche quelli che ne beneficerebbero, che non hanno patrimoni da tassare e che anzi lavorano per mantenere e rafforzare quelli esistenti, corrono in soccorso dei privilegiati. La narrazione è più forte di tutto, il vittimismo dei ricchi commuove spesso i poveri, un caso macroscopico di tafazzismo di massa incoraggiato in coro dai media.

Intanto, il ministro Salvini ha annunciato che abolirà il superbollo, quell’odioso balzello che pesa sulla parte di popolazione indigente che possiede auto lussuose e di grossa cilindrata. Quindi un consiglio agli studenti fuorisede: basta tende, dermite in macchina! Se poi è una Bentley risparmiate sul bollo. Con lo sconto sui macchinoni, lo Stato perderà un centinaio di milioni, che sono poca cosa rispetto a quello che guadagna prendendolo ai poveri. Diciamolo: è bello pensare che qualche milione dei due miliardi e mezzo sottratti al reddito di cittadinanza coprirà lo sconto per i possessori di Porsche.

mer
10
mag 23

Pnrr e armi. Cari italiani, volevate i soldi per gli asili e avrete cannoni

PIOVONOPIETREForse andrebbe studiata per bene – suggerisco corsi di psichiatria – la parabola ardita dell’informazione italiana su quella benedetta pioggia di manna dal cielo comunemente chiamata Pnrr. Se uno avesse la pazienza di andare un po’ indietro negli archivi, scoprirebbe che le speranze, le aspettative, le ambizioni che quella cornucopia di miliardi generò sulle prime pagine e negli osanna dei commentatori hanno oggi un sapore assai diverso. In poche parole: profumavano di progresso e ora puzzano di guerra. E’ sembrato, per un lungo momento magico, che saremmo stati sommersi di soldi. Soldi, finalmente! Era ora! Dopo gli anni dell’austerità e quelli della pandemia, ecco l’Enalotto europeo che ci avrebbe permesso, se non i rubinetti d’oro, almeno delle strutture e infrastrutture per una vita decente. Traduco in italiano: sanità, scuole, asili, riconversioni industriali in chiave ecologica e tanto altro ben di Dio per cui si aprì il libro dei sogni.

Oggi – passati pochissimi anni – la riconversione c’è stata, ma non quella che ci avevano fatto credere con il famoso gioco del portafoglio col filo attaccato, quello che tu allunghi la mano e lui scappa via. No, no. Oggi un po’ di fondi del Pnrr scappano verso un mercato particolarmente fiorente, che è quello delle armi, dell’apparato industrial-militare, il cui potenziamento serve a sostenere un’escalation militare alle porte dell’Europa. Insomma, si scommette su una guerra lunga anziché su una pace veloce. Conviene di più, soprattutto al di là dell’Oceano.

E, sempre a proposito di neolingua, è bene ricordare che molti soldi (un miliardo di euro, ma previsto in aumento) vengono da un portafoglio comunitario che si chiama Fondo Europeo per la Pace. Nemmeno Orwell sarebbe stato così vergognosamente orwelliano.

Sono passati appena un paio di mesi da quando il/la presidente del Consiglio Meloni andò in tivù, dal fido Vespa, a dire che “Noi non spendiamo soldi per mandare armi agli ucraini”. Testuale: “Noi abbiamo delle armi che riteniamo oggi fortunatamente di non dover utilizzare e quindi non c’è niente che stiamo togliendo agli italiani”. E sono passate soltanto un paio di settimane da quando il suo ministro Fitto ha candidamente dichiarato che i soldi del Pnrr per gli asili (“Fate più figli!”, ndr) non riusciremo a utilizzarli.

E così arriviamo a oggi: la Ue decide che parte dei famosi fondi, la manna di cui sopra, andranno a produrre munizioni, che ci servono – scusate la metafora – come il pane. Gli stati potranno decidere il come e il quanto, e già sembra l’asso di briscola per un governo che non riesce a fare asili ma è perfettamente in grado di fare missili. Si aggiungono i tristi lamenti della nostra Difesa, per cui bisogna usare un po’ di Pnrr anche per l’esercito, sia per l’addestramento sia per i poligoni che sono “troppo piccoli” (sic). Il tutto sostenuto dalla nota richiesta Nato di arrivare al due per cento del Pil per la spesa militare. Il tutto chiosato amabilmente dall’affabile Guido Crosetto – ieri presidente della Federazione dei produttori di armi e oggi ministro della Difesa, a proposito di lobby – che dice che bisogna ripristinare le nostre scorte, sistemando con poche parole le menzogne della sua premier (“Non togliamo niente agi italiani”, buona, questa). Tecnicismi? Soldi che cambiano destinazione? Capitoli di spesa nuovi a causa della nuova emergenza? La vendono così, certo, ma il risultato non cambia: volevate asili e avrete cannoni, riempire gli arsenali e svuotare i granai: masters of war.

mer
3
mag 23

Primo Maggio. In Francia protestano, in Italia facciamo concertoni paludati

PIOVONOPIETREChi avesse, l’altro giorno, Primo Maggio, saltabeccato un po’ tra televisone e Rete, stampa e propaganda, notizie dall’alto e cronache dal basso, avrebbe certamente colto alcune affinità e divergenze tra la Francia e noi. Differenze notevoli. Di qua un popolo stanco e senza conflitto, si direbbe quasi arreso; di là un sussulto poderoso di lotta, gigantesche manifestazioni di popolo, simbologie potenti. Il Primo Maggio, festa dei lavoratori, è stata per noi italiani la festa di una provocazione di governo, quella che ai lavoratori sottrae ancora più diritti e contrabbanda come conquista salariale una mancetta semestrale già divorata dall’inflazione. E dietro questo paravento per allocchi, niente più sostegno a migliaia di famiglie in crisi, nuove bastonate alla povertà e nuove precarizzazioni, cioè una rapina da parte di chi detiene la ricchezza ai danni di chi la ricchezza la produce con il suo lavoro (o lavoretto).

Prevengo le obiezioni: le due situazioni, quella italiana e quella francese, non sono direttamente sovrapponibili, perché lassù la protesta del mondo del lavoro si intreccia con la rivolta anti-macroniana sulla riforma delle pensioni, che ha contro la stragrande maggioranza della popolazione (il settanta per cento, dicono i sondaggi). Resta però, piuttosto evidente, la differenza: da dodici settimane i francesi lottano senza tregua contro un governo e un Presidente visibilmente inadeguati, mentre qui, dove le condizioni del lavoro sono ancora più deplorevoli e i salari più fermi, la massima espressione di antagonismo sembrava il gran concertone di Roma. Istituzionale, paludato, vagamente ribellista a parole, dove addirittura a un discorso contro le spese militari e i padroni della guerra (grazie a Carlo Rovelli) i conduttori si dolevano della mancanza di contraddittorio (chissà, l’anno prossimo inviteranno Crosetto, o addirittura un paio di carri armati).

Insomma, pur facendo le debite proporzioni, le differenze saltano agli occhi. Anche simbolicamente. Pensate se in Italia, a una manifestazione di lavoratori, qualcuno portasse in piazza una ghigliottina di cartone (come abbiamo visto fare a Lione, a Parigi e in altre città francesi), o bruciasse un pupazzo con le sembianze del capo del governo. Apriti cielo! E giù alti lai e frignamenti e scandalo sulla violenza, gli anni di piombo, l’estremismo, dove andremo a finire, signora mia! E questo è il frutto di anni e anni e anni in cui il conflitto sociale è stato demonizzato, escluso, insultato in lungo e in largo, criminalizzato, trasformato in reato da tutte le forze parlamentari, destra e “sinistra” unite contro ogni lotta.

Eppure qualche affinità tra Italia e Francia, a guardare la giornata di ieri si poteva cogliere. Re Macron che per muoversi per il Paese si circonda di migliaia di guardie, e quando i francesi scoprono la casserolade (manifestare con le pentole per fare rumore) arriva al grottesco di vietare per decrerto di scendere nelle strade con padelle e pignatte: il trionfo del ridicolo. Non diverso, a pensarci, dalla sora Meloni che passeggia magnificandosi per le sale di Palazzo Chigi, una piccola Versailles, prima di entrare nella grande sala del Consiglio dei ministri, dove cicisbei e lacché la aspettano per il grande gesto del lancio delle brioches, padron del cuneo fiscale, ai lavoratori. Bel video, mancavano solo le parrucche incipriate e il gran ballo di corte, ma chissà che non l’abbiano fatto dopo, a telecamere spente, per festeggiare un nuovo schiaffo ai lavoratori italiani.

mer
26
apr 23

Che natalità? Spiace per Giorgetti, ma non avremo mai i figli dell’Irpef

PIOVONOPIETRELa fremente discussione sulla natalità nell’Italia degli anni Venti è sempre incinta. Non passa giorno, settimana, mese, che qualcuno non lanci l’allarme su questi debosciati (noi) che fanno pochi figli, meno di quanti ne servirebbero per la filiera agricola, per esempio, o per le fabbriche del nord-est, o per pagare i contributi un domani. Insomma, c’è grande angoscia per la futura sparizione della stirpe italica, dannazione, con grande dispiacere di tutti e di alcuni anche di più: il ministro cognato che teme la sostituzione etnica, o il ministro Giorgetti che intende fecondare molte donne per via fiscale.

Parte così la girandola un po’ grottesca della ricerca delle cause, la principale delle quali è sempre quella: è colpa nostra. Un classico degli ultimi anni: era colpa nostra la pandemia – che non stavamo abbastanza distanziati e chiusi in casa – anche se si erano precedentemente tagliati più di 25.000 posti letto alla sanità pubblica e la medicina di base era scomparsa. E’ colpa nostra la siccità, che non chiudiamo il rubinetto mentre ci laviamo i denti, anche se le tubature sono un colabrodo che perde il 40 per cento dell’acqua trasportata. Ed è colpa nostra, ovvio, se non ci accoppiamo con il sacro fine di figliare, perché – in breve sintesi – siamo egoisti. Dietro ogni colpevolizzazione dei cittadini si nasconde – a volte non si nasconde nemmeno – un errore di gestione delle risorse e, insomma, della politica. Nel caso della natalità, la faccenda è così macroscopica che rende un po’ risibile l’accorato allarme.

Suggerirei, per affrontare il tema in modo almeno sensato, di incrociare alcuni indicatori sociali. Che so, gli annunci immobiliari, magari quelli che chiedono sei-settecento euro per un appartamento in condivisione, oppure mille- millecinque per un bilocale in periferia. Vale anche per i mutui. Oppure – altro indicatore che ogni tanto balza agli onori della cronaca – quegli annunci di lavoro strabilianti, dove fatto il conto delle ore e della retribuzione si scopre che lavare i vetri ai semafori è più conveniente. Mi si consenta una parentesi: anche lì è colpa nostra, non del mercato, o del capitalismo, o delle storture del sistema, ma di noi viziati, segnatamente i giovani, che non ci adeguiamo. Chiusa parentesi.

Insomma, capisco i lungimiranti governanti italiani, che devono convincere la gente a fare un figlio, vaste programme. Futuri padri e madri costretti a vivere coi genitori fino a trent’anni (media europea: 26), dove un medico di base ha più abbonati del Milan, si taglia periodicamente la sanità, si aumenta però la spesa militare, si spendono due terzi dello stipendio per avere un tetto sulla testa, un posto all’asilo costa come un’utilitaria, il diritto allo studio universitario c’è solo per il ceto medio e medio alto e il welfare lo fanno i nonni. Si calcoli tra l’altro che quando saranno nonni questi qui – ammesso che facciano un figlio e che il figlio faccia un figlio anche lui – di welfare famigliare non ce ne sarà più per esaurimento scorte. Senza contare il dato più importante: che per fare figli serve una convinzione specifica: una ragionevole fiducia che domani sarà meglio di oggi, e questa, in Italia, è merce che proprio scarseggia.

E così il Giorgetti della maternità incentivata a colpi di Irpef finirà come il Giorgetti del cuneo fiscale: tante chiacchiere e promesse e titoloni roboanti e poi… sedici euro in più al mese, con cui chi vuole potrà radicalmente cambiare la propria vita. Tanto, se non ci riesce è colpa sua.

mer
19
apr 23

Renzi e Calenda. Il wrestling nel fango al confronto sembra danza classica

PIOVONOPIETREDell’esilarante show andato in scena su tutte le reti, tutti i giornali, tutti i social e tutte le discussioni da bar, insomma, del grande derby tra Matteo Renzi e Carlo Calenda, alla fine, resterà poco e nulla. L’effetto gag è già terminato, finito, uffa che noia, a meno che qualcuno non metta in piedi “Renzi e Calenda, il musical”, oppure commercializzi “Renzi e Calenda per PlayStation”, se ne parlerà sempre meno e tutto finirà come lacrime nella pioggia. Questo dipende essenzialmente dal fatto che la ricaduta dello spettacolino sulla vita degli italiani è pari a zero, cioè pari al peso che hanno questi due leader di due partitini sulle reali condizioni di vita della popolazione. Renzi e Calenda, come Totti e Illary, possono anche tenerci incollati alle cronache, e forse persino aumentare il consumo di popcorn, ma poi uno deve andare a lavorare, far la spesa, prendere i figli a scuola, prenotare una visita dal dottore, insomma fare la sua vita, che non cambierà una virgola chiunque trionfi o soccomba dei due statisti che si menano come fabbri.

Al massimo, la vicenda potrà confermare l’esistenza di mondi paralleli, universi alternativi. Uno è quello della vita reale, e un altro è quello dei social, dove il testacoda è esilarante: le truppe di Renzology dicono a Calenda cose che nemmeno il più estremista dei grillini avrebbe mai pensato; e i calenderos rimproverano a Renzi cose che nemmeno il più efferato comunista da centro sociale avrebbe mai osato elaborare. Entrambi usano argomenti che fino al giorno prima erano considerati volgare propaganda nemica, e che ora vanno benissimo per sostenere la battaglia a seconda del campo scelto. Il wrestling nel fango, al confronto sembra danza classica.

Resta sullo sfondo, e verrebbe da dire per fortuna, quello che dovrebbe essere il nodo centrale del problema, e cioè: cosa inseguono, cosa vogliono, cosa architettano per il Paese questi due esimi pensatori che oggi si comportano come capi gang durante l’ora d’aria? Mistero.

Vagamente, dietro gli sganassoni e gli sputi che volano, echeggiano parole lontane, una “forza liberale”, un “polo dei riformisti”, eccetera eccetera, molta fuffa e alcune parole d’ordine invecchiate prima ancora di nascere, senza contare che non esiste sul pianeta una forza che non si definisca “riformista”, perché qualche riforma la vogliono fare tutti e ovviamente il giudizio lo si darà semmai su “quale” riforma, non su un generico spirito riformista. Il jobs act, per dire, era una riforma, così come lo sarebbe la reintroduzione della pena capitale, dello ius primae noctis o del voto per censo: in assenza di monarchie assolute sono tutti riformisti, è come dire “bipedi” o “mammiferi”.

Dunque abbiamo due bipedi il cui programma per il paese – annunciato in millemila interviste, comparsate, ospitate, interventi davanti a un sistema mediatico capace quasi solo di annuire – è diventare bipedi ancora più grossi. Si vagheggiava di “doppia cifra” alle elezioni, e addirittura di “primo partito” per le europee, che è un po’ come se una tribù del Borneo ambisse a conquistare il pianeta. Ma cosa poi volessero fare una volta arrivati lì non si sa, a parte un generico “noi siamo più bravi degli altri” che i fatti hanno finora sonoramente smentito. E dunque sipario. Si torna a casa dopo i titoli di coda con la netta sensazione di aver buttato del tempo, che, a parte qualche risata, lo spettacolo era scadente, non valeva il prezzo del biglietto e faceva schifo pere la claque pagata per battere le mani.

mer
12
apr 23

La statua che piange. Siamo a Totò, Peppino e il medioevo dello scontento

PIOVONOPIETREC’è qualcosa di meravigliosamente stordente, a suo modo sublime, italianissimo e al tempo stesso satirico, però anche mistico e grandioso, nelle cronache che vengono da Trevignano Romano. La statua della Madonna che piange sangue, l’ex vescovo che la porta in chiesa, le trasmissioni televisive di gossip aumentato che danno corda alla storia, la santona che si rende irreperibile, i fedeli che ci ripensano. Un florilegio che incrocia anni Cinquanta, Totò e Peppino, speculazione edilizia, acquisto di terreni. E voi, allocchi, che credevate alle favole mistiche dell’intelligenza artificiale, ChatGPT, microchip ed elettronica ciberpunk, lo spazio, il futuro… bene, rieccovi nel Medioevo del nostro scontento.

Tutto fa ridere, tutto è amabilmente deprimente, a partire dal fatto che le statue piangenti sarebbero cinque o sei che si dividono i compiti: un paio lacrimano sangue (parrebbe di maiale, il che sarebbe ancor più miracoloso, in effetti), e le altre olio (parrebbe santo, ma vai a sapere); e dicono i testimoni che la veggente Maria Giuseppa Scarpulla, nome d’arte Gisella Cardia, prima di mostrarle si chiudeva un quarto d’ora nella stanza, da sola, lei e le statue. E intanto ampliava il terreno, raccoglieva offerte, mentre i non credenti del luogo, laicamente, deploravano la difficoltà di parcheggio causa assembramenti sacri, chissà se qualcuno pregava per trovare un posto auto libero, sarebbe consono allo spirito dei tempi. Tutto questo da anni e anni, sotto gli occhi di tutti, il 3 di ogni mese.

Quanto a miracoli, pare pochini: molte promesse ma zero risultati, non fosse per il dolore (vero) e la disperazione (vera) di alcuni che chiedevano guarigioni insperate, siamo in piena commedia all’italiana: la veggente assicurava la moltiplicazione delle focacce e degli gnocchi (giuro), che però un fedele e finanziatore della prima ora, Roberto Rossiello, dice di non aver mai visto. Dannazione.

Ma cosa veggeva la veggente? “Minacciava il papa, parlava di braccia tagliate ai sacerdoti. Ci siamo messi paura”. E te credo, ci manca solo la Madonna hater!

Insomma, come nei veri film dell’orrore si fatica a staccarsi dai racconti e dalle testimonianze, c’è una repulsione che attrae, che solletica vecchi istinti, oltre al timore di constatare che siamo ancora un po’ questa cosa qua, che c’è una (piccola, si spera) frazione del Paese che puoi convincere di ogni cosa, se gliela vendi bene, ma anche se gliela vendi male. Un’ignoranza atavica impastata con uno sconforto che è parente della resa senza condizioni. Se c’è gente che crede alle statue che piangono, figurati cosa puoi fare con un buon apparato mediatico su cose un filino più serie, le crisi, le guerre, l’ottundimento del senso critico in ogni angolo di un Paese che si favoleggia laico e moderno. Il tutto mentre alla maestra di Oristano che nelle ore di lezione ungeva i bambini con l’olio santo di Medjugorje (lei dice che ha portato l’olio, poi si ungevano loro, da soli) vengono offerti ruoli di consulente (regione Sicilia) o invitata al ministero (Sgarbi) per essere “risarcita” dopo la sospensione di venti giorni dall’incarico.

Tutti santi, tutti devoti, tutti volti all’inginocchiatoio, tranne quando il papa invita un ragazzo russo alla via Crucis, e allora apriti cielo: il mistico piace molto e non impegna, ma solo finché non dice la parola “pace”, allora si storce il naso e lo si confina nei trafiletti di dieci righe a pagina nove e nella coda dei telegiornali, ché suona fastidioso, e rovina la narrazione.

mer
5
apr 23

Scandalo. I giovani non conoscono il made in Italy e dicono “fuck you”

PIOVONOPIETREEssendo anch’io segno zodiacale “Uomo del fare”, come Briatore Flavio, non posso che essere d’accordo con il grande cuneese che il mondo della pizza ci invidia: questo ossessivo parlare di fascismo è una perdita di tempo che sottrae energie a cose più serie, tipo il menu estivo del Twiga. E deploro anch’io – come Flavio ha detto in una bella intervista a questo giornale – che suo figlio Nathan Falco non sappia nemmeno chi è Patty Pravo e quindi cosa cazzo volete che gliene freghi di via Rasella, delle Fosse Ardeatine e di tutto il resto. Questo ci porta dritti dritti all’idea di Giorgia Meloni: serve, anzi è urgentissimo, fare un “liceo del Made in Italy”, dove si insegni per prima cosa – già nel biennio – chi è Patty Pravo, e poi, semmai, anche a riparare le caldaie italiane, che non esplodano, così che non abbiano a ripetersi tragedie come Piazza Fontana o la stazione di Bologna.

Da quel che si capisce, il liceo del Made in Italy dovrebbe insegnare ai nostri ragazzi cosa è italiano e cosa no, difenderci dalle contraffazioni cinesi, assaggiare vini, stagionare il Parmigiano, servire a tavola e sorridere al momento della mancia, unico welfare rimasto.

Il dibattito è ricco e stimolante, e quindi non poteva mancare l’illuminata analisi di Daniela Santanché (donna del fare, e del fare insieme a Flavio): “In questi anni abbiamo avuto una sinistra che ha invogliato i giovani a fare il liceo”; licei peraltro moltiplicati da lady Moratti quand’era ministro dell’Istruzione di Berlusconi, e poi realizzati da Mariastella Gelmini quand’era ministro dell’Istruzione di Berlusconi. Una li ha pensati (i licei), una li ha istituiti, e poi la sinistra (intendono il Pd, roba da matti, ndr) ha invogliato la gente ad andarci. Gira la testa, eh? E questo è niente. Tenetevi forte.

Come sempre quando la questione si fa dura, più dura del comprendonio di Giorgia e Daniela, arrivano i maestri di sostegno ad aggiungere complessità. Uno è l’ideuzzologo autarchico Fabio Rampelli, con la sua nuovissima trovata – mai sentita, davvero inedita, che sorpresa! – di dare multe qua e là a chi usa parole straniere (tipo “made in Italy”, per dire, con cui hanno battezzato un ministero e vogliono creare un liceo). L’altro è il cognato dell’agricoltura, ministro di Giorgia Meloni, che sogna di mandare a zappare i giovani che prendevano il reddito di cittadinanza, e ora non lo prendono più. Insomma, l’agricoltura italiana ha bisogno di braccia, le braccia stanno attaccate a corpi posteggiati sui divani, bisogna che si alzino e vadano a raccogliere le arance, mentre gli studenti del liceo Made in Italy controllano che i divani siano veramente italiani e non, che so, costruiti in Belgio o in Albania.

Il segreto obiettivo di tutta questa frenesia riformista che la destra italiana lancia sul mercato delle scempiaggini – mercato in grande espansione – sarebbe quello di recuperare un’egemonia culturale, rispolverando tradizioni e italianità là dove ancora si possono trovare. Spezzare le reni alla farina di grilli e inchiodare sul bagnasciuga due bistecche sintetiche, magari con otto milioni di cotolette, riporterebbe in alto i cuori. Anche affollare le bidonvilles della piana di Rosarno con raccoglitori ex-fancazzisti non sarebbe male. Per non dire del ritrovato rispetto della nostra amata lingua, oggi così lordata dal “forestierismo” (sic), per cui molti giovani – sbagliando – preferiscono rifugiarsi in un “fuck you”, aglofono e globalista, invece dell’italianissimo, volitivo e maschio “vaffanculo”.

mer
29
mar 23

Piazze e guerre. L’opinione pubblica è “lucida” solo se ubbidisce ai governi

PIOVONOPIETRENon è sempre facile seguire un filo, dipanare una matassa, cercare qualcosa che colleghi vari argomenti apparentemente slegati tra loro che invece, come per magia, portano allo stesso punto. Quindi eccoci, nello spazio di una settimana, a strabiliare per il puzzle che si compone, pezzettino dopo pezzettino, da Parigi a Roma, a Kiev, a Tel Aviv, e altri posti più o meno esotici, fino alla storia passata e – si teme – futura. Soltanto qualche anno fa sarebbe stato impensabile in una democrazia per un politico – un ministro, un uomo di Stato – attaccare frontalmente l’opinione pubblica. Si preferiva lisciarle il pelo, o perlomeno tenerne conto, e anche la Storia in qualche modo lo faceva: la guerra del Vietnam, per fare un esempio, fu persa in casa, in America, per la crescente ostilità degli americani a mandare i loro figli a morire in una giungla lontana.

Così si strabilia a sentire Emmanuel Macron dire che “La folla non ha legittimità di fronte al popolo che si esprime attraverso i suoi eletti”. Una nuance filosofica, molto furbetta, che serve a dividere i francesi che protestano in piazza (cattivi), dal potere, emanazione del popolo (buono). Una specie di “il popolo c’est moi” che strappa un sorriso, specie nel Paese della ghigliottina.

Non è difficile tracciare una linea dritta tra le parole di Macron e quelle del ministro dell’Interno italiano Piantedosi. Anche per lui l’opinione pubblica è un problema: quella italiana sarebbe troppo incline all’accoglienza dei migranti e questo farebbe da pull-factor per i barconi di disperati. Certo, con un popolo fatto tutto di Traini, lo stragista di Macerata che se ne andava per la città sparacchiando ai neri, forse Piantedosi avrebbe un compito più facile, ma è evidente che il suo prendersela con gli italiani –troppo buoni (mah! ndr) – non è altro che depistare l’attenzione dall’incapacità del governo.

Una cosa che fa scopa con la teoria, ben espressa da Francesca Mannocchi in tivù, che l’opinione pubblica non è lucida, mentre “i decisori” (credo si intenda i governi) sì. Quindi i lucidi decisori continuano a spedire armi sempre più letali in zona di guerra, mentre l’opinione pubblica, che lucida non è, si ostina a rimanere contraria nonostante le pressioni di chi dovrebbe informarla, e che sta al novantanove per cento dalla parte dei “lucidi”. Che frustrazione!

Purtroppo ci sono eccezioni: se a Gerusalemme e Tel Aviv grandi manifestazioni popolari evitano che il governo di Israele porti la magistratura ad obbedire alla politica, ecco i toni di trionfo, e il testacoda: lì sono “lucidi” i manifestanti, e non il governo, colpo di scena, perché preme molto dire di quanto sia democratico Israele, nonostante l’apartheid. Mentre invece per l’Ucraina si usa un altro metro: il popolo è fatto coincidere perfettamente, in scala uno a uno, con il governo, per cui Zelensky e il popolo ucraino vengono usati come sinonimi e mai, in questo anno e passa di guerra, si è sentita qualche voce dissidente, che so, qualche ucraino pacifista, o anche solo qualche lettore dei giornali chiusi dal governo, o qualche elettore dei numerosi partiti messi fuorilegge a Kiev. Dunque il popolo, l’opinione pubblica, i cittadini, sono lucidi quando si identificano con chi li governa, e sono invece poco lucidi quando non si allineano. Ed ecco così sistemate le annose questioni della democrazia, dell’opposizione e della protesta sociale: il “popolo” va bene se annuisce, ma guai se diventa “folla”, o anche solo (come qui) sondaggio.

mer
22
mar 23

Blair e Macron. Gli idoli da destra rosé tramontano in fretta (ma arriva Sanna)

PIOVONOPIETRECi dev’essere qualcosa di strano nell’acqua che bevono i sedicenti “riformisti” italiani, forse una pozione magica che li spinge irresistibilmente a tifare per i peggiori, a imitarli, a prenderli ad esempio, e – dannazione – a dirlo a gran voce. L’ultimo caso eclatante è quello del presidente francese Macron, con tutto il seguito di semi-leader italiani che per anni si son detti macronisti. Ora che in Francia Macron è popolare come le pulci nelle lenzuola, di macronismo si parla un po’ meno, diciamo che va meno di moda. E a dire il vero si parla con una certa superficialità anche della situazione francese, dove la riforma che alza l’età pensionabile (da 62 a 64 anni) ha creato una mobilitazione popolare di enormi dimensioni, con il paese bloccato e grandi manifestazioni, una vera rivolta. A leggere le home page di qui, sembra che ci sia qualche matto che brucia i cassonetti, e bon, finita lì. Questo è molto strano: di solito alla stampa & propaganda italiana le rivolte degli altri piacciono molto, si tifa per i manifestanti, che siano a Teheran o nelle capitali arabe, ma quando il malcontento si avvicina ai confini l’atteggiamento cambia, prevale la prudenza.

Macron, dunque, che solo qualche anno fa sembrava il faro dei “riformisti” (ahah, ndr) italiani, non sembra messo benissimo: fa passare la sua riforma delle pensioni senza voto parlamentare, evita di un soffio la sfiducia e ha contro – dicono i sondaggi e le piazze – due terzi abbondanti del Paese e una coalizione di sinistra (di sinistra, non una destra rosé) che alle ultime elezioni ha sfiorato per un pelo la maggioranza in Parlamento.

Si ricorda en passant che qui da noi alla riforma Fornero che alzava l’età pensionabile a 67 anni si rispose con quattro (4!) ore di sciopero. Perbacco, che resistenza!

Orbati del suo idolo di cartone Macron, i “riformisti” (ahah, ndr) italiani cercano anche di cancellare il ricordo di altri tizi idolatrati per anni, tipo mister Tony Blair, quello che fece insieme a Bush una guerra da un milione di morti, invadendo l’Iraq sulla scorta di prove (disse lui, testuale) “trovate su Internet”. Mentre il socio americano sventolava all’Onu le false prove contro Saddam, Blair diventava un faro per certi politici nostrani, quelli che amano la destra che scrive “sinistra” sul biglietto da visita. Oggi, che si celebra sottotono il ventennale di quella carneficina illegale e imperiale, di Tony si parla pochino, è passato di moda anche lui, meglio scordarselo.

Comprensibile che dopo tante delusioni, i “riformisti” italiani – piccoli fans – si guardino intorno in cerca di nuovi idoli da venerare. E si avanza la figura di Sanna Marin, premier finlandese, nuovo idolo della simil-sinistra italiana iper-atlantista. E’ giovane, dinamica e carina, allevata da due madri (come se fosse un merito politico, mah), entra nella Nato (questo piace moltissimo) e sta costruendo, con il suo governo, un massiccio muro anti-immigrati al confine con la Russia. Perché i russi nemici di Putin ci piacciono molto – e giustamente – ma se scappano qui ci piacciono meno, un po’ come gli afghani, che se sono contro i talebani sono simpatici assai, finche non vengono ad annegare a cento metri dalle nostre rive, e allora gli diciamo che dovevano restare là. In cosa il muro anti-immigrati di Sanna sia diverso dal muro anti-immigrati di Trump ce lo spiegheranno con calma, staremo ad ascoltare con pazienza, pensando sotto sotto: ma voi siete quelli di Blair e Macron, giusto? Ok, bravi, grazie di tutto.

mer
15
mar 23

Il governo e la sindrome da “Maestra, il cane mi ha mangiato tutti i compiti”

PIOVONOPIETRECorreva il 23 ottobre del 2022, pochi mesi fa, e Guido Crosetto, ministro della difesa italiano, lanciava il suo allarme in un’intervista a Repubblica: “Mosca vuole colpirci con la rabbia nelle piazze”, sintetizzavano vari titoli, e il ragionamento scorreva via fluido: c’è l’inflazione, c’è il caro bollette dovuto alla guerra, si teme un’impennata di proteste e la Russia soffia sul fuoco e fomenta. Insomma, lettura facile: se la gente scendesse in piazza incazzata (cosa che finora non è successa, si vede che a Mosca dormono) sarebbe una questione di sicurezza nazionale. Traduco in italiano: non vi mandiamo la celere, vi mandiamo la Folgore.

Non è mai bello quando delle piazze e della rabbia popolare (ammesso di vederla, prima o poi) si occupa il ministro della Difesa e non quello dell’Interno, ma pochi se ne accorsero o si allarmarono. Si arriva ai giorni nostri e ancora l’ineffabile Crosetto dice la sua sul fenomeno migratorio e sul grande flusso annunciato e atteso sulla rotta libica, dicendo che dietro ai migranti che arrivano (o tentano di arrivare), dietro quella disperazione dietro quelle condizioni di vita (di non vita) spaventose, ci sarebbe la brigata Wagner, molto forte in Africa e in Libia, cioè quella milizia semi-privata che fa le guerre a libro paga di Putin. Insomma, i russi. Scemi noi che chiamavamo la Guardia Costiera, mentre bisogna chiamare la Nato (la Nato va su tutto, come il beige).

Sull’analisi geopolitica di Crosetto, sull’allarme del Servizi, su quanto sia comoda e semplicistica la lettura (non siamo noi a non saper gestire un problema, sono i russi che lo creano), hanno detto con varietà e complessità di argomenti molti che si occupano in modo professionale e scientifico di flussi migratori, anche ieri e anche su questo giornale, quindi non mi addentrerò. Registro en passant un problema di traduzione della risposta del boss di Wagner Prigozhin a Crosetto: “mudak”, che Repubblica traduce “cazzone”, il Fatto con “stronzo” e La Stampa con “testa di c…” coi puntini. Urge filologo.

Più interessante mi sembra l’inesauribile e indefessa azione del governo Meloni nell’individuare colpevoli da additare ai suoi elettori e in generale all’opinione pubblica. Erano i giovani dei rave, all’esordio dell’esecutivo, e poi gli anarchici, poi (quello sempre) i fannulloni sul divano, e poi si temeva che lo zar del Cremlino portasse in piazza massaie incazzate e metalmeccanici impoveriti. E poi – davanti a una strage in mare – era colpa di quelli che scappano dall’Afghanistan (strano, li abbiamo trattati tanto bene, bombardandoli per vent’anni!), e poi gli scafisti che cercheremo per tutto il globo terracqueo, e poi il mare grosso, e poi la virata improvvisa del barcone. Insomma, sembra di capire che nel primo governo di destra-destra della storia repubblicana, che nella mitologia astrusa dell’hombre vertical dovrebbe essere volitivo e deciso, prevalga la nota sindrome del “maestra, il cane mi ha mangiato i compiti”.

Non è colpa nostra, sono gli anarchici, no, sono gli sballati dei rave, no, sono i russi, e via così, in un accavallarsi di cattivi che impediscono a Salvini, Piantedosi e Crosetto, che sono i buoni, di far funzionare decentemente le cose, di prevedere le emergenze e magari di risolverle invece di incolpare questo e quell’altro. Non resta che adeguarsi, e anzi suggerire a tutti gli italiani di trarne lezione e insegnamento: “Cara, posso spiegarti, sono stati i russi”. Coraggio, se funziona per Crosetto può funzionare anche per voi.

lun
13
mar 23

Cinque blues per la banda Monterossi e la deplorevole arte del racconto su Tutto Libri

Come sapete, i “Cinque blues per la banda Monterossi” sono preceduti da una piccola prefazione (o introduzione, o confessione, come volete voi). Tutto Libri ne pubblica una parte. La metto qui. Ci vediamo qui e là

Tuttolibri 110323

mer
8
mar 23

Migranti e poveri. In Italia è sempre “colpa loro”: i più deboli e indifesi

PIOVONOPIETREUn fantasma si aggira per l’Italia, ed è il fantasma della colpa. Concetto antichissimo, praticamente un pilastro, molto gettonato dalle religioni, (quasi tutte), dalle assicurazioni auto (tutte), e da chi governa il Paese, impegnatissimo a dar la colpa alle vittime anziché a chi le ha fatte diventare tali. Caso di scuola, il naufragio di Cutro. Passate per infami e disumane le parole del ministro Piantedosi sui profughi che se la sono cercata, non hanno destato lo stesso scalpore quelle della premier Meloni: “Quelle persone non erano in condizione di essere salvate”. Cioè, tradotto in italiano, il soggetto sono “loro”: loro non erano in condizione di essere salvati, maledetti, e non noi, che non li abbiamo salvati a cento metri dalla riva. Un modo un po’ più arabescato e furbetto di dire la stessa cosa: colpa loro.

Che oltre cinquanta di quei naufraghi venissero dall’Afghanistan non è passato inosservato, ma è stato per così dire notato a metà, la sola metà del discorso che consentisse di dare la colpa a loro e non a noi. Ancora il ministro Piantedosi, ineffabile, ha fatto notare che lui è stato educato alla responsabilità, cioè a chiedersi cosa può fare lui per il suo Paese (lo stiamo vedendo, ndr), e non cosa deve fare il suo Paese per lui. Un ragionamento che finisce per battere lì: come sono irresponsabili questi afghani, che invece di fare qualcosa per il loro Paese – che so, combattere a mani nude i talebani a cui abbiamo lasciato un patrimonio di armamenti da far spavento – decidono di partire in condizioni precarie e pericolose. Che stronzi, eh?

Faceva notizia, sui giornali di ieri, la storia della giornalista afghana Torpekai Amarkhel, quarantadue anni, morta nel naufragio insieme al marito e tre nipoti. Nelle redazioni hanno messo insieme in fretta e furia la sua storia, dimenticandosi, ahimé, la Storia, con la s maiuscola, del posto da cui veniva. In quarantadue anni di vita, un afghano (qualunque afghano, uomo, donna, giornalista e non) ha visto solo guerra: prima i russi, poi gli americani che hanno armato i mujaheddin, poi i talebani ingrassati e foraggiati in chiave anti-russi, poi la “guerra giusta” che ammazzava civili a grappoli, poi la fuga senza dignità su cui campeggiava un cartello a caratteri cubitali: “Ciao, afghani, cazzi vostri”.

Certo non sempre è facile districare le storie personali dalla Storia collettiva, ma direi che in questo caso il compito non è difficilissimo: il famoso Occidente – noi compresi – una come Torpekai Amarkhel, suo marito e i suoi nipoti, avrebbe dovuto andare a prenderla con un volo di prima classe, portarla qui servita e riverita (forse voleva andare in Olanda, dalla sorella). Invece no. Invece le ha invaso il paese, l’ha bombardato e riempito di armi per vent’anni, dicendo che lo faceva per il suo bene, ha finito per rafforzare un regime delirante e oppressivo e poi – quando lei è venuta qui – non l’ha aiutata nemmeno a non affogare, e come ultimo atto le ha detto che è stata colpa sua, che non doveva partire.

Come si vede, la questione della colpa, apparentemente complicata, è molto semplice: la colpa è dei poveracci. Che si parli di immigrati che attraversano i mari (e allora si complicano e si ostacolano i salvataggi, vedi le recenti norme sulle navi delle Ong) o di poveri italiani che “non hanno voglia di lavorare” (e allora gli si tagliano i sussidi per costringerli ad accettare offerte al ribasso), la colpa è sempre dei più deboli, che è il trucco migliore – e infallibile – per assolvere i più forti.

mer
1
mar 23

Nuovo Pd. Schlein riparta dalle parole vere: basta con il “sofficismo” retorico

PIOVONOPIETRESono così pochi gli entusiasmi, in questo tempo di neolingua, dove i camerati si chiamano patrioti, la guerra si chiama pace, le armi si chiamano soluzione per finire la guerra, la richiesta di giustizia economica si chiama invidia sociale, che non vorrei smorzarli né attenuarli, insomma, non voglio essere io a portare acqua dove potrebbe vedersi finalmente qualche scintilla di cambiamento. Su Elly Schlein e sulla sua vittoria si è scritto tutto e il contrario di tutto, quindi non mi aggiungerò al coro, anche se diverte vedere il puzzle impazzito delle reazioni scomposte e disordinate. A giudicare da alcuni esilaranti isterismi, ci si aspetterebbe da un momento all’altro che Schlein proclami la distribuzione delle terre ai contadini, la dittatura del proletariato, la guerra alle armate bianche e il ritorno del culto di Stalin. Molto divertenti anche alcuni neologismi coniati per l’occasione come il “dirittismo” (non ho capito bene, ma credo sia la tendenza a difendere i diritti), o l’”abortismo sfrenato” (ma sfrenato, eh!) che si rimproverano già dagli exit poll alla nuova segretaria del Pd.

In prima fila in questo fuggi fuggi di cellule cerebrali, i campioncini della propaganda del Terzo Polo, divisi tra chi si strappa i capelli (moriremo tutti nel gulag) e chi fa buon viso a cattivo gioco, sperando in un allargamento della destra travestita da cento-centro-centro-sinistra, cioè renzisti e calenderos. Vorrei metterli in guardia: tutte le volte che si dice “abbiamo davanti una prateria!”, ci si ritrova su un sentierino di montagna impervio e strettissimo, quindi auguri. Per ora la comunità del Pd piange l’addio di Fioroni – di cui si molto discusso, credo, nella cucina di casa Fioroni – e qualche minaccia di “Io non ci sto”, ma sinceramente si fatica a immaginare moti di piazza e masse in agitazione per trattenere nel Pd Giorgio Gori.

Siccome lo sport del momento è tirare la giacchetta di Schlein, soprattutto per raccomandarle un atlantismo cieco e assoluto, vorrei volare più basso e limitarmi alla narrazione e allo storytelling, insomma alle parole. E’ un appello che esce dal cuore: ci si eviti, per favore, quella retorica vuota e roboante che è stata per lungo tempo la poetica del Pd, i giochetti stucchevoli, le perifrasi da baci Perugina, le formulette del buon cuore che hanno negli ultimi anni lordato ogni argomento con la sola preoccupazione di apparire affidabili al mercato. Si cominci – questo sì sarebbe un elemento nuovo – ad adoperare parole vere, che esistono in natura. Lo sfruttamento, le morti sul lavoro, la depressione dei salari, la povertà, che non sono parolacce, ma che sono state fin qui edulcorate da una retorica soffice e morbidosa, deputata in gran parte a non spaventare le élite. Forse dovendo fare opposizione anziché servire l’agenda di un banchiere, l’impresa sarà più facile, ma ricominciare a chiamare le cose con il loro nome sarebbe un grande elemento di chiarezza, potrebbe diradare la nebbia e spiegare per una volta che si sta da una parte, e non da una parte “ma anche” dall’altra. La guerra è guerra, i miliardi in riarmo e cannoni sono miliardi in armi e cannoni tolti a scuole e ospedali.  In attesa del recupero di un minimo sindacale di radicalità (la Spagna attuale, o la sinistra francese sono buoni esempi), si recuperi almeno la lingua, si ritrovino le parole, si esca dalla trappola del sofficismo retorico tenero, ciccioso e innocuo ,e si torni ad essere spigolosi. Senza aspettarsi chissà che, per carità, ma sarebbe un inizio.

mer
22
feb 23

Riscriviamo tutto! Com’è possibile che nei Malavoglia siano tutti terroni?

PIOVONOPIETREE’ solo un piccolo segnale, un inizio incoraggiante, non fermiamoci, ora! Avanti con la revisione politicamente corretta dei testi – classici e non – della letteratura mondiale! Hanno cominciato, com’è noto, alla Puffin Books, casa editrice inglese che ha riscritto i capolavori di Roald Dahl, cancellando parole come “grasso” e “brutto”, che non vanno bene, perché se uno è grasso o brutto si sente discriminato e smette di leggere. Giusto! E’ solo l’inizio. Vi sembra possibile che nei grandi romanzi russi dell’Ottocento siano tutti bianchi? Che assurdità! Una vera discriminazione! Ora almeno un fratello Karamazov del Congo bisognerà mettercelo, senza contare che il povero principe Myškin, che è tanto puro ma un po’ indietro di comprendonio, non potrà essere più chiamato “l’idiota”, Dostoevskij se ne faccia una ragione! Naturalmente è inaccettabile che in Via col vento i ricchi siano tutti bianchi e i neri facciano gli schiavi, si suggeriscono edizioni alternate: i bianchi fanno gli schiavi negli anni dispari, con “signorina Rossella” presa dai campi di cotone, e la sua domestica, che le stringe il busto e le porta la colazione, una bianca del Wisconsin, ma non grassa come nel romanzo, se no si ricomincia daccapo.

Possibile che nei Malavoglia siano tutti terroni? Avanti, ditelo! E I Promessi sposi allora? Con tutta quella gente che non vuole vaccinarsi, che insegnamento sarebbe per i nostri giovani?

Come può sentirsi una signora anche leggermente sovrappeso in visita a villa Borghese davanti al mirabolante sedere di Proserpina scolpita dal Bernini durante il suo rapimento? Urge marmo con almeno un pochino di cellulite. Sia chiaro che vale anche per i maschietti: gli addominali del David sono uno schiaffo a chiunque sia costretto a nutrirsi di panini e di mense aziendali, una vera discriminazione! Eppure sarebbe facile: un paio di saldature ben fatte, un piccolo rinforzo di metallo, ed ecco che i bronzi di Riace sarebbero più politicamente corretti, con la loro pancetta da birra e i bicipiti almeno un po’ flaccidi. Così noi umani potremmo andare a vederli senza sentirci proprio delle merde, discriminati, umiliati, sprofondati nella vergogna.

Certo si esagera (ma chissà, non poniamo limiti all’idiozia umana) e tutto accade nel mondo surreale della cultura woke e del revisionismo storico-artistico della società tristemente contemporanea, per cui si vorrebbero valutare cose di altre epoche alla luce delle convinzioni e dei parametri culturali dell’oggi. Nell’abbottonatissimo Ottocento, così pudico e sessuofobo, ovvio che Mozart potesse sembrare un pericoloso libertino, ma nessuno si è sognato di riscrivere il Don Giovanni, il revisionismo artistico non era arrivato a tanto nemmeno allora.

Tutto questo correggere il passato fa una certa impressione, poi, se si esce dal surreale dibattito e si fanno due passi nella società contemporanea, quella vera, e si scopre che le discriminazioni – reali, non letterarie – aumentano anziché diminuire. Che si parla di guerra con gli stessi toni garruli, disponibili e possibilisti – perché no? – del 1938, che si corre a comprare cannoni invece di ospedali, che i poveri sono più poveri, i ricchi più ricchi, i cittadini meno informati, i potenti più impuniti, le donne ammazzate di botte o a pistolettate. La sensazione è che tutta quest’ansia di cambiare il passato serva più che altro a mantenere il presente così com’è: niente più grassi e brutti nei libri, e poi, quando posi il libro, l’allegro massacro continua.

mer
15
feb 23

Le tueur au caillou (Torto marcio) in Francia

Torto marcio (Sellerio, 2017) è un romanzo a cui tengo molto. Per cui annuncio con molta gioia l’uscita in Francia, sempre per le benemerite Editions de l’Aube e la traduzione di Paolo Bellomo e Agathe Lauriot dit Prévost. Qui un paio di recensioni francesi

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mer
15
feb 23

Regionali. Chi non vota ha sempre torto? No, magari ha torto chi vota

PIOVONOPIETRELetti e compulsati i commenti del dopo-tsunami lombardo-laziale, forse bisogna ribaltare il concetto. Una cosa simile a quella famosa retorica kennedyana, sapete: non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, ma cosa puoi fare tu per il tuo paese, eccetera eccetera. Fuffa. Ecco. Forse la domanda non è: perché la gente (sei su dieci) non è andata a votare, ma perché l’hanno fatto quelli che ci sono andati (4 su dieci, anche meno). E’ la minoranza che dovrebbe spiegare, non la maggioranza. E la maggioranza ha detto chiaro e tondo che questo modello di democrazia rappresentativa non la rappresenta, non è credibile né per proposta politica né come meccanismo. Traduco in italiano: nessuno – nemmeno quelli che sono andati a votare – crede veramente che votando Tizio piuttosto che Caio, una compagine piuttosto che un’altra, cambierà realmente qualcosa. La percezione diffusa è che la scelta sia inesistente, farlocca, questione di sfumature. Che questo sia vero o no (ci sono ovviamente centinaia di varianti, e sfumature molto brutte) non è importante, quel che conta è la percezione e la sua ricaduta sulla realtà.

Nella ridente Lombardia, da dove scrivo, locomotiva italiana e vanto dei dané, se ti serve una gastroscopia paghi sull’unghia, oppure aspetti un anno e più, e questo, nonostante le belle promesse e le belle parole, non cambierà perché lo dice un candidato o perché campeggia nei programmi distribuiti nei mercati. La parola “eccellenza” si spreca in lungo e in largo, ma se non hai soldi, o un’assicurazione che costa soldi, di eccellente non c’è niente, il tuo medico di base sembra disperso in Nepal e vai al pronto soccorso, dove ti rimbalzano, per un mal di testa.

Il Pd di Majorino – giustamente considerato più a sinistra delle fantasiose candidature Pd degli ultimi decenni – spingeva il famoso Pregliasco (non eletto), virologo à la page durante la pandemia e dirigente della sanità privata, il che non è, anche dal punto di vista dei simboli e dei segnali, il modo migliore per “rilanciare la sanità pubblica”, come si diceva a ogni passo. E in caso di vittoria, ipotesi peregrina, d’accordo, si sarebbe installato un comitato incaricato di “immaginare (sic) una buona politica per lo sviluppo della Regione”, affidato a… Carlo Cottarelli.

Poi dice che la gente non va a votare.

Sempre nella ridente Lombardia di Attilio Fontana, nei comuni martiri di Alzano Lombardo, Albino, Nembro, la coalizione della destra ha sfiorato il sessanta percento, e anche quelli scampati a una gestione delirante della pandemia, a votare non ci sono andati. Già, la pandemia, il Covid, l’emergenza, l’afflato emotivo delle “bare di Bergamo”. Non pervenuti. Il signor Gallera di Forza Italia – quello che andava in giro a dire che per prendere il Covid dovevi incontrare due positivi insieme, e che nei momenti più bui vagheggiava di diventare sindaco di Milano – pur non eletto, ha preso le sue belle preferenze, oltre cinquemila. La badante di Fontana che lo sostituì all’assessorato, Letizia Moratti, gioia dei salottini chic finto-progressisti della Milano da bere, salutata come salvatrice della Lombardia solo perché nel frattempo erano arrivati i vaccini, non entra in consiglio, naufragata come i due cabarettisti che si sono inventati la sua candidatura. Ora si dirà, come sempre, che chi non è andato a votare ha torto. Può darsi. Ma, visti i risultati, si può dire anche il contrario: è chi è andato a votare che ha torto. Questione di punti di vista.

mer
8
feb 23

Lombardia canaglia. Letizia Moratti e il voto inutile, ma utile per la destra

PIOVONOPIETRETra le cose degne di nota della regione Lombardia, oltre a bellissimi laghi, montagne spettacolari e pregevoli formaggi, segnaliamo Letizia Moratti, candidata del cosiddetto Terzo Polo, che nell’imminente weekend elettorale metterà il suo nome, il suo prestigio e la sua storia al servizio del presidente uscente e rientrante Attilio Fontana, della Lega (quello dei soldi alla Bahamas, poi trasportati in Svizzera, nel caso vi foste scordati).

Moratti, per farla semplice, aiuterà la Lega, Forza Italia, parlandone da viva, e le falangi meloniane a vincere le elezioni, compiendo così la sua missione storica di sconfiggere il centrosinistra (non che si faccia fatica). I sondaggi sulle intenzioni di voto parlano abbastanza chiaro: danno Fontana intorno al 45 per cento, Majorino (Pd) dalle parti del 33, e lady Moratti sul 20 scarso. Niente male per gente – penso ai terzopolisti quando giocavano nel Pd – che ci ha sempre sfracellato gli zebedei con la tiritera del voto utile, che deve convergere sul più forte, che non va disperso, che non va frammentato. Ecco: se Attilio Fontana and his band (anche il mirabolante Gallera che per contagiarsi di Covid doveva incontrare “due positivi contemporaneamente”… poi dite che non sono talenti!) se la caverà ancora una volta conquistando la Lombardia, dovrà dire grazie a Letizia Moratti e a chi l’ha candidata, cioè il genio incompreso Carlo Calenda e quell’altro socio in ditta, quello del rinascimento saudita. Gloriosa apoteosi del voto inutile.

Facciamola breve: un romano dei piani alti e un toscano della provincia che circuiscono un’anziana signora lombarda avida di poltrone e potere, convincendola che può vincere chiedendo i voti di quegli elettori che anni fa la cacciarono dal Comune di Milano, ritenendola con molte ragioni sindaco impresentabile. Una che quando arrivò al ministero dell’Istruzione (2001, regnante il vecchio Silvio) fece il bel gesto di togliere la parola “pubblica” dalla carta intestata e che oggi, da candidata dice che la scuola è la sua priorità chiedendo voti a sinistra,.

In attesa del voto inutile per Letizia Moratti e i suoi due scudieri teorici della sconfitta, va registrato qualche smottamento. Silvio buonanima, preoccupato che Fratelli d’Italia gli mangi il partito e gli elettori, mormora (indiscrezioni giornalistiche) di preferire Letizia, ma è subito retromarcia, sennò gli alleati se lo mangiano davvero. La sua plenipotenziaria Licia Ronzulli si scaglia contro Moratti dandole della “gallina”. Lo stile è tutto, ma Moratti può contare sul voto convinto di qualche salotto (pardon, living) dove si coltiva la buona conversazione e la nostalgia del bel tempo che fu, quando la borghesia similcolta e similprogressista contava ancora qualcosa, signora mia. Al tempo stesso, la sciura Moratti, in trance agonistica, corteggia i tassisti – minoranza rumorosa considerata forza di gran capacità propagandistica – smentita dal suo stesso pigmalione Calenda, che su licenze, Uber e liberalizzazioni ha idee diverse. Interessante caso di candidata che smentisce la linea del partito che la candida, che smentisce la sua candidata. Del resto in quanto a capacità di ribellarsi ai capi, la signora non ha rivali. Chiamata in regione Lombardia per mettere fine alle performance comiche di Gallera, è diventata vice di Fontana, autocandidandosi alla presidenza per il centrodestra, poi autoescludendosi con stizza perché rifiutata, poi autoproclamatasi di sinistra, in modo così convincente da convincere Calenda e quell’altro campione, che Fontana dovrà ringraziare per il servizio reso.

mer
1
feb 23

Il Fanta-Zelensky. Indovina cosa chiederà il premier ucraino

PIOVONOPIETREPiù del fantacalcio, tragicamente imprevedibile, più del fantaSanremo, gioco di società per famiglie, impazza da mesi il fantaZelensky, incentrato sulla capacità di indovinare le richieste del presidente ucraino alla comunità internazionale, ogni giorno rinnovate, anche con una certa capacità di sorpresa. Per dire: è dell’altro ieri la strabiliante richiesta (alla Germania) di sommergibili (!), richiesta che segue la richiesta di carri armati, he segue la richiesta di caccia F-16, che segue la richiesta di missili a lunga gittata, eccetera, eccetera. Ci sveglieremo una mattina con la pressante richiesta di gas nervino? Di testate nucleari? La politica italiana, che ubbidisce agli ordini battendo i tacchi, aumenta al due per cento del Pil la spesa in armi: “Riempire gli arsenali e svuotare i granai” è la parola d’ordine, accolta con grandi applausi da parte del novanta per cento (abbondante) di giornali, tivù, e in generale degli apparati informativi del paese.

In attesa degli sviluppi militari (non entro nelle questioni belliche) e degli sviluppi della propaganda (non entro nelle polemiche sanremesi), balza agli occhi una questione generale – diciamo così strutturale della nostra democrazia – su cui vale la pena riflettere. L’opinione pubblica sembra scollata, distante, lontanissima dall’opinione dei media. Senti la gente, guardi i sondaggi e apprendi che la maggioranza degli italiani è contraria ad ulteriori invii di armi in zona di guerra; poi leggi i grandi giornali, o ascolti un qualunque telegiornale, o notiziario, e la sensazione è quella opposta: appoggio incondizionato, avanti fino alla vittoria finale, eccetera, eccetera.

Uno scollamento strabiliante, non nuovo ma mai visto in queste dimensioni, con le storture e le anomalie che ne seguono. La prima, macroscopica, infantile e un po’ miserabile, l’accusa di “stare con Putin” a chiunque immagini soluzioni diverse dalla guerra a oltranza; quindi chi pronuncia parole come “cessate il fuoco” o “trattative” diventa una specie di Rasputin assetato di sangue alle dipendenze del Cremlino. La seconda, un po’ ridicola, è la voluta confusione storica per cui la Russia (la Russia di Putin, quel mefitico concentrato di nazionalismo che ha privatizzato le ricchezze del paese) sarebbe ancora sovietica quando fa comodo, o imperiale quando fa comodo, bolscevica se serve, a piacere. Terzo elemento, piuttosto inquietante, la necessità – data dallo spirito embedded della stragrande maggioranza dei media – di nascondere accuratamente i limiti, diciamo così, della presunta democrazia ucraina. Tanto che quando Zelensky fa pulizia di alcuni politici e funzionari corrotti, pochissimi notano – e tutti tra le righe – che la giustizia in Ucraina è assoggettata al potere politico, che si sono messi fuori legge partiti, chiusi giornali, si sono unificate reti televisive e altre cosucce ancora. “L’Ue insiste da mesi che il sistema giudiziario ucraino sia reso indipendente”, scrive il Corriere della Sera come en passant, un inciso, un apostofo rosa tra le parole: stiamo riempiendo di armi un paese non Ue che non ha nemmeno lontanamente i requisiti per entrarci.

La sensazione è che ci siano due opinioni pubbliche: quella dei cittadini, oltre il 50 per cento contrari a nuovi invii di armi, che conta pochissimo, e quella dell’informazione (vorrei dire delle élite) che invece è favorevole al 98 per cento e pesa parecchio. Uno scollamento che è un dato di fatto, non positivo in una democrazia, comunque la si pensi sulla guerra, sulle armi e su Sanremo.

mer
25
gen 23

Le Olimpiadi 2026. Salvini punta a battere la corruzione col cronometro

PIOVONOPIETREMentre il Paese si appassiona e freme per i poster nella cameretta del boss, per la mafia che non usa il telefono, per l’attesa febbrile di Zelensky a Sanremo, rischia di passare inosservata una piccola questione edilizia sulle Olimpiadi invernali del 2026. Roba banale, da carpentieri e capi-cantiere, che fa persino vergogna parlarne, Eppure bisogna.

Per la pista di pattinaggio veloce di Baselga di Piné (Trento) serve una copertura, cioè, così chiede la Federazione Internazionale, e fare la copertura (il tetto) costa più di 50 milioni, qualcuno dice 75, che è una bella botta, specie se si considera che il pattinaggio di velocità non è esattamente lo sport più popolare del Paese, non siamo mica in Canada, e quindi sarebbero parecchi milioni spesi non benissimo, diciamo. Si propone Torino, che ha un impianto per il pattinaggio ad alta velocità (l’Oval) avendolo costruito per altre Olimpiadi invernali, quelle del 2006; e siccome non è che in autostrada c’è la fila per andare a pattinare a duecento all’ora, ci si chiede se l’Italia sia pronta ad avere ben due piste così costose che – in assenza di Olimpiadi – servono a una dozzina di persone. Considerati i praticanti di pattinaggio veloce, insomma, si tratterebbe di stanziare un milioncino a testa, tanto vale darglielo in contanti e spedirli a pattinare in Alaska. Cosa che, tra parentesi, vale anche per la famosa pista di bob di Cortina, che costerà come una spedizione su Marte perché bisogna praticamente demolirla e ricostruirla, mentre ce n’è una seminuova a Torino, chiusa perché non la usa nessuno, e la gente che pratica il bob, in Italia, ammonta a una ventina di persone.

Nonostante tutto questo – e molte atre cose ancora – non si interrompe il mantra rassicurante che risuona ovunque (dal Coni al Cio, alla regione Veneto, alla regione Lombardia, alla ridente e innevatissima città di Milano, a Cortina, eccetera): le Olimpiadi sono un affarone, arriverà un sacco di gente, dormirà tra Cortina e Milano, spenderà dei soldi, diventeremo tutti ricchi e l’economia ne trarrà giovamento. La solita fuffa dei grandi eventi: si passano anni a decantare ipotetici guadagni (prima) e anni a leccarsi le ferite (dopo), mentre si nega di averne riportate (Expo docet), con l’aggravante che se dici qualcosa di critico passi per nemico dello sviluppo, del Paese, retrogrado e noioso.

Naturalmente tutti siamo portati all’ottimismo, specie da quando Matteo Salvini è ministro delle Infrastrutture. Perché siamo sicuri che infrastrutture decenti chissà, ma il buonumore è assicurato. “Dovremo correre come matti”, dice constatando ritardi spaventosi (il completamento di alcune opere per le Olimpiadi del 2026 è previsto nel 2027, che meraviglia!). Ma non solo, eccolo ribaltare il grande assioma del malaffare nazionale: “C’è chi pensa che la corruzione si contrasti con una lunga procedura di controlli – dice al Sole 24 Ore – io penso il contrario, con meno uffici in cui le pratiche girano ci sono meno probabilità di incontrare corrotti e corruttori”. Cioè (traduco dal salvinese all’italiano): se facciamo i lavori in fretta, senza controlli, di corsa, senza guardare chi li fa, come, con quali materiali, con quali appalti, con quali regole, corrotti e corruttori non riescono a starci dietro e tutto sarà pulito. Insomma, Salvini punta a battere la corruzione col cronometro. Quando arrivano a braccetto, corrotto e corruttore, trovano l’opera già fatta, e lui lì col cacciavite in mano e un sorriso olimpico. Ve l’ha fatta, eh! Che sagoma!

mer
18
gen 23

Sangiuliano. Ora dire sciocchezze su Dante si chiama “provocazione”

PIOVONOPIETRENon cascherò nella trappola con tutte le scarpe, promesso. Non mi fingerò dantista provetto, espertone del Sommo Poeta, esegeta del pensiero guelfo, o ghibellino, e quindi non commetterò la stupidaggine di contestare con argomenti colti la stupidaggine del ministro della cultura (ossignur! ndr) Gennaro Sangiuliano su Dante Alighieri (“fondatore del pensiero di destra in Italia”… ehm… imbarazzo). Lo hanno fatto fior di pensatori, studiosi, medievalisti, dantisti e dunque mi ritiro in buon ordine nel piccolo orticello di questa rubrichetta per notare un paio di cose che sono vezzi contemporanei ben radicati e che vanno al di là delle performance critiche del fu direttore del Tg2.

Prima di tutto, c’è il rispetto di una regola aurea, un grande classico della retorica da marcia indietro, quando non si vuol dire apertamente “Ho detto una cazzata” e allora si butta tutto in caciara con “Ho fatto una provocazione”. Più che una deviazione in corner è un salvataggio sulla linea di porta (mi scuso per la metafora calcistica: il Pertrarca, che tifava Arezzo, mi capirà), cioè un tentativo piuttosto disperato di ribadire una cosa e darle una certa nobiltà anche dopo che tutti ti hanno riso in faccia (“provocazione”, roba da agitatore culturale, da stimolatore di dibattiti).

Lasciate Dante e Sangiuliano, questi due sommi poeti, al loro destino e fateci caso, spesso, spessissimo, quando si rivendica una “provocazione” è esattamente quello: ho detto una cosa piuttosto campata per aria e la rivendico in forma di paradosso. Purtroppo, il ministro Sangiuliano si lancia (sul Corriere) pure in digressioni colte, tira in ballo “l’idea di Nazione”, Aristotele e San Tommaso d’Acquino, forse di destra anche loro, mentre Platone era del Pdup, e qui perde un po’ colpi. Ma insomma, la sua difesa principale resta quella della “provocazione”, che è un lasciapassare insuperabile. Chi può smentire? Chi può contestare? Se io dico che un pittore amatoriale, un imbrattatele della domenica, vale Giotto o Caravaggio e tutti mi guardano come un matto, posso sempre cavarmela con la “provocazione”, questa comoda uscita di sicurezza sempre aperta, sempre disponibile.

E sia, non ci stupisce che alcuni dei più triti trucchetti della dialettica siano applicati dalla politica, mentre stupisce, invece, che qualcuno li prenda ancora sul serio. Perché è la seconda parte della difesa in due mosse del ministro che colpisce. Vediamo dall’apologia di Sangiuliano scritta da sé medesimo: “Nessuno pensa che la sua opera e le sue idee (di Dante, ndr) possano esaurirsi nello spazio di uno scritto e tantomeno di una battuta” (lui ha fatto esattamente una battuta). “E nessuno pensa che la sua opera e le sue idee possano essere trasposte, sic et simpliciter, nel mondo contemporaneo” (esattamente come ha fatto lui). Per concludere: “Ma se la provocazione che ho fatto è servita a far riprendere a qualcuno in mano i libri di Dante Alighieri, è già un buon risultato”.

Ecco fatto: la frittata è rivoltata, la magia compiuta e lo stratagemma dialettico risolto come un sudoku per principianti. In sostanza ho detto una scemenza su un argomento preciso, poi l’ho chiamata provocazione per nobilitarla, poi ho rivendicato che senza la mia provocazione voi tutti – bestie – non avreste approfondito quell’argomento preciso. Come tutti sanno Domodossola è in Bolivia. Una cazzata? Ma no, è una provocazione! E senza di me – ignoranti che non siete altro – non avreste mai ripreso in mano una cartina della Bolivia. Facile, eh!

mer
11
gen 23

Governo e benzina. Hanno la faccia come il pieno: le accise dei dilettanti

PIOVONOPIETREQuello della benzina, e di suo fratello gasolio, è un caso di scuola, una dimostrazione pratica di come la politica – sempre presentata come complicata alchimia – possa essere letta anche dalle persone più semplici, con ragionamenti lineari. Il benzinaio di Occam, insomma: la spiegazione più semplice è spesso quella più probabile.

Chi fino al 25 settembre 2022, data delle elezioni, ululava più forte contro le accise sui carburanti, una volta eletto non solo non le ha ridotte, ma ha ripristinato anche quelle ridotte dal governo Draghi. Come promettere di darvi dei soldi (parliamo più o meno di un miliardo al mese) e poi fregarveli da sotto il naso: furto senza destrezza.

Sedici, diciotto, venti centesimi. Tanto dovevano aumentare i carburanti per colpa delle accise ripristinate del governo di Giorgia Meloni, quella che prima delle elezioni vibrava di indignazione contro le accise. E invece, colpo di scena, gli aumenti sono lievitati del doppio e anche di più con grande sorpresa dei governanti che hanno fatto ooohhhh!, e invocato il solito spettro della “speculazione”. Speculazione, sia detto per inciso, sempre ad opera di ignoti, che loro sarebbero pagati per combattere, invece di restare stupefatti, basiti e paralizzati dallo stupore.

Un aumento consistente dei carburanti, naturalmente, porterà ad un aumento di tutte le merci che vengono trasportate, e siccome non esiste un prodotto di consumo che arrivi a casa vostra a piedi, nel giro di qualche settimana aumenterà tutto perché – signora mia – è aumentata la benzina. E siccome non abitiamo su Alpha Centauri come alcuni dei ministri del governo italiano, sappiamo anche che i prezzi aumenteranno di qualche decina di centesimi più dell’aumento dovuto ai carburanti. Riassumendo: il governo di quella signora che in campagna elettorale si faceva filmare al distributore minacciosa e indignata contro il caro carburanti, ha rincarato i carburanti, avviando una vera e propria spirale di aumenti delle merci di consumo, una vera manovra recessiva che si aggiunge all’inflazione superiore al dieci per cento. Una dichiarazione di guerra ai cittadini, insomma, una specie di esproprio.

Per fortuna ci viene in soccorso Giovanbattista Fazzolari, che di lavoro fa il sottosegretario, oltre che il “Responsabile del programma di Fratelli d’Italia”, il quale ci spiega che i soldi che finanziavano il taglio delle accise sotto il governo Draghi oggi sono stati destinati a “misure mirate ai aiutare i più deboli”. Capito, Robin Hood Fazzolari? Voi pagate la benzina anche quaranta, cinquanta, sessanta centesimi in più al litro, e così il governo aiuta i più deboli. Non siete orgogliosi? Se poi vai a vedere chi sono ‘sti deboli che stai aiutando… mah… le partite Iva da 85 mila euro l’anno, i presidenti delle squadre di calcio, le spese per gli armamenti, e altre meritevoli debolezze. I deboli veri, ovvio, cazzi loro.

A una settimana dal consiglio dei ministri che ha ripristinato alcune tasse sui carburanti, insomma, il/la presidente del Consiglio e i suoi più ascoltati consiglieri sono costretti a riunirsi per discutere dell’aumento dei carburanti, e probabilmente a convocare un altro consiglio dei ministri per affrontare il rincaro dei carburanti. Se gli fate notare la figura da cioccolatai e la distanza lunare tra quel che dicevano prima delle elezioni e quello che fanno dopo, si metteranno a frignare e a dare la colpa ad altri (la speculazione!), perché le accise sul vittimismo dei dilettanti sono sempre altissime.

mer
4
gen 23

Strategie. La richiesta di ottimismo è la malattia infantile del melonismo

PIOVONOPIETRECi sono parole fuori posto, che piovono male, che non c’entrano niente, così estranee al contesto che sembrano appoggiate lì per caso. O per convenienza, per ridicolo calcolo, o peggio per speranza, o peggio ancora come piccola assicurazione sui fallimenti futuri: parole che mettono le mani avanti. Una di queste parole, ricorrente al punto da essere noiosa, è “ottimismo”, non a caso sbandierata fieramente dal/la signor/a Giorgia Meloni nei suoi auguri (soprattutto a se stessa e ai suoi arditi) di fine anno. “Un 2023 di orgoglio e ottimismo”, augura il/la presidente del Consiglio, che vuol “sollevare questa nazione”, “rimetterla in piedi”, “farla camminare velocemente con entusiasmo”, e, ovvio, “dobbiamo farlo insieme”. Con il che si capisce bene il sottotesto: se voi non avete entusiasmo, ottimismo e non lo farete insieme, beh, un eventuale disastro sarà colpa vostra. Un classico.

Giorgia, donna, madre e cristiana, non è che inventa molto, diciamolo. Ancora ci ricordiamo quello là col sole in tasca, il Berlusca buonanima, che andava dicendo che i pessimisti si tirano addosso la sfiga da soli, e quindi non essere ottimisti non è un atteggiamento, ma un concorso attivo alla catastrofe. Vennero altri ottimismi, più organici all’ubriacatura liberale che piace tanto ai piani alti e altissimi del Paese. I primi giorni di Mario Monti fecero saltare l’ottimistometro nazionale, e pareva che fosse atterrata la Madonna in persona, il loden al posto del velo, per sistemare le cose con la sola imposizione delle mani della Fornero. Si è visto.

Altro sussulto di ottimismo sfrenato, la comparsa di Mario Draghi, quando pareva che l’Europa bussasse da ogni italiano con i contanti in mano dicendo “tenga buon uomo”, e i giornali titolavano sulla pioggia di miliardi in arrivo, praticamente già infilati nella nostra casella della posta. Si è visto anche lì, e basterebbe a mettere una moratoria di dieci anni sulla parola ottimismo, almeno in politica.

Quali motivi ci siamo oggi, essendo italiani, per essere ottimisti, è piuttosto misterioso. L’inflazione al dieci per cento, il lavoro che si precarizza sempre più, il welfare che svapora, le bollette, la guerra di altri che ci costa come se fossimo in guerra noi. Basta dare un’occhiata a ricerche e sondaggi per scoprire che il segno meno, in quanto a fiducia, domina incontrastato, e non sarà certo chiamare il Paese “Nazione” (o i camerati “patrioti”) che ci indurrà a cambiare idea. Di solito, l’ottimismo è un afflato piuttosto irrazionale (“Gli ottimisti sono la claque di Dio”, diceva mirabilmente Gesualdo Bufalino), mentre il pessimismo è mesto realismo. Una differenza che chiunque può capire se si sveglia con Giorgia ottimista, la benzina più cara, le autostrade più costose, il mutuo più stretto al collo, lo stipendio che vale meno e l’assistenza scomparsa per dare una mano ai presidenti delle squadre di calcio, i veri bisognosi del Paese.

Ma quando si invoca ottimismo – come il sor/sora Giorgia fa un po’ maldestramente, nel suo stile – si intende un’altra cosa. Si intende solitamente uno spirito collettivo, un vento che porta non solo consenso, ma convinzione, un’aria frizzante di partecipazione emotiva dei cittadini che oggi non si vede, non risulta, non c’è, e non ha motivo di essere.

Meloni faccia la sua strada in salita, non cerchi appigli, non invochi aiutini da casa come nei telequiz, non si appelli all’ottimismo della popolazione al quale ha finora contribuito soltanto bastonando i poveri e aumentando la benzina: non un grande contributo.

mer
28
dic 22

Previsioni serie per il 2023. “Andrà tutto bene”, come dissero a Pompei

PIOVONOPIETREFinisce il 2022, ed è probabilmente l’unica buona notizia del 2022.

Il 2023 s’avanza a lunghi passi distesi, mancano pochissimi giorni, e quindi è il momento delle previsioni, dei buoni propositi, delle necessarie illusioni e dell’”andrà tutto bene”, come dissero a Pompei guardando il primo filo di fumo del Vesuvio.

Prima regola: davanti a un anno nuovo non bisogna essere prevenuti e avere un atteggiamento negativo, no, bisogna aspettare almeno il 15 gennaio, e poi si può cominciare con il pessimismo. Un solo pensiero deve occupare la mente dell’italiano che guarda davanti a sé: cosa potrebbe andare storto? E dunque stilare un elenco infinito di cose, faccenda che potrebbe occuparlo fino alla fine dell’anno, distraendolo da disastri più o meno annunciati.

Per esempio, il congresso del Pd, che segnerà il 2023 come l’anno in cui il Pd scelse un nuovo segretario, che sarebbe il decimo in quindici anni di vita (e non conto i bis e gli interim). Forte di questa incredibile novità – un segretario nuovo di zecca che vanta nel curriculum una vittoria per un pugno di voti contro Lucia Borgonzoni, e ancora ne parla come fosse la battaglia di Okinawa – il Pd potrà affrontare il futuro con piglio deciso e autorevole insieme ai suoi duecentocinque elettori.

Purtroppo, l’asse della politica penderà ancora verso destra: Meloni, cognato, Crosetto e altri bellimbusti, più il duo comico del Terzo Polo, al momento (fine 2022) un po’ seccato perché a Palazzo Chigi non hanno ascoltato i suoi consigli. Ora, per tutto il 2023, tenteranno di compiacere Meloni in tutti i modi, un po’ per candidarsi a stampella del governo, un po’ per farsi notare. Fiume Italiana, Nizza e Savoia, magari la befana fascista o il gli esercizi ginnici il sabato: già pare di vedere Calenda che parla di “tradizioni liberali” come l’oro alla patria o le bonifiche delle paludi.

Proseguirà la riforma della giustizia con decisive novità sulle intercettazioni: saranno tutte autorizzate quelle a carico di giudici e pm, che saranno intercettati regolarmente. E finalmente ecco la separazione delle carriere: la carriera di colletto bianco, dirigente, manager, politico, separata da quella di imputato, definitiva dimostrazione che in Italia il garantismo si applica per reddito.

Continuerà, nel 2023, l’entusiasmante guerra ai poveri che tante soddisfazioni ha dato alla destra, alla sinistra (parlandone da viva), ai grandi giornali, alle televisioni, a Matteo Renzi che teorizza di educare i poveri con la sofferenza, sennò che gusto c’è. Dopo aver tolto il reddito di cittadinanza a migliaia di indigenti ribattezzandoli “occupabili”, si studierà di escludere anche quelli con una gamba sola (“saltellabili”) e a quelli senza fissa dimora (“barbonabili”). Sono allo studio misure restrittive anche per altre categorie di nullatenenti, spiantati, disperati a cui non è giusto garantire sussidi statali, almeno finché hanno ancora degli organi (“asportabili”).

Queste norme permetteranno di risparmiare alcune decine di milioni che potrebbero più proficuamente essere destinate alla ricopertura in broccato e oro delle poltroncine delle tribune vip degli stadi di calcio, un aiuto concreto a presidenti di squadre che attraversano purtroppo una drammatica crisi.

Come si vede, le sfide del 2023 saranno numerose e impegnative, ma ci tempreranno e ci renderanno migliori, più consapevoli e più generosi nei confronti di alcune categorie in sofferenza, come ad esempio i produttori di armi, a cui regaleremo un’ottantina di miliardi in più.

Auguri a tutti.

ven
23
dic 22

Gli anni di piombo della caccia al cinghiale

 Non c’è occasione di satira, spiritosaggine, freddura, motto di spirito, battuta, più ghiotta di una legge cretina: l’emendamento di Fratelli d’Italia alla Finanziaria che riguarda l’abbattimento della fauna selvatica. Anche nelle aree protette, anche nelle aree urbane, anche nei periodi di silenzio venatorio. Insomma, per i cinghiali è la famosa tolleranza zero: pena di morte per impallinamento, ad opera di zelanti cacciatori che potranno girare tra cassonetti, giardinetti e controviali armati fino ai denti, colpo in canna, sguardo vigile, visori notturni, cani da punta, giberne piene di cartucce, stivali da palude, lasciando a casa soltanto il loro peraltro già scarso senso del ridicolo.

Scene di caccia metropolitana, con tutto quello che ne consegue: gente che gira armata, errori, abbagli, colpi che partono per fatalità e disgrazia: “Vostro onore mi sembrava che grufolasse, giuro… che c’entra che ronzava intorno a mia moglie? E’ stato un incidente!”.

Come si muoveranno i cacciatori urbani? A piedi in lunghe marce estenuanti? O in macchina, per raggiungere le zone più frequentate dagli ungulati? In questo caso, avere decine, forse centinaia di automobilisti armati tra la Salaria e la Flaminia nuova, assonnati alle prime luci dell’alba, oppure nervosi come marines in missione notturna tra la Prenestina e la Collatina, sarà un eccellente sistema per fare un po’di selezione della specie: sopravviveranno solo i più svegli. Peccato per i danni collaterali, le vittime civili, le signore che alla luce tremolante e fioca dei lampioni scendono a buttare il sacchetto nel cassonetto dell’umido, magari indossando la prima cosa che capita a tiro, ecco, eviterei le pellicce, anche sintetiche (“Vostro onore, le giuro che…”, come sopra).

Indotto economico notevolissimo: impennata delle vendite per tutti gli strumenti di protezione individuale. No, non le mascherine, ma caschi, giubbotti antiproiettile, tuniche catarifrangenti, kit di primo soccorso, corsi di aggiornamento per infermieri (“Pallini: come estrarli da gambe e braccia”), senza contare il rafforzamento del servizio ambulanze.

Insomma, c’è da far felice Crosetto: più doppiette per tutti, munizioni, sistemi d’arma, esplosivi, trappole, fucili automatici, mitragliatori. E tutto non solo nei parchi, nelle riserve naturali, nelle zone di ripopolamento dove si possono far più danni ecologici di un concerto di Jovanotti, ma anche ai margini della Cristoforo Colombo, o dell’Aurelia, a diradare il traffico a colpi di pallettoni vaganti (“Lo so che era una Ford Fiesta, vostro onore, ma le giuro che sembrava…”, come sopra).

Si potranno mangiare le vittime. No, non la signora che butta l’umido o il barbone che dorme al parco, scambiati per fauna selvatica, ma proprio i cinghiali uccisi a pallettoni, stesi sull’asfalto, dissanguati. Nasceranno così generazioni di scuoiatori, sezionatori, macellatori di prede urbane, nuove professioni, un milione di posti di lavoro, finalmente! Per i più formidabili, incredibili, demenziali anni di piombo che la storia ricordi.

mer
21
dic 22

La manovrina. Giorgia “tira dritto” come il camerata Gavazza di Risi

PIOVONOPIETREChe il Signore ci mantenga il ricordo indelebile del genio Tognazzi Ugo, e del maestro che lo diresse ne La marcia su Roma (Dino Risi, era il 1962), perché di quel personaggio – camerata Umberto Gavazza, presente! – è lastricata l’italianità grottesca dell’oggi, il melonismo del “noi tireremo dritto” e del “non ci faremo intimidire”. Figurarsi.

Ad ogni curva della sua marcia su Roma, il Gavazza tirava una riga su un punto del programma del fascio: via questo, via quello, e questo lo cancelliamo, e questo ce lo scordiamo, eccetera eccetera. Esattamente come fanno le truppe meloniane giorno dopo giorno nelle ore che ci separano dalla fiducia sulla famosa manovra che doveva cambiare tutto e che invece porrà qualche ritocchino qui e là – draghismo dell’obbligo – mentre le bandiere e i labari identitari tornano nel sottoscala, con la naftalina e i busti del Puzzone, chissà, ci saranno momenti migliori per tirarli fuori di nuovo. Insomma, contrordine camerati, perché il Pos torna quel che era, la pacchia (sic) non è finita, il fatto che uno possa avere in casa dei contanti per mille motivi, come disse il/la premier e che quindi possa diventare un delinquente se li spende era un tristo arrampicarsi sugli specchi insaponati e adesso, mestamente, il/la Giorgia deve fare marcia indietro. Come il sempre più smarrito e deluso camerata Umberto Gavazza, anche Giorgia tira una riga sulle sue belle teorie e punti del programma: cava di tasca il foglietto delle promesse e cancella il punto del Pos, del contante, del “li spendo come voglio”.

Peggio mi sento con le pensioni minime di Silvio buonanima. Anche lì era glorioso un “pane e figa per tutti”, le minime a mille euro, senza contare quelle (sempre a mille euro) per le “nostre mamme e le nostre nonne”, hurrà, arriva Silvio con la sua cornucopia di dané. Macché, porca miseria, Gavazza Umberto in marcia verso Roma, vestito d’orbace e stivalato a dovere, cancella anche quello. Seicento euro, ed è già cara grazia, e solo per chi ha più di 75 anni, e solo per il 2023. Cioè un bonus, alla fine, uno di quei tanti odiati bonus che il programma voleva eliminare e oplà, altra riga tirata su una voce dell’elenco, altra promessa cancellata strada facendo.

E del resto anche il/la Meloni che prometteva “mille euro agli italiani che ne hanno bisogno con una semplice domanda”, si sentirà un po’ ridicola, pensando a quella sua promessa populista, di cui circola impietoso il video in cui lei guarda dritto in camera, pancia in dentro, petto in fuori: mille euro per tutti… e lì il camerata Gavazza la riga l’aveva già tirata da un pezzo, tanto era cretina  e peregrina la promessa.

E poi altra riga sulle famose multe annullate, che insomma è vero sì ed è vero no, perché decideranno i comuni e non è detto che le abbuonino, forse si limiteranno a limare gli interessi.

E poi riga definitiva, tirata forever a cancellare la famosa flat tax, che al momento è un regalo agli autonomi fino a 85.000 euro, mentre nel foglietto degli impegni solenni del gerarca bacia-salami, alla vigilia, era la madre di tutte le promesse: il 15 per cento di Irpef per tutti. Risate in sottofondo e il camerata Gavazza che ancora una volta estrae il foglietto dalla tasca e una matita dall’altra e dice: “E anche questa… cancelliamo”. Ecco, niente male per quelli che erano arrivati per fargliela vedere, ai burocrati di Bruxelles!, e che poi, andati per menare, erano stati menati loro, al grido poco littorio del “Forse che ci lasceremo intimidire?”. Risposta: sì.

mer
14
dic 22

Qatar, Libia e Iran. Il campo dei diritti umani è il camposanto dell’ipocrisia

PIOVONOPIETREDei diritti umani non si butta niente. Sacchi di soldi, vacanze da sogno, padri (quello della ex vicepresidente del Parlamento Europeo greca Eva Kaili) che se ne vanno alla chetichella con il trolley pieno di contanti, stati del Golfo che cacciano il grano per avere “buona stampa”, ex sindacalisti come Antonio Panzeri col malloppo in casa. Siccome succede in Belgio, ancora non si è alzato nessuno a gridare alla giustizia a orologeria, ai manettari giustizialisti, eccetera eccetera, esistono posti dove la legge è ancora uguale per tutti. Intanto, si gioca a pallone con l’aria condizionata proprio laggiù, in Qatar. Intanto, si mette su una finta indignazione che si ammorbidisce o si irrigidisce a seconda dei momenti: va a manetta se c’è lo scandalo, però vediamo la partita, però che cattivi, però che bravi… aggiungere a piacere.

Dei lavoratori morti a migliaia per costruire gli stadi in Qatar hanno parlato in pochi, e del resto soltanto qualche mese fa un senatore italiano andava in uno degli stati del Golfo, l’Arabia Saudita, a invidiare il locale costo del lavoro (la semi-schiavitù) debitamente retribuito – ma con regolare fattura – per le sue consulenze. Tutto legale, per carità, l’etica si paga a parte.

Il campo dei diritti umani è, insomma, il camposanto della più fervida ipocrisia, della morale elastica, doppia, tripla, quadrupla.

Se si volta pagina, dopo le cronache di quelli che pigliavano soldi per dire bravo al Qatar, troviamo i torturati della nave Humanity 1, arrivata a Bari col suo carico di umani senza diritti, molti torturati, le donne violentate, mutilate, i segni delle sevizie ricevute in Libia. Si sa, si legge, lo dice il telegiornale, così come dice che noi con la Libia abbiamo accordi – chiedere a Minniti – gli regaliamo motovedette con cui questi torturati qui, se li intercettavano, li riportavano indietro per torturarli di nuovo.

Sembra di sognare: c’è un’indignazione quasi di prammatica, obbligatoria (gente che fugge da quelli che persino il papa chiama “lager”), e poi la serena consapevolezza, che noi – noi Italia – quei lager li finanziamo. Una specie di alternanza emotiva: sì, certo, li torturano. Ma anche: sì, certo, i torturatori sono nostri amici, li finanziamo.

Schizofrenia di alta scuola, strabismo prodigioso: ci spiace per le vittime (forse) ma i nostri governi sostengono i carnefici (sicuro).
Ovvia, scontata, sacrosantissima, la solidarietà al popolo iraniano in rivolta, alle donne, prima di tutto, perché si parla di loro e dei loro corpi e dei loro capelli. E su questo c’è una commovente unanimità. Balzano in prima pagina le schifezze del regime, ci si strabilia per la stupefacente punizione all’atleta Elnaz Rekabi, campionessa di climbing “colpevole” di aver gareggiato alle olimpiadi senza velo: il regime le ha raso al suolo la casa, che infamia. Prassi che da decenni usa l’esercito israeliano nei confronti dei palestinesi, anche soltanto sospettati, senza che nessuno meni scandalo per questo, o anche soltanto lo scriva. Sacrilegio. Come si diceva, doppia morale, tripla, quadrupla. Si vede che i diritti umani dipendono anche dalla latitudine.

Tutti siamo a fianco del popolo iraniano in piazza, ma il rapporto annuale di Human Right Monitorsull’Iran dice che le armi che sparano sui manifestanti sono (anche) italiane, precisamente fucili Benelli M2 e M4, e ci sono sospetti anche su cartucce a pallini Cheddite made in Livorno. Chissà, forse con la solidarietà agli iraniani in rivolta si può fare qualcosa di meglio.

mer
30
nov 22

“Opzione danno”. In pensione solo le donne con otto figli e una gamba

PIOVONOPIETREL’iter della legge finanziaria è sempre un toboga gibboso irto di curve, ostacoli, rallentamenti, testacoda e assurdità. Il tema, in definitiva, è quello di cavare sangue dalle rape, trovar soldi dove non ce ne sono, tirare di qua e di là una coperta sempre troppo corta e mettere in atto i ghirigori ideologici di chi tiene il timone. Sempre pronto, tra l’altro, a battersi il petto come un eroe, a dire “non mi importa di essere impopolare!”, che se ci fate caso è la prima cosa che dicono quelli che venderebbero la madre per essere il più popolari possibile. Così, infatti, Giorgia Meloni è andata a parlare agli industriali veneti, assicurando che il governo sta con le imprese, ci mancherebbe, i suoi regali vanno valutati in cinque anni, non nella prima legge di bilancio e che già in quella, comunque, c’è l’assicurazione sulle mani libere dell’impresa. Non verrete ostacolati: andate e sfruttateli tutti. Amen.

Resta, come sempre e più di sempre, la sensazione della spremitura delle olive, a volte fino al ridicolo, livello a cui è giunta la famosa “Opzione donna”, cioè la norma che doveva permettere alle donne che lo volessero di andare in pensione un po’ prima. Puoi farlo, ok, ma devi avere un figlio (le non mamme cazzi loro), anzi meglio due, ma non basta. Devi avere un parente infermo e fargli da badante. Oppure (meglio) essere inferma tu, invalida più del 74 per cento. Donne! E’ arrivato l’arrotino! Potete andare in pensione venti minuti prima ma solo con otto figli, una gamba sola e il vecchio padre infermo appeso al collo. I giornali, seriosissimi, titolano trattenendo le risate: “Opzione donna, si riduce la platea”.

Sono gli stessi giornali che fino a due mesi fa ci descrivevano i percettori di reddito di cittadinanza come pascià sul divano, il narghilé in una mano, il telecomando nell’altra, sghignazzanti davanti ai poveri lavoratori madidi di sudore; e che ora scoprono che questi qui, i famosi fancazzisti da divano, non sanno quasi leggere né scrivere, che non sono occupabili, che non si sa cosa fargli fare, né dove, né come. Pazienza.

A proposito di essere più o meno popolari, bisogna in qualche modo ringraziare quel ventre molle del Paese (pardon, Nazione) che ha sostenuto la narrazione tossica dei cattivoni sul divano. Piccoli commercianti, piccoli artigiani, corporazioni pronte alla battaglia, potentati titolari di licenze, insomma tutti quelli che fare un po’ di nero non gli dispiace, ed ecco le norme sul Pos che si alzano e si abbassano come le paratie del Mose. Trenta euro, no, sessanta euro, ma in attesa di sentire cosa dice l’Europa. Insomma, signora mia, si prepara la festa nazionale del “caccia il contante”, con tanto di sghignazzamenti e sberleffi: “Mi volevi dare la carta? Marameo!”. Un paese moderno (pardon, Nazione), non c’è che dire.

Dove vadano poi tutti ‘sti soldi tagliati qui e là, ritagliati con le forbicine da rammendo o rapinati ai poveri, o sottratti al fisco, non è difficile da capire. Un’aliquota fissa al 15 per cento fino a 85.000 euro è un lusso da texani, finanziato coi soldi degli indigenti e dei poveracci. E in più – tradizione delle tradizioni – c’è il munifico regalo alla scuola privata: 70 milioni di euro in più nel 2023, elargiti con gesto elegante. “Ecco, qualche soldo per i chierici, su, su, prendete” dice il ministro, mentre alla cena di corte – che nemmeno si accorge della vergogna – discetta, con la parrucca incipriata, con l’ossequioso Bruno Vespa su come punire i discoli e gli indisciplinati. Ah, signora mia, che tempi!

mer
23
nov 22

Finanziaria. Meglio le bomboniere che i poveri: salviamo il matrimonio

PIOVONOPIETREVolendo esagerare, tirare un po’ la corda, fantasticare un po’ insieme all’onorevole Domenico Furgiuele (Lega), si può ipotizzare uno scambio di prigionieri: italiani poveri contro bomboniere. Il governo post-fascista che taglia sussidi a chi non ce la fa, e la proposta di finanziare i matrimoni in chiesa – era la prima idea di Furgiuele – locomotivamente fischiata (cit. Marinetti), tanto da allargare subito la profferta di benefit a tutti gli sposalizi italiani, che l’importante è soccorrere il comparto del wedding, signora mia.

Basterebbe questo, per dire delle componenti da operetta e delle priorità dei puffi del governo Meloni, dettagli, spigolature che emergono, chissà quanto involontariamente dalle cronache, a contrastare invece la narrazione ufficiale: una Meloni corrucciata e responsabile, che studia, che pare serissima, china e concentrata sulle carte. Ma sapete com’è, in quei contesti di orgoglio mascelluti, è un attimo che si cade nel Federale con Tognazzi, nella parodia, nel gorgo del ridicolo. Ed ecco infatti il ministro dell’Istruzione (e del merito! ahahah!) buttare subito lì nuove fantasiose repressioni, i lavori “socialmente utili”, da usarsi contro violenti e indisciplinati e anche – maddài! – in occasione delle occupazioni scolastiche. Una cosa che fa scopa con il pasticcio dei rave party: più di cinquanta e fa sei anni di galera, oppure tutti a imbiancare il liceo. Quanto a rifare i tetti dello stesso liceo, che cadono spesso e volentieri in testa agli alunni, il ministro non dice, non fiata, non argomenta, essendo un lavoro socialmente utile che spetterebbe a lui.

E sia, seguiamo le cronache dei nostri eroi. Mentre ministri e sottoministri si arrovellano per cercare nuove soluzioni ad antichi problemi (“i telefonini fuori dalla classe”, i “tutor per affiancare i docenti”, “buca”, “buca con acqua”, eccetera, eccetera), nel cuore del potere meloniano c’è qualche timore nuovo. “L’impatto di cancellare di botto il reddito di cittadinanza è devastante”, dice la ministra del Lavoro, riportata con virgolette qui e là. Tradotto in italiano, significa quel che molti dicono da sempre: che il reddito è un argine, una diga che protegge chi non ce la fa, e toglierlo di botto in un anno di recessione sarebbe come accendere una miccia. Cioè il contrario della vulgata retorica delle destre più estreme ed ottuse, Italia Viva, Lega e Fratelli d’Italia, sempre concentrate a dire cretinate sui divani, i fannulloni e varianti più o meno offensive. Cazzate: di quei 660 mila a cui verrà tolto ossigeno tra qualche mese, pochissimi potranno trovare un lavoro. Bassa scolarità, nessuna formazione, soggetti deboli: cancellare il reddito significa consegnarli alla disperazione o alla manovalanza della criminalità, oppure, nel migliore dei casi (speriamo) al conflitto sociale.

Dopo aver sbraitato per anni, ora se ne accorgono pure al Consiglio dei Ministri, ma è tardi per tornare indietro, quindi niente, pochi mesi e poi smantellamento dell’unica legge che abbia aiutato, negli ultimi anni, le fasce più disagiate della società.

La legge finanziaria – la stessa che ci dice che un professionista da 85.000 euro l’anno pagherà le tasse di un dipendente che ne prende 30.000 – è dunque una netta e precisa (in qualche caso rivendicata) ricerca dello scontro. Davanti al timore di ampi disagi sociali si scelgono deliberatamente il conflitto e la contrapposizione, le mani sui fianchi e la mascella volitiva: la dichiarazione di guerra è stata consegnata nelle mani dei poveri.

mer
16
nov 22

Strategie. Il governo manda avanti il mangiatore di salami col rosario

PIOVONOPIETREChissà com’è la vera carta intestata di Matteo Salvini. Sì, è possibile che ci sia scritto “Ministero delle Infrastrutture e dei Lavori Pubblici”, ma poi c’è dell’altro. “Ministero dell’interno in pectore, ma purtroppo ho dovuto metterci una controfigura”, per esempio. E anche “Ministero dell’Economia che però, mannaggia, lo fa Giorgetti”. Insomma, Matteo Salvini fa il ministro di quello che gli pare a seconda di come si sveglia la mattina. Un giorno di alza e fa incazzare Macron, un altro abolisce a parole il canone Rai, un altro ancora ridisegna il sistema pensionistico con la sola imposizione delle mani ancora unte di maionese. Va bene, dicono che nei sondaggi questo iperattivismo paghi, e gli facciamo molti auguri. Tanto più che non si sentiva da parecchio tempo – forse da mai – che una delle condizioni geopolitiche fondamentali per impedire a due paesi confinanti di prendersi a schiaffoni (Italia e Francia) sia far tacere Salvini. Insomma, Mattarella telefona, Marcron risponde, le diplomazie facciano il loro corso, ma soprattutto – s’il vous plaît – fate tacere il mangiatore di salami col rosario, che ad ogni esternazione rischia di scatenare il putiferio.

Tutte le cronache della signora presidenta del Consiglio Giorgia Meloni in trasferta a Bali parlano di quello: di come far tacere Salvini per non irritare i francesi e il mondo intero. E già questo dettaglio fornisce una divertente lettura della diplomazia italiana, che può anche essere (mah, chissà) un consesso di astutissime feluche, ma poi basta un rutto dal leader leghista-formaggista per rovinare tutto.

Non vorrei però che il Salvini selvatico diventasse un po’ una specie di capro espiatorio. Cioè, ormai sappiamo chi è, ne conosciamo le intemperanze, la tentazione di attribuire a lui ogni sbandamento, ogni estremismo nella gestione dei flussi migratori è forte, eppure fanno la loro parte anche gli altri estremisti del governo. Sembrerebbero seri e responsabili – un travestimento – finché, come accaduto al ministro della Difesa Crosetto, gli parte un colpo. Ecco quindi le OnG “ideologiche”, che sono “Centri sociali del mare”. Insomma, è Salvini che traccia il solco, ma poi è il governo che lo difende (scusate la rozza metafora, ma magari così capiscono anche loro).

E dunque, conclamata l’incapacità di gestire la questione migranti secondo regole, leggi e trattati internazionali, ecco la falange governativa, pancia in dentro, petto in fuori, prendersela con le OnG, esattamente come aveva fatto Salvini. Si agisce su più fronti, ovviamente, e si medita di tagliare fuori dalla questione le Procure della Repubblica per incoronare i prefetti. Niente più magistrati in mezzo alle palle – traduco – e più poliziotti a sequestrare navi e navigli.

Chi negli ultimi anni non viveva su Saturno. riconoscerà il tocco, la mano, lo stile inconfondibile della peggior destra europea. Viktor Orban partì da lì con la sua escalation, da una guerra serrata contro le Ong, da leggi (contestate dalla Ue) che ne limitano l’azione, criminalizzazioni e servizi segreti. E anche in Polonia, molto del lavoro oscurantista partì dall’attacco alle associazioni e alle organizzazioni indipendenti, specie quelle sui diritti delle donne. Insomma, viene il sospetto che dare tutte le colpe a Salvini sia un giochetto di società facile facile, e mentre tutti sono distratti dal mangiasalami intemperante, gli arditi fanno il loro sporco lavoro per non avere testimoni, né operatori indipendenti, né ostacoli al massacro nel Mediterraneo.

mer
9
nov 22

Che Letizia! Sciure e sciurette sono tutte già in pre-orgasmo morattiano

PIOVONOPIETREFinalmente scrivere da Milano non è periferia, finalmente non siamo ai margini dell’Impero, quassù sulle palafitte, dove la cosa più bella “è il treno per Roma”, e altre amenità e sciocchezze.

Finalmente anche qui si freme, si registrano languori preorgasmici delle sciurette in total Prada – uh, le scalmane! –  e i brividi di eccitazione dei maschi alfa da consiglio di amministrazione, quelli trascinati alla Scala una volta l’anno perché si deve, perché si fa. Scala dove – manco a dirlo – lei svettava in total black Armani (cito i classici).

Ma come lei chi? Lei Moratti Letizia, che provenendo da un casato Bricchetto Arnaboldi (guai a voi se ci aggiungete Serbelloni-Mazzanti-Viendalmare, stronzi!) dà quelle garanzie di schietta aristocrazia di cui tutti abbiamo bisogno, in primis la società lombarda il cui problemi, si sa, sono i salotti innoiositi e le false borse Vuitton. Lei. Una che sa usare il coltello da pesce, sa come si mettono i bicchieri, come ci si siede alle riunioni di bilancio, una che possiede quel pragmatismo acuminato, che sarebbe una specie di realismo magico dei dané; una che voleva far vaccinare la gente in base al Pil – prima i lombardi che ci mantengono tutti! – e che si prestava al post-Gallera, ultimo comico della tradizione milanese, come badante del presidente Fontana.

Insomma, a un certo punto, a quella Milano dipinta a olio, quella dei salottini dove ancora si gioca la pantomima del potere – i dané, la finanza, la fabbrichetta, che oggi è la start-up del figliuolo, di ville! di villule! di villoni ripieni, di villette isolate… Gadda dove sei? – ecco, in quella Milano lì, dove la rendita si spaccia per merito, è comparsa la Madonna rivelata, la sciura delle sciure. Nostra signora dei salotti ma anche della finanza, una specie di icona benedetta, ultrasettantenne, ma ancora giovanile, piacente, dinamica; insomma a misura di come le sciurette del circuito via Spiga-Montenapo-Sant’Andrea vorrebbero essere, povere stelle.

Perché si parla un po’ troppo di politica, nell’affaire Moratti, candidata alla Presidenza della Lombardia dai Bibì e Bibò forestieri (uno toscano, l’altro di Roma, figurarsi), la cui finalità è far vincere il leghista Fontana dando la colpa al Pd che non ha seguito “la visione”.

Macchè, quello è il contorno, e il piatto forte della questione è invece social-antropologico, dove una città in cui i ricchi sono asserragliati in due-tre quartieri, con le loro tessitrici di elogi, maestre di eleganza e di “costume” (il costume dei signori), e fremono di giubilo e tripudio potendo finalmente dire di essere un po’ di destra anche loro. Ma non la destra burina dei leghisti di provincia (quel Fontana, un varesotto, ossignùr, quelli delle valli, buoni solo se ti portano il taleggio fresco). E nemmeno di quei destri parvenu, fasci ripuliti che in un salotto, sotto un Sironi, sotto un Balla ben appeso alla tappezzeria buona non ci saprebbero stare, volgari come un centrotavola della Santanché, signora mia.

Insomma Lady Letizia è la quadratura del cerchio: consente alla borghesia-wannabe-aristocrazia milanese di fingere di restare “progressista” pur votando – finalmente! – a destra. E’ lei che fa il favore di slittare un po’ a gauche, come quando si aggiunge un ospite e le nobildonne – aiutate dalla servitù – spostano un po’ le sedie per fargli spazio.

Grazie, Letizia di fornire questo brivido prenatalizio alla nomenklatura del panetùn, anche questa è un’opera caritatevole che la sinistra – coi suoi pregiudizi, cattiva – non ti perdonerà.

mer
2
nov 22

Il pendolo di Giorgia. Un po’ di sorriso per i poteri forti e un po’ manganelli

PIOVONOPIETREIl pendolo di Giorgia, un colpo al cerchio, un colpo alla botte, un sorrisino per i poteri forti, rassicurante, da statista; un ghigno per il mercato interno, quando si ricorda di avere un elettorato (e un percorso personale) un po’ littorio. Legge e ordine – per non farsi fregare da Salvini, dicono alcuni – ma anche per mantenere le tradizioni, mossa identitaria: chi ci guida e ci conduce?

Lei che sa mentire così bene: “Le leggi razziali gradino più basso…”, eccetera eccetera, molto compunta e contrita, ma tutta una vita a celebrare Giorgio Almirante, segretario di redazione de La difesa della razza, bel curriculum. Lui (1942): “Il razzismo nostro deve essere quello del sangue (…) Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei”.

Lei (2020): “Onestà, coerenza e coraggio sono valori che ci ha trasmesso (…) Un grande uomo che non dimenticheremo mai”.

Basterebbe questo, ma si vede che non basta.

Grande fu lo sconcerto, il rigurgito nazionalista e il brividino sciovinista che prese il Paese (pardon, la Nazione) quando la ministra francese per gli affari europei Laurence Boone disse “Vigileremo sull’Italia”. Uh! Apriti cielo: il/la presidente Meloni tuonò contro l’ingerenza straniera, Sergio Mattarella disse che “L’Italia sa badare a se stessa nel rispetto della sua Costituzione”, bene! E ora che vediamo le foto di un viceministro (Galeazzo Bignami, Fratelli d’Italia) vestito da nazista, con la svastica al braccio e il sorriso tutt’altro che intelligente, è lecito il dubbio: mah, “Badare a se stessa”, parole grosse. Facciamo a fidarci, era un addio al celibato. Chi di voi non si è mai vestito da ufficiale delle SS durante l’addio al celibato? A me pare un’aggravante.

Il pendolo di Giorgia ora vira verso l’Europa. Vedrà Ursula Von Der Leyen per perorare la causa del cambio di destinazione di un po’ di soldi del mitologico Pnrr, che li possiamo usare – noialtri che sappiamo badare a noi stessi – per pagarci un po’ di gas. Pare già di vedere le cronache: l’autorevole leader che, pancia in dentro, petto in fuori, va a far valere gli interessi nazionali. Questo agli esteri. Agli interni, intanto, da tre a sei anni per il reato di rave party, poco meno di quello che si rischia per il reato di banda armata. “Invasione compiuta da più di 50 persone di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”, il che vuol dire che si parte da un capannone di Modena – dove nessuno limitava la libertà di nessuno – per arrivare potenzialmente ovunque, all’occupazione della scuola, o della fabbrica, o a qualunque “adunata” di protesta che preveda l’occupazione “di terreni”: cioè basterà essere per la strada.

Legge e ordine, specificamente indirizzate verso che si radunerà per protesta, una norma che verrà buona quando l’inflazione a due cifre morderà di brutto, i salari saranno fermi, gli aiuti al reddito verranno cancellati. Insomma, quando il/la presidente del Consiglio si vedrà un po’ alle strette, accorgendosi che i milioni di poveri italiani non sono tutti “fannulloni che vogliono stare sul divano”, ma gente che potrebbe anche incazzarsi. E allora il pendolo di Giorgia si apprezzerà meglio, le parole magiche “da tre a sei anni” avranno un altro suono. Lo stesso suono dei manganelli già risuonati sugli studenti della Sapienza, ma non sulle capocce dei nazi-ultras di San Siro – lo stadio – o degli adoratori del Puzzone Buonanima di Predappio. Perché lì “E’ tradizione”, dice il ministro competente

mer
26
ott 22

I patrioti ideologici. I neo eletti fingono aperture: parole e fatti li smentiscono

PIOVONOPIETRERimbalza come d’abitudine nel flipper del nuovo governo – tra lingue mulinanti di apprezzamenti, piaggerie da mantenimento del posto, riposizionamenti studiati da mesi – la pallina solita del “non siamo ideologici”, sbandierata qui e là da questo o quel membro del nuovo esecutivo. Ultimo a pronunciarla in un’intervista (“non abbiamo mai avuto preclusioni ideologiche”), il ministro cognato dell’agricoltura (e sovranità alimentare! Wow!) Francesco Lollobrigida, che lo dice a proposito della consulenza di Roberto Cingolani. Ministro prima, consulente oggi, un uomo per tutte le stagioni: non si capisce quale preclusione ideologica si possa avere con uno che si adatta così facilmente.

Ma sia: quella dell’allontanare da sé i sospetti è una preoccupazione molto in voga e la presidente del Consiglio ci sta molto attenta, non vuole passare per figlia della lupa, così come alcuni dei suoi giannizzeri indossano la maschera dei moderati, ragionevoli, neo-atlantisti, pacati, guarda che bravi. Magari giocando facile nel ridurre a macchietta i piccoli reducismi balilla di un La Russa e camerati: folklore, collezionismo, uffa che barba, mentre loro pensano al bene della Nazione.

Ed eccola lì. L’ideologia cacciata dalla porta a parole, rientra dalla finestra proprio con le parole. E’ un profluvio di “Nazione”, che sostituisce “Paese” (brutto, di sinistra), così come “patrioti” ha sostituito l’impresentabile “camerati”. Camouflage. Mimetismo.

Il cambio di nome di alcuni ministeri, di cui si è molto parlato, denuncia – sempre le parole, maledette! – una densa sostanza ideologica, proprio quella che si vuol negare. Si è detto della natalità, della sovranità alimentare, del ministero del mare (a cui manca colpevolmente “Nostrum”, ma serviva per fregare a Salvini i porti, cosa che non sembra riuscita, per ora). E potentemente si infila – ideologia canaglia – nella carta intestata del nuovo ministero dell’Istruzione, che diventa anche “del merito”, quel glorioso trucchetto delle classi dominanti e dei nati meritati per difendere all’infinito privilegi e diseguaglianze. Esattamente – in barba a tutti i “non saremo ideologici” di questo mondo – un manifesto ideologico di classismo (infatti piace tanto a Calenda).  Anche il ministero “delle imprese e del made in Italy” gronda ideologia già nell’enunciato, e manifesta che l’economia del Paese (pardon, Nazione) sono le imprese. Non i lavoratori, le forze produttive, l’insieme di, no, le imprese. Bon. E quel che fa bene alle imprese fa bene alla Nazione, antico refrain oggi benedetto anche dal nome.

Ma se siete in cerca di ideologie a casa di quelli che “non saremo ideologici” (ahah), la lezione migliore viene da Guido Crosetto, tradizionalmente presentato come “moderato”, vezzeggiato e corteggiato dai media, dietro la cui maschera di buono si nasconde il vero tratto ideologico della destra vincente. Ed è un tratto minaccioso assai: Crosetto ammette che “C’è un rischio fortissimo di povertà e disoccupazione. Dunque, di rabbia…”. Ma poi, ecco la sostanza ideologica: “La rabbia cerca sempre colpevoli e le piazze arrabbiate non fanno male ai governi. Ma alle nazioni”. Et voilà, esplicitato per bene per chi ancora non lo vedesse: la piazza, la rabbia, la mobilitazione (eterodiretta, magari da Putin, lascia intendere Crosetto) non è antigovernativa, ma antinazionale. Governo e Stato, governo e Nazione, di fronte a un’eventuale opposizione di piazza, coincidono. La summa, spiegata bene, dell’ideologia sovranista, nazionalista (e un po’ fascista) che si tenta di negare a parole.

mer
19
ott 22

Da B. a Monti e Draghi. Dopo 15 anni di Salvatori, un italiano su tre è povero

PIOVONOPIETREBrutta roba, i numeri. Dovrebbero spiegare, e invece rendono tutto freddo, algido, tecnico, tutto algebricamente smerigliato. Così dal rapporto Caritas pubblicato ieri da tutta la stampa nazionale – dopo lo sfoglio sul totoministri, Silvio a Canossa, Giorgia statista e altre amenità per chi ci casca – non è facile estrarre il succo di vite in bilico, di paure per domani che mordono già oggi, di umiliazione per le code, dell’indecenza dell’indigenza nazionale.
Non so se è il caso di ripetere qui lo stillicidio: 5,6 milioni di poveri assoluti, altri 15 milioni a rischio di diventarlo, sul crinale, un piede di qua, un piede di là, un italiano su quattro, impaurito se va bene, praticamente sicuro che domani sarà peggio di oggi, che già è una discreta merda.

Niente retorica, per carità, non serve, non aiuta. Ma in queste settimane di passaggio, in cui esperti e osservatori ci spiegano le dinamiche del voto, le scelte del Paese (pardon… ora bisogna dire Nazione, secondo la riforma semantica dei camerati… ops, patrioti), sarebbe forse il caso di chiedersi da dove vengono questi numeri freddi, la genesi, il percorso, che strada hanno fatto questi fottuti poveri per triplicare in quindici anni. Erano – sempre fonte Istat – un milione e ottocentomila quindici anni fa, e oggi sono 5,6 milioni, il che vuol dire che sono cresciuti di tre volte, che dove ce n’era uno ora ce ne sono tre. Quindici anni, non una vita, ma un tempo abbastanza lungo per capire chi, come, perché, per valutare politiche e strategie. Quindici anni fa, regnava un Silvio vorace, non il fantasma gaffeur di oggi, che ci portava in quel baratro di spread che fece tremare tutti. E per “salvarci” – cominciava il carosello dei Salvatori – arrivava Monti, e poi altri governi di emergenza e decoro economico, tutti o quasi a massiccia presenza progressista e democratica, che sciccheria.

La cavalleria leggera (leggerissima) del “Siamo tutti sulla stessa barca”, aiutiamoci, facciamo qualche sacrificio. E piovevano soldi sulle aziende, sui datori di lavoro, decontribuzioni, e insieme contratti leggeri, corti, cortissimi. Il pensiero debole (debolissimo) che se aiuti chi produce – le aziende, gli imprenditori – andrà poi bene anche a chi lavora, in una cascatella di redistribuzione che dalle tavole imbandite lascia cadere qualche briciola. Ora si vede che non era vero: c’è povertà assoluta nel 7 per cento delle famiglie con occupati, cioè tra quelli che un lavoro che l’hanno. Ed è più del doppio rispetto al 2011 (erano il 3,1), quando arrivava Mario Monti con il loden, accolto come Mosé con le tavole, che ci salvava lui, ci pensava lui, meno male che c’è lui… e tutti gli altri salvatori in fila, fino a Mario Draghi, altro Salvatore da cosa non si sa. Non si capisce che salvezza, infatti, se anche tra chi lavora la povertà è raddoppiata.

E tutti, in questi quindici anni di arretramento e di impoverimento, con il chiodo fisso e il nemico comune, perennemente additato: niente conflitto, niente battaglia, niente casino, non sporcare, non urlare, non baccagliare per il reddito, o per i diritti. Zitti e buoni, che sennò i mercati… che sennò l’Europa… e alla fine il bilancio di quindici anni di politiche “virtuose”, senza conflitto, senza lotta, è che a milioni non mettono insieme il pranzo con la cena, il triplo di prima. Un po’ di lotte, forse servivano, un po’ di conflitto, forse, li avrebbe difesi meglio, ‘sti poveri moltiplicati per tre in quindici anni, mentre invece si beccano solo l’eterno “colpa loro”.

mar
18
ott 22

E’ come tirare i sassi. In memoria di Beppe Viola a 40 anni dalla morte. Teatro Parenti, 22 ottobre 2022

IMG-7588Il 17 ottobre 2022, al Teatro Parenti di Milano, per iniziativa di qualche amico, compagno di strada, lettore, fans, le figlie, e altri complici, maFoto Viola tutti soprattutto con la tigna di Giorgio Terruzzi e Paolo Maggioni, si è ricordato Beppe Viola a 40 anni dalla morte.  Metto qui il mio intervento di quella serata.

 

 

 

Ciao.

Non mi piacciono quelle cose “Io c’ero-io c’ero-io c’ero”.
Soprattutto perché io non c’ero.
Io avevo un anno, sul confine Villapizzone-Bovisa, quando Beppe Viola entrava alla Rai rispondendo “No” alla domanda “Lei è comunista?”.
E poi ne avevo 22 quando incautamente mi davano una tessera da giornalista professionista, e lui moriva proprio quell’anno lì.

in Milan, Italy, Monday, Oct. 17, 2022. (AP Photo/Luca Bruno)

in Milan, Italy, Monday, Oct. 17, 2022. (AP Photo/Luca Bruno)

Non mi piacciono neanche quelle cose è vivo è vivo, è qui con noi.
Mi viene in mente il mio papà che un po’ incredulo al funerale di un famoso mi disse: “Ghe baten i man perché l’è mort?”
Non è vero che è qui con noi… siamo noi che siamo qui con noi.
E siamo qui con noi perché gli volevamo bene.
Chi lo ha conosciuto, vabbé, per forza.
E chi lo ha conosciuto dopo, leggendo, perché ha imparato qualcosa.

Quindi qui faccio l’elenco di quello che ho imparato dal Beppe Viola.
Che le parole c’hanno un senso loro, come il pallone per Trapattoni, che sembra rotondo, ma delle volte c’è dentro un coniglio.
E che ridere non vuol mica dire essere scemi, anzi serve a capire chi sono quelli scemi che non ridono.
E che essere leggeri non è il contrario di essere pesanti, ma è il rovescio di essere dei pirla che si credono stocazzo.
Ma poi, dopo, quando il mio mestiere è diventato suo malgrado quella cosa che chiamano carriera, non lo so perché, forse è una roba di ore di volo… Dopo, dico, la vicinanza al Beppe Viola è diventata un’altra cosa, una gloriosa specializzazione nell’accumularsi delle rogne.

Perché nella mia immaginazione, il Beppe era anche quello che capitava a me, che bisogna andare in redazione.
Ma anche consegnare la rubrica…
o finire la canzone,
magari sei lì che devi chiudere il pezzo e ti viene un’idea più bella,
oppure un’ora da spendere meglio,un dialogo da ridere,

foto andrea cherchi31poi c’è una roba che hai letto che ti torna su, come i peperoni, dai, cazzo, rileggila..
o un amico che ha bisogno…
E resti indietro con le cose
…e allora ne inizi altre due, poi ti capita anche di finirne qualcuna e viene bene, o male, o così così
… e dai che ne scrivo un’altra…

Una cosa che ho imparato da Beppe Viola, una delle…
Non è che c’è la vita. e poi c’è quella roba lì,
è che c’è la vita CHE E’ quella roba lì.
E questo per me, da quarant’anni di lui ce non c’è più, e di mestiere mio che c’è – guarda le coincidenze – è una vicinanza da amici e fratelli.
Che lavoro fai?
Boh !

Poi, siccome anche un po’da balordi, ma i compiti bisogna farli, mi son messo a cercare una roba di Beppe che c’avevo in testa da sempre, così in testa che ho anche smesso di cercarla, perché la so a memoria e dice così:

C’ho via una gamba da quando ho fermato il tram in viale Porpora.
Il pallone però l’ho salvato anche se adesso non mi serve.

Ecco, sembrano due righe perché in effetti sono due righe.
E in due righe c’è dentro tutto, il ridere, il piangere, il tram in viale Porpora che non è l’Abu Dhabi di vetro di chi ce l’ha più alto, ridateci le Varesine, bastardi.
Sono due righe di verità vera, perché col cazzo che va tutto bene, ma noi ridiamo lo stesso.
Che è come tirare i sassi.

 

mer
12
ott 22

Dagli al pacifista. Le mie confessioni di ex amico di Saddam e dei talebani

PIOVONOPIETRESe non fosse largamente prevedibile, già visto, già sentito, già millemila volte esplorato, il dibattito sull’essere più o meno pacifisti o più o meno bellicisti, sul fatto che l’unica cosa da dire quando si spara è “smettetela di sparare”, sarebbe certamente utile e fecondo. Temo che non sia così nemmeno questa volta e quindi, come dire, esco con le mani alzate, anche per esperienza personale. Ho abbastanza primavere sul groppone per essermi preso dell’”amico di Saddam” quando dicevo che si stavano massacrando civili a Baghdad con la scusa delle armi di distruzione di massa. Applaudito da moltissimi – dagli stessi che oggi pontificano contro ogni iniziativa pacifista o richiesta di trattativa – Colin Powell agitava all’Onu la sua bustina di finto-antrace, e Tony Blair confessava di aver trovato le prove contro Saddam “su Internet”. Pagliacci. Sia loro che quelli che gli gridavano “bravo-bravo”, gli atlantisti al fulmicotone che stanno ancora in giro e ancora oggi si spellano le mani. Mentre io, piccolo insignificante democratico italiano, venivo etichettato come “Ah, allora stai con Saddam! Vuoi gasare i curdi con le armi chimiche!”, detto da chi ora i curdi aiuta a venderli a Erdogan in cambio di biglietti di ingresso nella Nato.

Insomma, come si vede non ho gran fiducia, non tanto nel dibattito, ma nella sua pulizia, nell’assenza di scorie. Contiene merda e malafede, come tutto ciò che viene dalla guerra, contiene coscienze embedded e cervelli all’ammasso.

E naturalmente non mi sono fatto mancare niente, compreso “sei amico dei talebani”, detto sia vent’anni fa – quando, guarda un po’, ero contrario alla più stupida e sanguinosa guerra mai vista, quella in Afghanistan – e ancora detto e ripetuto l’anno scorso. La grottesca e precipitosa fuga di chi aveva portato morte e distruzione per vent’anni chiamandola “missione umanitaria”, lasciava il popolo afghano nella più nera disperazione, ma se provavi a dire “complimenti, bella figura, gli esportatori di democrazia!”, eccoti di nuovo “amico dei talebani”, incredibile. Il tutto mentre occhiuti commentatori, corsivisti più che abili, guru iperatlantisti in servizio permanente effettivo, applaudivano la “ritirata umanitaria” allo stesso modo in cui avevano applaudito l’”invasione umanitaria” vent’anni prima. Complici e cantori di un massacro spaventoso, ma pronti allo sport sempre ben remunerato del “dagli al pacifista!”. Senza vergogna.

E ora, eccoli, sempre loro – chi più, chi meno, ma insomma – a dire che se chiedi che si smetta di sparare in Ucraina, che si smetta di foraggiare massicciamente un’escalation militare che potrebbe far male e malissimo a tutti, ecco, allora “stai con Putin”. La logica binaria di chi la guerra la ama profondamente. Dimenticando che mentre io, “amico di Saddam”, ai tempi, con Saddam regnante, in Iraq sarei stato di certo in galera, loro no. Avrebbero fatto da coretto al regime, finché vincente. E che coi talebani anche, io che ero “amico dei talebani” non me la sarei passata bene di certo. E che anche con Putin, sotto Putin, nell’impero di Putin, starei tra i dissidenti, mentre loro, questi nemici del “pacifista”, questi che dicono che chiedere la pace è “cedere”, è da “rammolliti”, sarebbero probabilmente a fare quel che fanno qui: i cantori del consenso alla guerra, serviti e riveriti. Quindi capirete – e mi scuso – il dibattito non mi entusiasma: chi insulta i pacifisti oggi sono gli stessi che li insultavano ieri. Non conta quale guerra, conta proprio che gli piace la guerra.

mer
5
ott 22

Affaristi 2.0 Libera volpe in libero pollaio: chi specula sul gas (di tutti)

PIOVONOPIETRECi piacciono tanto le rivolte degli altri, le sommosse, le proteste, le primavere qui e là per il mondo, purché avvengano – appunto – da un’altra parte, un po’ esotiche, insomma. Ci piacciono meno – molto meno – le rivolte che avvengono qua, che sono sempre raccontate sottotono, sminuite, ridotte a piccoli episodi semi-folkloristici, trovatine mediatiche. Così anche i cortei e le manifestazioni in cui in parecchie piazze italiane si sono simbolicamente bruciate le bollette del gas e della luce, giunte a livelli insostenibili per molte famiglie, sono archiviate con piccole fotonotizie. Uff, i soliti estremisti.

Eppure la simbologia è abbastanza potente, e non si tratta di esagerazioni, visto che anche i grandi giornali, la stampa ufficiale, comincia a dar consigli su come fare se ti staccano il gas, come farselo riallacciare, come chiedere rateazioni, come gestire i ritardi nei pagamenti, eccetera eccetera. Insomma, la questione energetica ha avuto una sua istruttiva parabola. Prima un trattamento soltanto geopolitico for dummies (Putin bastardo, non ti compriamo più il gas, prima; Putin bastardo non ce lo manda più, dopo), poi una più seria riflessione economica su stoccaggi e prezzi di mercato accompagnata dai consigli della nonna. Vedrete che con un grado in meno si risolve… vedrete che mettendo il coperchio alla pentola si risolve… vedrete che con le docce più brevi… Fuffa, insomma.

Poi, piano piano, ecco che dalle nebbie dell’informazione – un po’ divisa tra l’allarme e l’opera di tranquillizzazione – è emerso qualcosa di simile alla verità: il prezzo del gas che tanti danni fa e farà alle nostre economie, alle nostre aziende, e Pil, e famiglie, non è per niente colpa di questo o quel dittatore, o di questa o quella guerra. Non c’è poco gas nel mondo (lo dice, tra gli altri, un rapporto Eni del luglio scorso), ma c’è – e parecchia – speculazione sul suo mercato. Al punto che il cruccio di mezza Europa, tra cui il ministro Cingolani, e il magico Mario Draghi, e di vari pensatori dell’economia globale, è proprio come fermare, o arginare, questa speculazione che gira intorno (ma non solo) alla famigerata Borsa olandese il Title Transfer Facility (TTF) dove si scambiano i futuressul gas e dove si decidono, in definitiva, le nostre bollette.

Traduco in italiano: si chiama libero mercato, cioè libertà di speculazione, di fissare un prezzo non in base all’effettiva disponibilità della merce, ma alle previsioni – più o meno interessate, più o meno sballate – che si fanno sulla disponibilità futura di quella merce. Fu un trattato europeo (Cardiff, 1996), a decidere che i prezzi delle materie prime del settore energetico non sarebbero più stati regolamentati: ci avrebbe pensato il mercato, la libera concorrenza, insomma, quella magica manina che sistema tutto lei, come piace pensare ai liberisti di ogni latitudine. Al punto che oggi (ieri sul Corriere della Sera) leggiamo accorati appelli di due commissari europei (Breton e Gentiloni) perché l’Europa faccia un debito condiviso in difesa di “beni pubblici”. Beni pubblici, che, appunto, pubblici non sono per niente, visto che si gonfiano e si sgonfiano a piacere e beneficio di “speculatori” che rimangono – tra l’altro – impuniti e sconosciuti. L’emergenza è emergenza da mesi, la speculazione è additata da mesi come responsabile, ma la soluzione non c’è, non si trova, nemmeno al più alto livello politico. Se si trovasse, confliggerebbe con il famoso “libero mercato”, libera volpe in libero pollaio.

mer
28
set 22

I media e il potere. Con Draghi hanno fallito, ora sono pronti a lodare Meloni

PIOVONOPIETREInsomma eccoci. “Todos populistas”, come dice Calenda Carlo, del Sesto Polo, battuto anche dal Berlusconi ceramicato di Tik Tok, ma sempre avvolto, lui che è sèrio, dal cappottino di saliva dei media. Si è letto di tutto, e ancora si leggerà, ma insomma, di colpo l’agenda Draghi è diventata di piombo, ed è caduta sui piedi di chi la sventolava come un feticcio, ferendolo a morte. Chi l’ha sempre combattuta dall’opposizione (Meloni) ha vinto in carrozza, si sapeva; chi se ne è dissociato chiedendo correzioni e revisioni (Conte) ha fatto una discreta rimonta (dal 7-8 per cento di luglio al 15). Gli altri nisba, compresi i due noti caratteristi che candidavano “Supermario” a Palazzo Chigi senza dirglielo e contro la sua volontà.

Ci sarà tempo di parlare di politica, anzi speriamo che si ricominci a farlo. Ci si chiede però – in questa rubrichina su narratori & narrazioni – se non sia ragionevole anche occuparsi un po’ del sistema della comunicazione, che per quasi due anni ci ha presentato Mario Draghi come un tabù intoccabile, qualcosa tipo Maradona+Gesù Cristo+Einstein, che chi si permetteva di contrastare, o anche solo di arginare o criticare, veniva colto da anatema e malocchio. Come osi? Come ti permetti? Sei stato a Princeton, tu? Sei stato ad Harvard? E ancora conservo con gioia un meraviglioso ritaglio d’agenzia (Adnkronos, luglio 2022), con il senzatetto Emanuele che ai cronisti diceva “Mario Draghi ha fatto molto per noi clochard”, giuro. Mirabile sintesi di quel che era diventato a un certo punto il Paese: un altarino dedicato al culto draghista, all’osanna perpetuo per l’Intoccabile e Incriticabile. E credo che anche a Draghi questo culto draghista abbia dato a un certo punto un po’ fastidio, cioè, speriamo.

In ogni caso, poi, all’apparir del vero, tutti quelli che non sono stati a Princeton, né ad Harvard, né seduti ai desk di giornali e televisioni dove si decidono titoli e ospiti, hanno detto la loro, votando. E si è scoperto che quella narrazione era altamente farlocca, molto sovradimensionata, addirittura caricaturale. Da qualunque parte la si guardi, la capacità dei grandi media di descrivere il Paese, di sentirne il polso, di auscultarne battiti e pulsioni, ha fallito miseramente, in modo – visto oggi – che sfiora il ridicolo. Da una parte, un tecnico mandato dalla Provvidenza, incriticabile per definizione e dogma, dall’altra astruse forme di vita senza arte né parte, populisti quando va bene, “scappati di casa”, insulto di moda presso quelli che si credono “competenti”. E si è visto, porelli.

Insomma, delle due una: o si dà ragione a Calenda, e sono tutti populisti tranne lui e grandissima parte dell’informazione; oppure bisogna fare una riflessione sui media tutti, e dire che i sapienti osservatori della realtà hanno osservato un po’ a cazzo, con le loro lenti deformanti, che la realtà era diversa e non l’hanno vista: per cecità, o convenienza, o ordini dall’alto. Con coerenza, tra l’altro, perché l’osanna al potere tecnico ed elitario veniva da un altro potere tecnico ed elitario, che si sente moralmente migliore, culturalmente più attrezzato e in definitiva buono, mentre tutti gli altri sono brutti, sporchi e cattivi. E populisti. Ora, poverini, gli toccherà riposizionarsi, ma non mi farei grandi illusioni: non c’è niente come gli adoratori di élite – che si sentono essi stessi élite – per creare nuove élite a cui ubbidire. Aspettiamo “Meloni ha fatto molto per noi clochard”, o varianti consimili. Questione di tempo.

mer
21
set 22

Alle urne. La politica si è trasformata in marketing: vende fustini di detersivo

PIOVONOPIETRECoraggio, ancora qualche giorno, poi una notte di passione, poi potremo tirare un po’ le somme e dare i voti ai maghi del marketing che hanno condotto la più bislacca campagna elettorale dai tempi di Numa Pompilio. Una campagna elettorale condotta tutta “contro” e non “pro”, come lamentano (uff!) alcuni commentatori con toni da “Signora mia, che degrado”.

Ecco, proprio il contrario. Nel senso che visioni del mondo pochine, e differenze pochine anche quelle. Piuttosto, se si vanno a leggere i giornali di due mesi fa, quando iniziò la rumba, certe differenze si vedono eccome, e non tra schieramenti avversari, ma nelle stesse forze politiche. Chi era partito in un modo è arrivato in un altro, molte visioni sono cambiate in corsa, molti aggiustamenti sono stati fatti strada facendo. E questo proprio perché quella che dovrebbe essere una battaglia politica si è trasformata in marketing, studi di posizionamento, calcoli sulla collocazione degli avversari, e quindi minuscoli scarti di lato sulla griglia delle convenienze. Non “come possiamo convincere i cittadini con le nostre idee”, ma “come possiamo fregare i voti a Tizio o Caio comunicando meglio le loro”? Sembra di vederle, le riunioni di profilazione e le discussioni sul target, eterne repliche dei brain storming sul packaging di merci quasi identiche (il fustino del detersivo, cilindrco o parallelepipedo? Ah, saperlo!).

La burbanzosa energia salviniana, per dirne una, quella guapperia da ministro dell’Interno in pectore che “quando c’era lui la Digos arrivava in orario” (a identificare gli avversari) si è un po’ sciolta sotto il timore della vittoria schiacciante di Giorgia e sotto il fuoco incrociato dei suoi stessi colonnelli, tanto che oggi Salvini è unanimemente considerato in discesa libera. Il Pd, partito lancia in resta con l’agenda Draghi sotto il braccio, ha visto quell’agenda assottigliarsi giorno dopo giorno, poi diventare quattro foglietti sparsi, poi sparire, tanto che di Draghi non parla più. Era partito sull’onda dell’emozione, strillando alti lai contro chi poneva questioni e problemi al governo più bello del mondo – mai più coi 5stelle, traditori di Supermario! – e arriva a pochi giorni dal voto ad augurarsi (a volte esplicitamente, come in Puglia e in Sicilia) che i vituperati 5stelle facciano un buon risultato. Un testacoda, insomma.

Per non dire dei due caratteristi del Quarto Polo, detto Terzo, che, dopo averci sfiancato per due mesi sul prossimo governo a guida Draghi, incassano da Draghi un “no” secco e definitivo, ma si consolano con il forte argomento: “Beh, ma cosa poteva dire?”. Surrealismo puro. Il tutto mentre Giorgia modula la terapia a seconda della platea e del contesto: europeista dopo colazione, ringhiosa sovranista dopo pranzo, di nuovo simil-ragionevole al talk show serale. E Silvio che fa ridere tutti, as usual. Tutto come previsto, quindi, anzi forse no. Perché negli ultimi giorni – sorpresa –  si fa strada l’assurdo timore che tutto il circo non si rivolga più solo e soltanto a un indistinto “certo medio”, ma che siano della partita anche i ceti popolari e meno favoriti, quei “descamisados” (milioni) che faticano ad arrivare alla fine del mese, quelli che fino a ieri “tanto non votano”, e forse invece oggi si scopre che sì, potrebbero votare anche loro, dannazione. Gente semplice, che non capisce le raffinatezze del marketing, che se ne sbatte della forma del fustino, e pensa più se quello che c’è dentro può servire a campare un po’ meglio. Maledizione, il marketing non l’aveva previsto.

mer
14
set 22

Voto. La povertà? Per carità: non è chic parlarne non campagna elettorale

PIOVONOPIETREPiano piano, in punta di piedi, senza clamore, senza grossi traumi, la questione della lotta alle diseguaglianze ha abbandonato la campagna elettorale, rifugiandosi in un luogo nascosto e ombroso dove non darà fastidio a nessuno, un po’ polemica strumentale e un po’ manuale di conversazione. Come capita sovente, non è il problema che scompare (anzi!), ma la sua utilità nel dibattito, quindi via, via, archiviare. Restano in campo, vagamente collegate all’argomento, le polemiche funzionali ai vari schieramenti, per esempio sul reddito di cittadinanza: chi lo vuole abolire, chi lo vuole mantenere (e per questo è addirittura accusato di voto di scambio, divertente paradosso per cui se fai qualcosa in difesa dei cittadini e loro ti votano per quello, non va bene); chi insiste sulle truffe (un po’ come se si abolissero le pensioni perché c’è chi si frega quella della nonna defunta e congelata), chi si arrampica un po’ sugli specchi. Qualche sondaggio, ad esempio, deve aver acceso un faro sull’impopolarità dell’abolizione secca, visto che anche le forze fino a ieri contrarissime al reddito, virano oggi verso una più moderata “modifica”. E’ il caso, per esempio, di Azione, che se la cava con quella formuletta facile del “superamento” e della “revisione”, dimenticando che solo fino a qualche giorno fa uno dei due soci in ditta annunciava la raccolta di firme e un referendum per cancellarla per sempre. Imbarazzo comprensibile tra i fans azionisti quando glielo ricordi.

Insomma, espulsa dalle politiche sociali e dalle proposte strutturali, la povertà è tornata ad essere un incidente quasi inevitabile, buona sì per qualche sussulto di indignazione passeggero – un po’ di retorica – ma troppo complicata per essere al centro della discussione politica. Con qualche risvolto grottesco, anche, come il surreale dibattito sul grado in meno dei caloriferi per ripararci dal caro-bollette, senza mai dire che gli italiani che hanno abbassato il riscaldamento di un grado, anche due, anche cinque, anche del tutto, sono sempre di più, e non da oggi. E’ come se ci fosse un vizio atavico e irrisolvibile, per cui quando si parla delle spese “degli italiani” (tutti uguali, tutti sommabili in una massa indistinta non troppo diseguale) ci si riferisse solo e soltanto a una specie di generalista “ceto medio”: la larga fetta di popolazione scivolata alle soglie della povertà non è contemplata. Da qui, una sorta di incoraggiamento da rotocalco al risparmio “glamour” e modaiolo (Uh, i mercatini dell’usato, che sciccheria! Uh, la doccia fredda, quanto fa bene!). Insomma si piega la questione della povertà, e della neo-povertà, a una specie di gioco di società, con conseguente passaggio dalle pagine dell’economia, o della politica, a quella degli “stili di vita”.

Persino di quella spaventosa tabella Osce che ci ricorda il disastro salariale italiano negli ultimi trent’anni non si parla quasi più, se non per una specie di scambio di prigionieri: un pochettino più di salario (forse), e un po’ meno tasse per gli imprenditori (di sicuro) che va sotto il nome di cuneo fiscale. A parte minuscole e lodevoli eccezioni, insomma, l’impoverimento della società italiana non è stato al centro del dibattito elettorale, se non per qualche benemerita uscita ideologica à la Briatore: “Mai visto un povero creare posti di lavoro” (sic), o il vecchio refrain liberal-liberista sulla piaga dell’”invidia sociale”, che rende i poveri e gli impoveriti non solo colpevoli della loro povertà, ma pure cattivi e invidiosi. Ecco fatto.

mer
31
ago 22

Riforme energetiche. Con luce e gas finisce in bolletta pure il mito di Draghi

PIOVONOPIETREL’idea che con le mie bollette del gas e della luce io contribuisca a pagare profitti mostruosi a qualche migliaio di aziende che vendono gas e luce mi entusiasma e mi riempie di spirito patriottico. Così si fa! Bravi! Cos’è la sopravvivenza del cittadino, della sua aziendina, del suo negozio, della sua officina, di fronte alle leggi naturali del libero mercato? Non la conoscete la storia della manina del mercato che sistema tutto lei, senza regole e senza affanni? Magari chiedete al Foglio, quelli che non volevano il prezzo calmierato delle mascherine per evitare l’accaparramento da parte dei poveri. Che poi, sono sempre i poveri a rompere i coglioni, diciamolo, non ce ne libereremo mai, e d’altronde è giusto: è l’abbondanza di poveri a garantire l’esistenza dei ricchi (sempre la manina santa del mercato).

Ma insomma, da qualunque parte la si guardi, questa faccenda degli extra-profitti sull’energia è una divertente favola con la morale, tipo Esopo, dove superior stabat il profitto e il panettiere cazzi suoi. Restando all’esempio delle mascherine, è come se tre anni fa le farmacie avessero messo ogni ffp2 a 172 euro l’una e, richieste di una tassazione che colpisse quegli extra-profitti, avessero fatto marameo. Ecco. Lo stesso marameo che fanno oggi le grandi aziende energetiche al fu governo Draghi e a tutti noi. Una tassa del 25 per cento, da cui dovevano arrivare dieci miliardi, subito un anticipo del 40 per cento, che farebbe quattro miliardi, e ne è arrivato uno, perché molte aziende che hanno scritto nella tabella “profitti” un bel più seicento, più settecento per cento (e anche molto oltre), si rifiutano di pagare. Una “rivolta tra gli operatori” (Sole 24 Ore), una “rivolta fiscale” (Repubblica), insomma, il più strepitoso caso di evasione fiscale mai visto in un singolo colpo. Ora la palla passerà al Tar del Lazio e forse poi alla Corte Costituzionale che, apprendiamo con sgomento, dirà la sua nel giro di un anno e mezzo, quando il panettiere di cui sopra si sarà già dato alle rapine a mano armata o alle truffe agli anziani, avviando nel contempo i figli alla prostituzione minorile.

In un simile contesto, si affacciano le “ragioni” di chi dovrebbe pagare e non paga: dicono che la norma sulla tassazione al 25 per cento di utili extra (fino al mille per cento, in certi casi) è scritta male, che non sta in piedi tecnicamente, che colpisce il fatturato, o le dichiarazioni Iva, e non i profitti, che si presta a una grandinata di ricorsi, con il che i soldi incassati adesso (poco e male) tornerebbero a casa dopo raffiche di sentenze. Insomma, sarebbe incostituzionale.

In alto i cuori: non è commovente vedere un così sincero e disinteressato rispetto della nostra Costituzione da parte di gente che vendeva il gas a cento e ora lo vende a cinquecento? Il risultato è che tutti si sbracciano perché Draghi faccia qualcosa. Il problema è che prima dovrebbe ammettere di aver scritto una norma “senza discernimento”, come disse lui (testuale) nella replica al Senato a proposito di norme scritte da altri (i 5stelle sul bonus 110 per cento). Non lo farà. Insomma con le mie bollette pago gli extraprofitti dei miei fornitori di gas e luce, ma non solo. Pago (caro) anche il dogma dell’infallibilità di Draghi, insieme ad altri dogmi molto gettonati (il default della Russia in due settimane, le sanzioni che uccideranno Putin, eccetera eccetera). Insomma, niente di male: pago per avere la moraletta finale nella fiaba di Mario Esopo, il Migliore di tutti noi.

mer
24
ago 22

Sanna Marin. Tutti l’hanno difesa, ma in realtà nessuno l’ha attaccata

PIOVONOPIETRENon si vive di sola campagna elettorale, e del resto non è solo da lì che vengono certi geyser di nonsense nel discorso pubblico, certe fiammate che consentono un’indignazione facile e prêt-à-porter, roba da manuale di conversazione in società. Insomma, chiedo scusa se parlo di Sanna Marin, la premier finlandese, e del suo ballo, di cui sarebbe lecito disinteressarsi forever, ma che è diventato un racconto centrale nell’Italia di questi giorni (e per questo ce ne occupiamo). La storia la sapete: la prima ministra finlandese, che è giovane (36) e bella, (per questo tutti pubblicano volentieri una sua foto, e le battute da camionisti si sprecano) è andata a una festa privata. Ha ballato, ha bevuto, poi è uscito un video di quella festa ed ecco la fremente polemica: basta attacchi! Sanna ha tutto il diritto di ballare! Siete contro la felicità! E’ tutta invidia!

Ok, perfetto. Fin qui sono d’accordo su tutto: non mi sembra un reato federale che una vada a ballare e quindi, diciamo, archivierei sotto la soave voce “cazzi suoi”. Eppure…

Eppure, la veemenza della difesa – anche simil-colta, anche un po’ filosofia for dummies – lasciava un po’ perplessi. Come mai tutta questa energia? Chi ha insultato la povera Sanna o le ha chiesto di non ballare in modo così feroce e paranazista da mobilitare firme famose, corsivi corrucciati sulla gioventù negata, servizi di telegiornale, verbose lezioni sulla felicità repressa? Chi è stato, il cattivo? Ecco: non si capisce.

In tutti i servizi e pezzi e articoli e titoli usciti sul tema (parecchi, un coro) si parla sempre di avvoltoi generici, “nella bufera”, “i feroci attacchi”, “l’occhio del ciclone social e mediatico”. Ma insomma, esattamente da chi si sta difendendo con così poderose armi la premier che va a ballare? Un paio di nomi li ho trovati, a dire il vero: Mikko Kärnä, deputato finlandese del Partito di Centro, e la leader dell’opposizione (finlandese) Riikka Purra. E volendo completare l’elenco dei cattivi, mettiamoci pure il tabloid (finlandese) che ha diffuso il video, che si chiama Iltalehti. Che si siano aggiunti qualche Farfallina76 e Gino-bandierina-sovranista sul web, fa parte della solita solfa (web cattivo, commentatori buoni), ma niente di rilevante.

Insomma, l’indignatissimo e predicante coro tutto italiano in difesa di Sanna Marin sta rispondendo, a colpi di Dante e Tommaso D’Aquino, di battaglia di genere, di difesa della gioventù dall’invidia dei vecchi, a una polemica tutta interna alla politica finlandese. Con tanto di pista spionistica (sono stati i russi), sospetti di discriminazione di genere (Ecco! Lo fanno perché è stata allevata da due madri!), o semplicemente accusa di machismo spicciolo (solo perché è carina). Viene in mente quel fortunato slogan: “Ti piace vincere facile”. Ecco, qui sta lo stridore: una polemica di facile presa – uh, il video, uh, le foto – che permette di sfoderare uno spirito libertario (la felicità! Hurrà! Balliamo!) che sta bene su tutto e non impegna, che taccia altri di oscurantismo e invidia, ma gli altri chi, poi, non si capisce. Molto woke, come dicono quelli bravi, oppure “panna montata, ma che piace a tutti”, come diceva un mio vecchio caporedattore, che sicuramente avrebbe aggiunto: “E’ agosto, vai, vai, paginone!”.

Naturalmente – lo dico anche per prevenire accuse di invidia – Sanna Marin vada a ballare quando, come e con chi vuole. Nessuno si farà male, a parte noi, qui, costretti dalle polemiche interne (finlandesi) alle lezioni dei nouveau-banal-philosophes.

mer
17
ago 22

Chi votare? Così il “meno peggio” rischia di portare al peggio

PIOVONOPIETREIl concetto di “meno peggio” aleggia sulle elezioni di settembre come un solitario condor che cerca conigli nella pianura. L’esercizio può essere infinito: preferite esser chiuso in una stanza con una decina di vespe o con un giaguaro affamato? Scegliere il meno peggio vi sarà agevole, così come, alla lunga, tra mangiare male e non mangiare per niente, uno sarà costretto a scegliere la soluzione meno dannosa. Nella politica italiana la cosa funziona da secoli, la usò Silvio quando c’erano da fermare “i comunisti” (che vedeva solo lui), prima ancora la Dc a metà dei Settanta quando c’era da evitare il sorpasso del Pci, e va molto di moda oggi in cui si consigliano caldamente mollette per il naso a chi dovrebbe votare senza entusiasmi, ma con l’onorevole missione di scegliere il male minore.

Sembrerebbe una questione di logica ferrea, difficile da attaccare e in molti casi usata per forzare e stirare situazioni un po’ estreme: l’idea è che io – faccio un esempio da Milano – debba votare Cottarelli per fermare Giorgetti, o che – dico uno di Bologna – debba votare Casini per fermare Berlusconi (e tutti per fermare io sono Giorgia). Suggestivo.

L’antico trucchetto funziona un po’ meno a questo giro: la polarizzazione del voto non è pienamente conclusa, perché i poli da polarizzare non sono due, c’è una terza forza non trascurabile, i Cinque stelle, accreditati sopra o attorno al dieci per cento, poi i guastatori del quarto polo, che parlano di sé come terzo polo, che veleggiano nei sondaggi intorno al cinque e che al momento hanno sicuramente più righe sui giornali che elettori. Poi, piccole formazioni che meriterebbero almeno una seggiola.

Quanto al meno peggio, mi sia concesso di dubitare dell’efficacia del concetto. Alle politiche del 2013 Giorgia Meloni prese il 2 per cento, a quei tempi il peggio erano ancora Silvio buonanima e la Lega. Nel 2018 prese il 4,3, cioè raddoppiò i voti. Dal governo Monti in poi o con dentro tutti a battere le mani, o con governi a guida Pd (Letta, Renzi, Gentiloni, Conte2, poi Draghi, con un anno di Conte1 in mezzo), il peggio che si voleva combattere con il metodo del “meno peggio” è lievitato come un panettone, la Meloni veleggia attorno al 25, e gli altri (un peggio con cui peraltro si è governato) si ringalluzziscono dietro a lei. Un elettore su due a votare non ci va, forse perché vede il confine tra peggio e meno peggio un po’ labile e affievolito.

E’ una cosa che si è vista recentemente in Francia, tra l’altro: Macron vince le presidenziali compattando il fronte anti- LePen, e alle presidenziali successive LePen risulta cresciuta, non sminuita, al punto che moltiplica per otto i suoi in Parlamento. Pare abbastanza conclamato che il meno peggio rischia spesso di portare al peggio.

Non è una cosa nuova, anzi. Tanto che ce la spiegò in modo cristallino Antonio Gramsci nei “Quaderni dal carcere”, ricordando anche un detto popolare: “Peggio non  è mai morto”. E anche: “La formula del male minore, del meno peggio, non è altro dunque che la forma che assume il processo di adattamento a un movimento storicamente regressivo, movimento di cui una forza audacemente efficiente guida lo svolgimento, mentre le forze antagonistiche (o meglio i capi di esse) sono decise a capitolare progressivamente, a piccole tappe e non di un solo colpo”. La rana di Chomsky, insomma. Non si pretende certo che qualcuno che sta battendosi a mani nude con il Rosatellum vada a rileggersi Gramsci, però magari, vai a sapere, alla lunga può aiutare.

sab
13
ago 22

Augusto De Angelis, vita e (brutta) morte per mano fascista di un pioniere del giallo italiano

Pubblicato oggi su Il Fatto Quotidiano

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mer
10
ago 22

Il rally di Calenda & C. Politici in corsa verso le elezioni. O è un Tso di massa?

PIOVONOPIETRECome vengo a sapere male le cose! Apprendo quasi per caso, nello sfoglio distratto dei giornali, che Claudio Signorile (eh?) che possiede un suo movimento dal pittoresco nome di “Mezzogiorno Federato” (eh?) lancia accorati appelli perché Renzi e Calenda si uniscano per il bene del Paese. E questo proprio nello stesso giorno in cui apprendo – capirete lo sconcerto – che Luigi Di Maio intensifica i contatti per allearsi con il Partito Animalista, della cui esistenza non erano a conoscenza nemmeno gli animali. La nazione freme per sapere se si farà o no il matrimonio tra Italia Viva, parlandone da viva, e Azione, sposalizio in pompa magna dove uno dovrebbe portare le firme e l’altro i voti (ahah), sennò uno affonderà miseramente e l’altro annasperà fino al primo scoglio, naufrago, però “sèrio”. Tutti si dicono convinti e fiduciosi, ma hanno il terrore negli occhi: seggi sicuri a Bolzano per la fatina delle riforme non ce ne sono più, e se ci fossero andrebbero a qualcun altro. Spiace.

Ora, cercate di capirmi, è sgradevole mettere in campo questioni personali mentre si dibatte del futuro di sessanta milioni di persone, ma credo sia il momento di chiedere al direttore un indennizzo per il disagio psicologico di dover leggere così tante puttanate in poche ore, compreso naturalmente il rally di Carletto nostro adorato, che ora “accelera” e ora “frena”, ora “spinge” e ora “rallenta”, come su una strada di montagna con tornanti e saliscendi senza guard rail: che brivido.

Il tutto mentre dall’altra parte, cioè dalla stessa parte – a destra – si lancia la meravigliosa riffa della flat tax, Silvio la vuole al 23, Salvini al 15, stupisce che non si alzi nessuno a dire 11, 7, 4, anzi ti diamo noi dei soldi. Poi c’è tutta la pattuglia di quelli che “andremo orgogliosamente da soli”, che sono gli stessi che sei minuti prima si dicevano “orgogliosi di questa alleanza”; oltre a quelli che vogliono sconfiggere il fascismo, a mani nude, magari con una ferma dichiarazione di Debora Serracchiani, e che riscoprono lavoratori, giovani e precari a cinque settimane dalle elezioni dopo averli bastonati per dieci anni, partecipando attivamente a sei governi su sette da Mario Monti in poi.

In più c’è l’agenda Draghi che non si sa bene chi che l’ha, si parla di un ritrovamento a Pompei, anzi di un caveau di Confindustria, anzi me ne hanno offerta una, sottovoce, furtivi, fuori da un autogrill: “Dottò, la vuole un’agenda Draghi? Solo venti euro, ma se ne prende due gliele do per trenta”.

Questo è niente. Tra pochi giorni, che sembreranno rapidi e infiniti, comincerà l’ordalia sanguinosa delle candidature, con trecento posti in meno da distribuire tra Camera e Senato, e dunque uno strabiliante stillicidio di sacrifici umani, rabbie, ripicche, tensioni, amicizie secolari che si incrinano, e la spaventosa incertezza sulla sorte di Ettore Rosato, che diede il suo nome a una legge elettorale a cui non sarebbero arrivati nemmeno i Jefferson Airplane dopo aver ingerito due chili di Lsd. Legge che fu concepita per far perdere i 5stelle, che infatti vinsero.

Il quadro, come si dice, è complesso, anche se qualche lume viene dalla ricerca di un’università americana, secondo la quale se intervisti una scimmia bonobo tutti i giorni per un anno su tutti i giornali e le televisioni, questa tenderà a salire nei sondaggi, salvo poi incontrare la dura realtà della giungla, e cioè che gli italiani saranno anche scemi, ma un pochino meno di chi si sbraccia per rappresentarli in modo “sèrio”.

mer
10
ago 22

Il rally di Calenda & C. Politici in corsa verso le elezioni. O è un Tso di massa?

PIOVONOPIETRECome vengo a sapere male le cose! Apprendo quasi per caso, nello sfoglio distratto dei giornali, che Claudio Signorile (eh?) che possiede un suo movimento dal pittoresco nome di “Mezzogiorno Federato” (eh?) lancia accorati appelli perché Renzi e Calenda si uniscano per il bene del Paese. E questo proprio nello stesso giorno in cui apprendo – capirete lo sconcerto – che Luigi Di Maio intensifica i contatti per allearsi con il Partito Animalista, della cui esistenza non erano a conoscenza nemmeno gli animali. La nazione freme per sapere se si farà o no il matrimonio tra Italia Viva, parlandone da viva, e Azione, sposalizio in pompa magna dove uno dovrebbe portare le firme e l’altro i voti (ahah), sennò uno affonderà miseramente e l’altro annasperà fino al primo scoglio, naufrago, però “sèrio”. Tutti si dicono convinti e fiduciosi, ma hanno il terrore negli occhi: seggi sicuri a Bolzano per la fatina delle riforme non ce ne sono più, e se ci fossero andrebbero a qualcun altro. Spiace.

Ora, cercate di capirmi, è sgradevole mettere in campo questioni personali mentre si dibatte del futuro di sessanta milioni di persone, ma credo sia il momento di chiedere al direttore un indennizzo per il disagio psicologico di dover leggere così tante puttanate in poche ore, compreso naturalmente il rally di Carletto nostro adorato, che ora “accelera” e ora “frena”, ora “spinge” e ora “rallenta”, come su una strada di montagna con tornanti e saliscendi senza guard rail: che brivido.

Il tutto mentre dall’altra parte, cioè dalla stessa parte – a destra – si lancia la meravigliosa riffa della flat tax, Silvio la vuole al 23, Salvini al 15, stupisce che non si alzi nessuno a dire 11, 7, 4, anzi ti diamo noi dei soldi. Poi c’è tutta la pattuglia di quelli che “andremo orgogliosamente da soli”, che sono gli stessi che sei minuti prima si dicevano “orgogliosi di questa alleanza”; oltre a quelli che vogliono sconfiggere il fascismo, a mani nude, magari con una ferma dichiarazione di Debora Serracchiani, e che riscoprono lavoratori, giovani e precari a cinque settimane dalle elezioni dopo averli bastonati per dieci anni, partecipando attivamente a sei governi su sette da Mario Monti in poi.

In più c’è l’agenda Draghi che non si sa bene chi che l’ha, si parla di un ritrovamento a Pompei, anzi di un caveau di Confindustria, anzi me ne hanno offerta una, sottovoce, furtivi, fuori da un autogrill: “Dottò, la vuole un’agenda Draghi? Solo venti euro, ma se ne prende due gliele do per trenta”.

Questo è niente. Tra pochi giorni, che sembreranno rapidi e infiniti, comincerà l’ordalia sanguinosa delle candidature, con trecento posti in meno da distribuire tra Camera e Senato, e dunque uno strabiliante stillicidio di sacrifici umani, rabbie, ripicche, tensioni, amicizie secolari che si incrinano, e la spaventosa incertezza sulla sorte di Ettore Rosato, che diede il suo nome a una legge elettorale a cui non sarebbero arrivati nemmeno i Jefferson Airplane dopo aver ingerito due chili di Lsd. Legge che fu concepita per far perdere i 5stelle, che infatti vinsero.

Il quadro, come si dice, è complesso, anche se qualche lume viene dalla ricerca di un’università americana, secondo la quale se intervisti una scimmia bonobo tutti i giorni per un anno su tutti i giornali e le televisioni, questa tenderà a salire nei sondaggi, salvo poi incontrare la dura realtà della giungla, e cioè che gli italiani saranno anche scemi, ma un pochino meno di chi si sbraccia per rappresentarli in modo “sèrio”.

mer
27
lug 22

Pillole per votare. Credere al Pd? Servirebbe la sedazione di massa

PIOVONOPIETREQuella cosa delle pulci con la tosse non è del tutto sbagliata, e la spiega molto bene Matteo Renzi: “Se pensano di poterci abbindolare con due seggi non ci conoscono”.
Tranquillo, vi conoscono, ma già siamo alla battaglia per i posti (pochi), e sempre
meno blindati (traduco: niente seggi sicuri a Bolzano), quindi a breve assisteremo a
spettacolini poco decorosi in cui si sommeranno preghiere e minacce per salire sul
pittoresco carro di Enrico Letta. Secondo altri, addirittura, sul carro dovrebbe salire
lui. Dice Calenda che il suo programma è quello lì, se il Pd ci sta bene, sennò farà da
solo (cioè, con Bonino, cioè da solo). E’ uno strano modo di condurre una trattativa,
un po’ come andare a comprare una Porsche con trentacinque euro e, incredibilmente,
trovare un concessionario che dice, va bene, qua la mano. Misteri che la direzione del
Pd di ieri non ha del tutto chiarito, e non era possibile, anche perché non si sa dove
mettere nel mazzo né alcuni centristi un po’ imbarazzanti (chiedere ai propri militanti
di votare Brunetta, specie se sono dipendenti pubblici insultati per anni, non sarà uno
scherzetto), né chi si definisce orgogliosamente “a sinistra del Pd” e che poi vota
come il Pd, torna a casa Lassie.
Ma sia, la cronaca la conosciamo, da qui alla formazione delle liste, in confronto, la
corte dei Borgia sembrerà la famigliola del Mulino Bianco. E questo è il prima, lo
stupefacente “qui e ora”, che già scoraggia un bel po’. E poi, per scoraggiarsi
definitivamente, ci sarebbe “il dopo”. Nell’ipotesi, al momento improbabile, che i
“democratici e progressisti” riescano a resistere alla destra, si troverebbero dentro un
po’ di tutto, il bar di guerre stellari. Non so, Gelmini e Fratoianni, per dire, magari
con un peone alla Camera di nome Renzi, un Calenda che detta le tavole della legge,
tutti a sventolare l’agenda Draghi. Dove, faccio notare, alcune cose sono scritte
sempre al futuro, lo ius scholae si farà, il salario minimo si farà, l’agenda sociale si
farà, vedremo, forse. Nel programma di Calenda, per dire, c’è che bisogna
“militarizzare” (testuale) i siti dove si prevedono inceneritori o rigassificatori, e non
so se un governo di “democratici e progressisti” possa veramente usare l’esercito
così, a capocchia di Calenda. O la detassazione totale per le assunzioni di under 25,
che sarebbe un altro regalo sontuoso ai datori di lavoro.
Non se ne esce, a meno che non ci venga in aiuto la scienza. Una pillola che fa
dimenticare sarebbe l’ideale, una specie di amnesia universale, un vuoto di memoria
che consenta all’elettore di scordarsi tutto. Credere a un’ipotetica “agenda sociale”
promessa da tutti quelli che hanno votato il Job act o il decreto Poletti è possibile
soltanto in caso di grave ottundimento. Lo spettacolo di una classe politica che ha
governato per dieci anni negli ultimi undici e che ora dice di voler fare l’esatto
contrario non è tollerabile, a meno, appunto, di procurarsi una forte amnesia, di
svegliarsi dopo un coma decennale e ritrovarsi in un mondo fatato dove il Pd parla di
salari e di precarietà. Per ora la precarietà che si sta sistemando è quella dei disperati
sotto il tre per cento che si presentano minacciosi ma col cappello in mano.
Una sedazione di massa sarebbe invero utile. Potrebbe riportarci alla fine del governo
Monti, quando si dicevano dell’”agenda Monti” le stesse cose che si dicono ora.

sab
23
lug 22

Pensioni a 1000 euro e alberi a gogo. Il programma “Giorno della marmotta”

PIOVONOPIETREPerdonerete il tono affettuoso, ma a Berlusconi che “scende in campo” non si può
negare un minimo sindacale di tenerezza. Il suo mangiarsi le parole, i lievi
appisolamenti, il gesticolare fuori sincrono, rendono in modo feroce il passare del
tempo, ma hanno il pregio dell’aria famigliare, da consigli per gli acquisti, da vecchio
Carosello. E’ un modo morbido di entrare nel nostro eterno giorno della marmotta,
ieri come oggi, oggi come domani, domani come l’altro ieri.
Un programma “avveniristico”, promette Silvio, e sgancia i suoi gavettoni sui
bagnanti. Otto punti, per ora un po’ misteriosi, di cui si conosce il primo: pensioni a
mille euro. Basterebbe così, ma si parla al settore “cuore d’oro” dell’opinione
pubblica – più gli utenti di Rete4 – e quindi sotto di mamme, le nostre mamme, che
hanno lavorato anche i sabati e le domeniche. Giusto, sacrosanto. Pensioni a mille
euro per tutti. Minimo. Ci mancherebbe. Peccato che l’aveva già detto. Nel lontano
2001, per cominciare (la pensione minima a un milione!), poi mantenne la promessa
per una platea ristrettissima, tipo gli zoppi con l’occhio di vetro, ma solo il sinistro).
Si era adeguato all’euro, Silvio nostro buonanima, un po’ in ritardo, così aveva
aspettato le elezioni del 2008 per sparare le sue pensioni a 1000 euro, ripescate poi
nella campagna elettorale del 2013, e in seguito nel maggio del 2017 e lo ridisse in
novembre, e poi ancora nel 2019, e poi ancora oggi. Se le promesse pensionistiche di
Berlusconi fossero cumulabili avremmo tanti pensionati-Briatore senza problemi, in
barca a Portofino. E invece.
Siccome ci sono un paio di mesi di calvario in vista, è comprensibile che Silvio si
tenga da parte altri palloncini per stupire le platee. Per ora si mantiene sulla
precisissima vaghezza dei suoi programmi di sempre, avveniristici o no. “Meno
tasse”, maddai? Meno burocrazia (dove si scrive “burocrazia” ma si legge
“controlli”), meno processi, più sicurezza. E così ecco sistemati quattro punti
cardine, con la deliziosa svisa melodica dei “meno processi, più sicurezza”, che
tradotto vuoi dire più processi ai poveracci e meno a quelli come lui, un classico.
Divertenti gli altri punti che per ora sono ampiamente illustrati così: “Per i
giovani, per gli anziani e per la nostra politica estera”, sulla quale ci piacerebbe
sorvolare. Quando si dice un programma dettagliato.
Ma poi: il colpo da maestro: un milione di posti da albero ogni anno. Proprio
così, il Berlusconi green, uno che tra macchine, aerei, barche, ville, ha l’impronta
ecologica di una centrale a carbone medio-grande, si riscopre giardiniere, green,
ecologista e verde. Un milione di alberi all’anno è un bel traguardo, chissà che
non verrà fuori, un domani, in qualche remoto processo, che gli serviva
ripiantumare i viali d’accesso.
Ma si sa che il diavolo è nei dettagli: la millemillesima discesa in campo di mister
B non può far storcere troppo il naso a tutti quelli (tutti, dai sumeri alla Meloni,
dal Pd agli stropicciati centrini, Lega, liberal, radicali, persino i 5stelle nel
governo Draghi) che hanno governato con lui, che gli hanno perdonato tutto, che
l’hanno blandito e incensato quando i suoi votavano le “utili” fiducie del
menopeggio del nostro scontento. Silvio era lì. E ora è ancora lì, perché non c’è
come il menopeggio per coltivare il peggio eterno.

mer
20
lug 22

Appelli. Sgusciatori di cozze, marziani e parcheggiatori: tutti pazzi per Mario

PIOVONOPIETRECoraggio, smettetela coi cardiotonici e le cure per l’ansia, oggi sapremo. In questa gloriosa giornata di luglio, infine, si spera, conosceremo la nostra sorte: se potremo continuare a vantarci di essere la Superpotenza che conosciamo, quella con Brunetta ministro, oppure se sprofonderemo nel baratro dei popoli tristi e imbelli che – con grande spregio della democrazia – si avviano alle elezioni dopo una crisi di governo innestata dalle dimissioni di un capo di governo con fiducia abbondante e maggioranza parlamentare sicura. Ma intanto, godiamoci la festa di popolo in sostegno di Mario Draghi: manifestazioni oceaniche in tutta Italia, da Roma a Milano, poderose e immense, alcune in grado di occupare addirittura due panchine, e il resto in piedi, fino a quarantadue persone (ventotto secondo la questura).

Dunque siamo ancora – fino alle comunicazioni alle Camere di oggi – con un piede nella Gloria e uno nella Disgrazia, per metà illuminati dal faro della Saggezza e per l’altra metà avvolti dal buio delle Tenebre. Speriamo bene, sarebbe un delitto perdere il “Bonus zanzariere e tende da sole” (detrazione Irpef 50 per cento fino a 60.000 euro nel 2022) o il “Bonus condizionatori” (detrazione Irpef 50 per cento fino a 10.000 euro), il Paese non se lo può permettere. In più c’è la guerra, quindi niente crisi (come in Gran Bretagna, barbari) e niente elezioni (come in Francia, dilettanti).

Ma portiamoci avanti col lavoro: cosa resterà di questi giorni furenti e spaventosi? Forse l’appello di Emanuele, senzatetto romano, che confermando la sua presenza alla manifestazione con decine e decine di persone assicura (virgolette a cura di Adnkronos) che “Mario Draghi ha fatto molto per noi clochard”.

Per fortuna oggi sapremo, meno male. Così ci evitiamo il nuovo strabiliante ritrovamento delle mirabili iscrizioni di Pompei: “Mane nobiscum, heroicum Mario”, nella ritrovata villa sede della Confmiliardari distrutta dal Vesuvio. E forse ci risparmieremo anche il misterioso suono captato dalle profondità dello spazio – pare venga dalla Ztl della galassia di Andromeda – un ipnotico ripetersi di impulsi che ha viaggiato nel buio stellato per dodici miliardi di anni e che ora, tradotto, suona così: “Resta, Mario Draghi, unico terrestre competente”.

Ancora due giorni di thrilling e le avremmo avute sicuramente, forse insieme alle accorate preghiere delle poche categorie che mancano all’appello dei firmatari di appelli: “Rapinatori di banche per Draghi”, “Sgusciatori di ostriche per Draghi”, “Ausiliari della sosta per Draghi”, mai visto un popolo più compatto dietro alla sua punta di diamante.

Forse servirà un po’ di distanza per apprezzare le impennate popolari di questi giorni, il fremito democratico, la rabbia di quella decina di milioni di italiani che non vogliono perdere il privilegio dei loro mille euro lordi al mese ottenuti dopo otto ore e più di lavoro svolto con la gioia di chi sa di essere utile al Paese. E si capisce che nei sogni della parte sinistra del draghismo-dadaismo si faccia strada il sogno definitivo di una grande manifestazione, immensa e infinita, dei “Lavoratori poveri per Draghi”, aperta da un enorme striscione: “Grazie di tutto”. Sogni, appunto, che svaniranno oggi, quando sapremo se i nostri appelli hanno funzionato, e se quella firma finale (cfr: Massimo Troisi e Roberto Benigni nella lettera a Savonarola), “Noi ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi piedi, senza chiederti nemmeno di stare fermo”, avrà raggiunto il suo obiettivo.

mer
13
lug 22

I lavoratori poveri, poverissimi presi a ceffoni da un nuovo emendamento

PIOVONOPIETREE’ un uno-due che abbatterebbe un toro, il rapido susseguirsi di studi su quanto e come siamo un popolo povero, molto povero. Prima il rapporto Istat, poi il rapporto Inps, due sberle potenti e sonorissime. E poi via, di nuovo sull’ottovolante della politica del Palazzo, i buoni propositi, i roboanti annunci, i bonus, le esternazioni, gli ultimatum, gli anatemi, il solito spettacolino. Ma i numeri sono più forti: 5,6 milioni di italiani in povertà assoluta, nove milioni in povertà relativa, 4,3 milioni di italiani che guadagnano meno di 780 euro al mese (senza stare “seduti sul divano”), un lavoratore su tre che guadagna meno di mille euro al mese, lordi, 4,2 milioni di lavoratori precari (il 22 per cento del totale). Lavoratori poveri con un futuro da pensionati poveri, a combattere con le mani legate, e un’inflazione che galoppa dalle parti dell’8 per cento, cioè si mangia anche (soprattutto) i salari da fame.

La sensazione è quella di essere seduti su una polveriera, e il primo pensiero va proprio alla politica: da dove sgorga questo disastro? Quanti anni bisogna andare indietro per dire: ecco chi ha governato il mercato del lavoro? Sappiamo le risposte. Sì, ma il Covid, sì ma la guerra… un po’ deboli, perché tutto questo nasce molto prima, quando il Covid non esisteva e la guerra non c’era, e viene alla mente quella famosa tabella brutta e cattiva (fonte: Osce): mentre a partire dal 1990 in tutti i paesi europei sono aumentati i salari (dal più 6,20 della Spagna, l’incremento più basso, al più 33,70 della Germania), da noi sono calati (meno 2,9 per cento). Insomma, si vede a occhio nudo: la minaccia feroce che “Sennò arriva la Troika” non dovrebbe fare molta paura, dato che la Troika è arrivata da un pezzo.

Ora si assiste a un frenetico arrampicarsi sugli specchi insaponati: bisogna fare qualcosa, bisogna muoversi, si studiano bonus, correzioni di rotta, si annunciano impegni solenni. Si tenta di chiudere la stalla, insomma, con i buoi già scappati che fanno marameo dall’orizzonte. Si dirà: bene essersene accorti (alla buon’ora), e ora basta fare leggi che penalizzano i lavoratori! Urca!

E però, basta guardarsi un po’ intorno per capire che no, invece, che le leggi contro i lavoratori continuano a nascere senza che quasi nessuno se ne accorga. Ultimo caso, il pasticciaccio brutto della logistica, una modifica al Codice Civile contenuta (si può dire nascosta?) nel Decreto Pnrr2. Si tratta di una cosa piuttosto semplice: non c’è più la responsabilità del committente se una ditta fornitrice non paga i suoi dipendenti. Cioè io consegno merci per un grande distributore di commercio online, ma se non mi pagano, o ho un incidente, non posso più rivalermi sul committente, come potevo fare prima. Ad essere responsabili in solido saranno le migliaia e migliaia di aziendine, spesso cooperative, che ti mettono in regola per quattro ore anche se ne lavori dodici (il resto in nero), che muoiono spesso, chiudono, spariscono al primo problema, e i lavoratori sempre più ricattabili – scusate il francesismo – cazzi loro. Una sberla secca ai lavoratori di un settore, la logistica, già considerati tra i più disastrati, circa un milione di sberle, votate da tutti (fiducia il 28 giugno, 419 favorevoli, 50 contrari). L’emendamento è stato inserito nel decreto dall’onorevole Nazario Pagano (Forza Italia). Assologistica ha ringraziato con un comunicato: lui e i ministri Cartabia e Giorgetti. Un milione di lavoratori hanno meno garanzie e più paura. Grazie. Prego.

mer
6
lug 22

Emergenze. Dalla siccità alle valanghe “è colpa nostra” (ma mai dei politici)

E’ consigliata l’autofustigazione, possibilmente in pubblico, l’autodafé, l’espiazione solenne e silenziosa. Insomma, porca miseria, pentitevi, ognuno scelga la sua modalità (frustate sulle piante dei piedi, pinze e tenaglie, digiuni e penitenze) perché quel che emerge dal disastro della Marmolada è che “siamo tutti colpevoli”, anzi “è colpa nostra”, anzi “questo è ciò che stiamo facendo al pianeta”, eccetera eccetera. C’è del vero, ovviamente: se gran parte del riscaldamento globale dipende dall’Uomo (inteso come umanità, ma anche come guidatore di automobile, consumatore di risorse, utilizzatore di aria condizionata), la colpa sarà anche nostra, certo, e ben vengano appelli e preghiere a comportamenti più responsabili, ovvio. Eppure non se ne va la sensazione che la colpevolizzazione del cittadino, l’appello alla sua moderazione, faccia velo all’inanità della classe dirigente (quella che dirige, che decide). Per chiarire: siamo chiamati a riflettere sulle nostre colpe e a correggere i nostri comportamenti, a sentirci in colpa, giusto, ma questo avviene proprio mentre la politica mondiale riscopre il carbone, rinvia sine die la ricerca di nuovi modelli di sviluppo, moltiplica le spese in armamenti, si riunisce in enormi assise che decidono poco o niente (e questo al netto dei deficienti negazionisti che in gennaio titolano: “Riscaldamento globale? Ma se fa freddo!”). Insomma, è colpa nostra, ma le politiche del clima non le facciamo noi. E c’è anche una sindrome da spiazzamento costante: mentre a pagina sei si legge, contriti e pentiti, che non si può andare avanti così, a pagina otto ci si stracciano le vesti perché le immatricolazioni di auto rallentano, o perché l’industria ha fame di energia e in assenza di gas, vabbé, le daremo da mangiare carbone, che sarà mai.

Come si sa, si procede per emergenze, e in ogni emergenza si chiama a corresponsabile il cittadino, in molti casi additandolo come il vero colpevole del disastro corrente. Dopo il Covid, è diventato un classico: la sanità barcollava, i vaccini non c’erano ancora, la medicina di base agonizzava, i posti letto negli ospedali calavano (25.000 in meno negli ultimi dieci anni), ma si applaudiva l’elicottero dei Caramba che inseguiva un podista solitario sulla spiaggia, in diretta tv. Traduco: l’autorità non si discute (sacrilegio!), è il singolo che è stronzo.

La siccità ci offre un esempio illuminante in proposito. Non piove, non nevica d’inverno, i fiumi sono vuoti, gli invasi calano, i sindaci si scervellano per inventare soluzioni, razionamenti, regole. Di colpo si discute animatamente sull’uso che facciamo dell’acqua. Trenta litri per lavarsi i denti? Pazzesco. Cento per lavare la macchina? Cinquanta per farsi una doccia, ma siamo matti? E questa è una parte del problema, su cui molti riflettono. Poi c’è l’altra parte: su dieci litri d’acqua che entrano nella nostra rete di distribuzione, quattro vanno persi, oltre il quaranta per cento, perché la rete è un colabrodo, gli investimenti non si sono fatti, l’acqua piovana non viene sfruttata, gli sprechi sono enormi, la politica non fa il suo mestiere. Insomma, lo dico male: può risultare irritante l’accorato appello al risparmio e alla frugalità liquida se chi dovrebbe garantire l’approvvigionamento se ne fotte alla grande, non investe, non decide nuovi invasi, non sistema le condutture. E’ come se l’idraulico, chiamato per una perdita, invece che aggiustare il tubo logoro, ti dicesse: “Anche lei, però! Eccheccazo, si lavi un po’ meno!”.

mer
29
giu 22

La sindrome Pd. A parole punta sul sociale, nei fatti lo ha distrutto

Siccome viviamo in un Paese dove uno di Cuneo che vive a Montecarlo spiega cos’è la pizza ai napoletani, possiamo partire dal presupposto che vale tutto, che si può dire ogni cosa e che nessuno ne chiederà conto. Per tradizione nazionale, il punto più alto di questa grandinata di parole si ha nei giorni a cavallo delle elezioni, e peggio ancora questa volta, perché si leggono elezioni locali, tarocchi e fondi di caffè, per capire cosa succederà in Italia tra qualche mese, alle politiche. In certi passaggi – anche divertenti, va detto – è come se una tornata elettorale, anche parzialissima come quella appena finita, azzerasse tutto quanto per tutti i decenni e i secoli passati. Sembra un remake di Eraserhead, la mente che cancella.

Così ecco il ministro del Lavoro Andrea Orlando che, richiesto di rivelare come diavolo si farà a comporre lo strano puzzle che mette insieme in un unico disegno da Conte a Renzi, da Di Maio a Calenda, risponde che “vicinanze e distanze del cosiddetto campo largo si misureranno su salari, lotta alla precarietà, attenzione alla sanità e alla scuola pubblica”. Insomma eccolo, sbarcato da Marte, invocare attenzione per quei temi su cui il suo partito ha contribuito massicciamente, negli ultimi dieci anni, a fare un deserto. Bisogna misurare “vicinanze e distanze”, bene, bella frase, ma le distanze sono già ben delineate: il primo decreto del governo Renzi fu il decreto Poletti, che di fatto rendeva più meno eterno il precariato, e poi venne il Jobs act, e poi (e prima) tutte le leggi sul lavoro (e contro i lavoratori) che conosciamo. Per misurare “vicinanze e distanze”, insomma, il primo atto sarebbe un’inversione a U: ripudiare tutto quello che negli ultimi decenni è stato fatto sul lavoro, abolirlo e rifarlo daccapo, o anche tornare alla legislazione precedente (articolo 18, statuto dei lavoratori, divieto di demansionamenti, eccetera eccetera, tutte cosette che Orlando votò). Lo stesso vale per la sanità, sempre sbandierata come frontiera di divisione tra destra e sinistra, ma dove il confine non è chiaro: 25.000 letti in meno negli ospedali italiani negli ultimi dieci anni, per esempio, e – persino con una pandemia, budget potenzialmente illimitato e un ministro della sanità “di sinistra” – già si parla di altri tagli. La scuola pubblica, poi, peggio mi sento: anche lì sono attesi nuovi tagli, a dispetto della tanto decantata grandinata di miliardi in arrivo.. Questo per dire che le chiacchiere sono gradevoli, ma i fatti incombono e non vanno nella stessa direzione. Diciamo che le “vicinanze” alle esigenze del Paese (salari, sanità, scuola) sono forti a parole, mentre le “distanze” sono evidenti nei fatti.

Gioca col nonsense anche il vicesegretario del Pd, Beppe Provenzano, che dice: “Per noi le larghe intese sono un’esperienza irripetibile”. Il che è bizzarro, perché dopo aver fatto parte del governo Monti (larghe intese) e del governo Draghi (larghissime intese), dire che il governo con dentro tutti è “un’esperienza irripetibile” lascia qualche perplessità nei potenziali clienti: se uno ti ha già venduto due catorci, non è scontato che la terza macchina la comprerai da lui, il che spiega come mai 6 italiani su 10 si tengono lontani dal concessionario e piuttosto che farsi truffare di nuovo, preferiscono andare a piedi. Non so le vicinanze, ma le distanze (tra elettori e urne) sono piuttosto grandi, probabilmente incolmabili in pochi mesi, a causa del vecchio vizio (populista?) di guardare più ai fatti che alle parole.

mer
22
giu 22

Che originali. Letta, Calenda e Renzi: l’unica “strategia” è puntare al centro

PIOVONOPIETREBevete molta acqua, mangiate la frutta e si vince al centro. L’antica saggezza ci colpisce ogni minuto, è una specie di ritornello che echeggia ovunque, un’esortazione, quasi un ordine. E’ un po’ come lo sport, o il sesso, che più se ne parla e meno se ne fa: se il famoso centro avesse un voto ogni volta che sui giornali si legge “si vince al centro”, avrebbe il 110 per cento. Diciamolo: è un argomento in cui sarebbe ora di mettere un po’ d’ordine, perché ormai sappiamo che una iattura del Paese (una delle) è l’affollamento di volenterosi costruttori di centri, che nelle intenzioni dovrebbero essere più centrali dei centri esistenti, che già sono parecchi. Gli ultimi boatos riguardano un ipotetico centro dal fantasioso nome “L’Italia c’è” (Matteo, sei tu?), che dovrebbe contenere i soliti noti e meno noti, cioè Calenda Carlo e la pattuglia di Più Europa (e alé, una cabina del telefono l’abbiamo riempita), con la leadership affidata al sindaco di Milano Beppe Sala.

L’altro grande costruttore di centri, Renzi Matteo, si sbraccia per un centro più tecnocratico ed elitario che lui chiama “Area Draghi”, cioè tutti quelli che ci sono nel governo Draghi tranne quelli che stanno nel governo Draghi ma non piacciono a lui, e che forse interpreta come l’unica maniera per avere un seggio da qualche parte. Poi c’è un ancora più grande centro, detto Campo largo, ambizione di Letta Enrico, che vorrebbe in qualche modo federare intorno al Pd – grande forza di centro – tutti gli altri fabbri e carpentieri dei centri in costruzione, più forse qualcuno che sta più a sinistra, ma che poi, tranquilli, quando si vota in Parlamento (che so, per le armi) vota come il centro.

Per lisergico paradosso, la formula “si vince al centro” ha avuto sulla stampa italiana una discreta impennata proprio mentre in Francia il centro macroniano prendeva una sberla solenne, anzi due: una da destra e una da sinistra, e se si hanno sotto gli occhi i risultati francesi, la frase “Si vince al centro” sembra un commento sarcastico-perculante. Coerentemente, tutto il centro possibile e immaginabile italiano, non ha quasi commentato le elezioni francesi e tutti i titoli sono per Le Pen trionfante e per il Napoleone centrista acciaccato. Se si parla di una sinistra unita e plurale, che ha ottenuto un risultato storico, e che è la prima forza d’opposizione in Francia, si scartabella nel tradizionale armamentario dialettico centrista: Mélenchon e i suoi sono populisti, anti-sistema, il Chavez francese, estremisti, anti-atlantici e aggiungere insulti a piacere.

Naturalmente non dovete pensare al centro come a un puntino statico, ma a una sostanza collosa che si muove nel tempo e nello spazio. Oggi in Italia le disavventure del marketing fanno in modo che ci sia una certa confusione: la più grande e magmatica forza di centro, il famoso Campo largo, si ostina a dirsi “sinistra”, che è un po’ come quelle fighettissime botteghe milanesi che vendono aperitivi a venti euro ma mantengono l’antica insegna novecentesca: fabbro, o lavanderia. E poi c’è pure la questione geografica, perché membri illustri del famoso centrissimo twittano sentite felicitazioni alla sinistra che vince in Colombia (la Colombia è lontana), ma zero commenti sulla sinistra francese resuscitata (anzi è una bella seccatura). Resta l’impareggiabile spettacolo di arte varia di tutti quegli omini, operosi e intervistati ogni giorno, che si affannano a costruire centro in un posto dove, se ti guardi in giro, non c’è altro che centro.  

mer
15
giu 22

I 5 referendum. Nelle priorità italiane stavano dopo il prezzo delle capesante

PIOVONOPIETREDopo la pizza e la pastasciutta, si conferma grande tradizione italiana il dibattito sui referendum, specie dopo il fatale mancamento di quorum. Insomma, quasi ogni volta che si viene chiamati a votare Sì o No, vincono quelli che non vanno a votare né Sì né No, che è il modo migliore per votare No, come si è visto anche l’altro giorno (fanno eccezione i referendum costituzionali, dove invece la gente va volentieri a votare No, e poi festeggia, ottimo). Ed ecco: dalle maggiori testate italiane all’ultimo giornaletto di provincia fioriscono gli spiegoni per dire che l’istituto referendario ha perso il suo potere, che va riformato, che non è più come una volta, il divorzio, l’aborto, quanto ci manca Marco Pannella, eccetera eccetera. È come se davanti a un fuciliere che sbaglia mira di qualche decina di metri si riflettesse argutamente sulla riforma del fucile. Le proposte su come cambiare l’istituto del referendum si somigliano un po’ tutte e dicono sostanzialmente due cose: alzare il numero delle firme necessarie per chiederlo e abbassare il quorum per vincerlo, che è un po’ come dire al fuciliere di cui sopra: “Senti, amico, col fucile sei negato, prova con questo cannone, vedrai che ci riesci”.
I cinque referendum defunti domenica scorsa, il cui esito era largamente prevedibile e previsto – tanto che anche i sostenitori (Lega e Renzi in primo luogo) hanno quasi fatto finta che li avesse proposti un lontano cugino, per fingere di non prendere l’ennesima facciata – sono un caso di scuola. Chiedere al famoso popolo di esprimersi, che so, sulla composizione dei Consigli giudiziari, sembra un po’ azzardato. Ammesso che sappiano cosa sono, risulta che la composizione dei Consigli giudiziari, nelle priorità degli italiani, stia al milletrecentonovantaseiesimo posto, molto dopo il prezzo delle capesante gratinate e appena prima del sesso degli angeli (che sarebbe più interessante, tra l’altro). Dunque, cos’è che provoca negli elettori questa fuga dal prezioso istituto del referendum? Facciamo qualche ipotesi.
La prima è che viene da ridere. A chiedere di abolire la legge Severino, per dirne una, sono stati tre leader sotto processo (Salvini, Renzi, Berlusconi). Cioè: tre leader che temono una condanna, tentano di abolire la legge che gli impedirebbe di sedere in Parlamento in caso di condanna, non fa una piega. Poi, c’è il fatto che due referendum che sarebbero stati molto popolari (la liberalizzazione della cannabis e il diritto a una morte decente), che nascevano da varie mobilitazioni e raccolta di milion
i di firme, sono stati bocciati con bislacchi cavilli, mentre i referendum proposti da cinque consigli regionali (cioè dalla classe politica) sono stati ammessi, una cosa piuttosto irritante. Ci metterei anche – sono andato a scartabellare – che sul declino dello strumento del referendum abrogativo si parlò a lungo nel 1996 (26 anni fa) e anche nel 1999 (23 anni fa), quando i Radicali di Pannella (allora impegnato in una lista Sgarbi-Pannella, ahahah) li proponevano a mazzetti di dieci o venti, come gli asparagi. In più, alcuni referendum che raggiunsero il quorum e dove vinsero i Sì, sono spariti nel cyberspazio (acqua pubblica, 2011, o privatizzazione della Rai, 1995). Dovrebbe bastare, forse, per dire che il limite del referendum non sta nelle firme necessarie, e nemmeno nel quorum, ma nell’uso belluino che se ne fa, e comunque alla fine si dà la colpa al famoso popolo che – cretino – non capisce. Mentre invece, si è visto domenica, capisce benissimo.

mer
8
giu 22

Vai con le liste! Dai ladri di biciclette ai celiaci: così si risolleva l’editoria

PIOVONOPIETREMozzarella, pomodori, lo yogurt, mezzo chilo di pane, due etti di prosciutto, uova, pancetta e un po’ di frutta, vedi tu cosa trovi. Ah, è finito il sale, mi raccomando, e già che ci sei, i cereali per la colazione. Questa è la lista che il Copasir mi ha lasciato attaccata al frigorifero, e poi se n’è andato a lavorare. Fa un lavoraccio, poverino, passa il suo tempo a smentire di aver compilato tutte le liste attribuite al Capasir che girano – in primis quella dei putiniani. Molto stressante.

La lista comunque è incompleta (quella dei putiniani, non quella sul frigo). Manca Putin, per esempio, che non è un dettaglio, manca il papa, e siccome dai sondaggi continua a risultare che il 50-60 per cento degli italiani è contrario all’invio di armi all’Ucraina (il che equivale ovviamente ad essere putiniani), mancano più o meno una ventina di milioni di nomi. Compreso (lo dico, me ne assumo la responsabilità) il signor Fernando del terzo piano, che ha espresso le sue perplessità sul Donbass mentre aspettava l’ascensore, che tra l’altro lascia spesso aperto al suo piano (maledetto), per cui è già in due liste: quella dei putiniani d’Italia e quella degli stronzi che bloccano l’ascensore.

Può anche darsi che la pubblicazione di liste di proscrizione sia un buon metodo per superare la crisi dei giornali in Italia: pubblicando molte liste di personaggi sgraditi, e facendole sempre più lunghe, chiunque vorrà controllare la presenza di amici e parenti. “Ehi, Gino, ho visto che sei nella lista dei manciniani d’Italia, che sostengono il ct della Nazionale”. “Dannazione, – risponde Gino – come l’avranno saputo!”.

Attenzione, la cosa potrebbe prenderci la mano. Sempre leggendo i giornali, si potrebbe stilare una lista di quelli favorevoli alle liste, oppure una lista di quelli contrari alle liste, o ancora comporre liste con il famoso metodo “a cazzo”, da pubblicare quando c’è carenza di liste: la lista dei celiaci, la lista dei pescatori di frodo, la lista di chi possiede animali a pelo lungo (notoriamente sostenuta dalla lobby di produttori di spazzole). A questo punto – suggerimento al direttore, mi permetto – non ha senso combattere l’uso e abuso degli elenchi di persone da cacciare dal consesso civile e dalla tivù, meglio passare al contrattacco. Per esempio, compilare e pubblicare la lista di deputati e senatori che hanno votato il Jobs act, oppure la lista degli evasori fiscali, o addirittura la lista dei domestici di Gianluca Vacchi che non tengono il tempo nei suoi balletti su Tik Tok. Pensiamoci, aumenterebbe l’occupazione, perché il Copasir dovrebbe assumere migliaia e migliaia di compilatori di liste: “Lista di quelli che ieri non avevano la bicicletta e oggi ce l’hanno. L’avranno rubata? Nel dubbio, ecco i loro volti”. E’ anche possibile pensare a un sistema di incentivi: se nella stessa settimana uno compare in tre liste distinte (che so, putiniani, possessori di auto Gpl e tiratori con l’arco), potrà godere di un piccolo sussidio sotto la voce “sostegno all’editoria”.

Tutto questo in attesa della pubblicazione (sarebbe l’ora!) di un elenco piuttosto corposo: la lista di quelli che guadagnano tre euro l’ora, che conterrebbe milioni di nomi e facce di gente che delle liste di putiniani non sa che farsene, se ne sbatte allegramente, non capisce nemmeno di cosa cazzo state parlando, perché troppo impegnata a mettere insieme il pranzo con la cena e a tirare l’anima coi denti. Bon pazienza, basterà raccontargli che è colpa di Putin e andrà tutto benissimo.

mer
1
giu 22

Il Pd e il lavoro. Gli “strateghi” adesso ammettono gli errori, ma senza nomi

PIOVONOPIETRESegnatevi queste parole: “Il nostro Paese sconta una perdita di competitività cui si è pensato di far fronte con una flessibilizzazione del costo del lavoro, ma questa strategia non ha funzionato”. Siccome non sta parlando Bakunin, e nemmeno qualche economista neo-marxista, o il compagno Landini, ma il ministro del Lavoro in persona (Andrea Orlando, ieri su La Stampa), il salto sulla sedia è legittimo. Molto nasce da un grafico (fonte: Osce) che gira da tempo, rilanciato negli ultimi giorni, che rappresenta in modo limpido e feroce la situazione italiana. In tutta Europa negli ultimi trent’anni i salari sono aumentati, adeguandosi al costo della vita. Naturalmente è improprio il raffronto con i paesi dell’est (Estonia, Lettonia, Lituania, tutte sopra il duecento per cento di aumento), ma è praticabile quello con gli europei a noi più vicini e dalle economie simili alla nostra: Germania (più 33,70 per cento), Francia (più 31,10), per dirne soltanto due, anche se cogliere fior da fiore sarebbe facile e un po’ umiliante per noi.

Ma facciamola breve: Italia, meno 2,90 per cento. Cioè negli ultimi trent’anni siamo l’unico Paese in cui i salari sono calati invece di crescere. Insomma, prima che lo dicesse Orlando, lo dicono (da anni) i numeri, e il ministro ci mette il timbro: “Questa strategia non ha funzionato”. Una pietra tombale.

Ora si sa che la famosa “questione salariale” su cui per trent’anni ha regnato il silenzio, farà parte integrante della campagna elettorale, e ce lo ha ricordato tra gli altri Tommaso Nannicini (senatore Pd, già consulente economico del governo Renzi) con un tweet di quelli a ditino alzato. “Tra meno di un anno si vota. Possiamo decidere se occuparci di discussioni sterili, piantare bandierine, oppure occuparci della carne viva del Paese. Come della questione salariale” (anche lui allega il famoso grafico). Insomma si vota, e “la carne viva del Paese” (wow!) ridiventa di moda. Bene, c’è da rallegrarsi.

Le cose si complicano un po’ se, dopo aver parlato di salari, tuonando così landinianamente, si passa a parlare di politica. Perché è giusto sottolineare che la strategia di flessibilizzare sempre più lavoratori non ha funzionato, ma sarebbe anche gradita una ricostruzione dei fatti. Chi ha sbagliato strategia? Chi da decenni sostiene con fatti, parole e opere quella flessibilizzazione, i millemila contrattini, l’erosione dei diritti, le narrazioni tossiche sul lavoro? Negli ultimi dieci anni (quasi dodici, a guardar bene) il Pd ha fatto parte di tutti i governi, con la breve eccezione del Conte Uno, con fattivo sostegno a Monti e a Draghi, esprimendo il Presidente del Consiglio per tre volte (Letta, Renzi, Gentiloni), e insomma non stiamo parlando di gente che stava all’opposizione, o in prima fila nelle battaglie per il reddito dei lavoratori, ma di quelli che hanno fatto e votato il Jobs Act, discendenti in qualche modo di quelli che avevano fatto e votato il “pacchetto Treu”.

Insomma, fa piacere quel “la strategia non ha funzionato”, ma forse bisognerebbe aggiungere nomi e cognomi di chi l’ha propugnata e condotta a diventare leggi dello Stato. In poche parole il dibattito sui salari (che avrà un suo peso in campagna elettorale) è abbastanza monco, manca la parte sui responsabili. E’ come se i passeggeri del Titanic, chiamati a votare, confermassero il vecchio capitano, anche se la sua strategia non ha funzionato. Sennò (lo sentirete dire milioni di volte) arriva un capitano di destra che magari ci fa affondare.

mer
25
mag 22

Ha ragione Bukowski, i soldi sono troppi o sono (sempre) troppo pochi

PIOVONOPIETREPer una volta almeno darei ragione al vecchio Charles Bukowski: “I soldi hanno solo due cose che non vanno: o sono troppi o sono troppo pochi”. Il rapporto che Oxfam ha sventolato di fronte ai potenti (e ricchi) del mondo l’altro giorno a Davos è una fotografia perfetta, piuttosto spaventosa, della polarizzazione estrema tra ricchezza e povertà, o meglio la certificazione che stiamo seduti su un mondo solo, ma i mondi sono almeno due. Aumentano i miliardari, 573 in più, in totale sono 2.668. Aumentano i poveri, 263 milioni in un solo anno. Naturalmente si possono fare tanti giochetti con le cifre, ma insomma, alcune sono impressionanti comunque la pensiate: la ricchezza di tutti i miliardari messi insieme nel 2000 valeva il 4,4 per cento del Pil mondiale, e oggi, vent’anni dopo, il 13,9. Sembrerebbe che l’intera economia mondiale si sia messa al lavoro per arricchire un paio di migliaia di tizi che erano già ricchi. E tra l’altro, se avessimo tutti in tasca un dollaro per ogni volta che abbiamo sentito parlare di “lotta alle diseguaglianze”, saremmo miliardari anche noi.
A proposito di casa nostra, da marzo 2020 a novembre 2021 (pandemia, vi dice qualcosa?) i miliardari sono aumentati di 13 unità (auguri! Champagne!). In Italia, una quarantina di persone detengono la stessa ricchezza del 30 per cento degli italiani più poveri (calcolati in 18 milioni di persone adulte), un milione e quattrocentomila famiglie sono scese sotto la soglia di povertà durante il periodo del Covid.
Insomma, abbiamo un problema, cioè, ne abbiamo tanti. Uno è, se si può dire, semi-letterario.  Questi leader del “miliardariesimo”, nuova religione mondiale, capita che sclerino, che diventino delle straordinarie auto-caricature, macchiette. Uno va su Marte, quell’altro mi diventa guru della sanità planetaria. I listini di Borsa sono la loro sala giochi, trattano coi governi, alla pari e in qualche caso in condizione di vantaggio, graduano alla bisogna la libertà d’espressione, pagano tasse percentualmente inferiori a quelle che paga un ragioniere di Vimodrone.
La “diseguaglianza”, insomma, è così plateale da risultare grottesca. Non solo per questioni di giustizia (già mi vedo arrivare quelli dell’”invidia sociale”, porelli, così ansiosi che dalla tavola imbandita cada qualche briciola per loro), ma proprio per questioni sistemiche e strutturali. Non è pensabile che la forbice si allarghi ancora. Anche perché è una forbice che non riguarda solo poveri e miliardari, ma un ritorno palpabile, visibile nelle nostre città, a una netta divisione per classi sociali, un proletariato sempre più compresso (e l’inflazione al sei per cento, poi…), con diritti un po’ evaporati, a cui nessuno sembra in grado di dare aperta rappresentanza politica. Insomma, aumentano i ricchi, a decine, e aumentano i poveri, a centinaia di migliaia, e questo in un Paese dove ogni giorno si sente il mantra della “lotta alle diseguaglianze”. Lo stesso Paese dove il solo pronunciare la parola “patrimoniale” genera svenimenti e crisi di panico alla classe dirigente, lamenti infiniti e repentine marce indietro, grida di allarme perché una tassa sui grandi patrimoni sarebbe indizio e sintomo di “socialismo” (ahahah, ndr). Non se ne esce. L’unica è aspettare il prossimo rapporto Oxam che dirà di un altro aumento di miliardari (non sarà la pandemia, sarà la guerra), e noi saremo qui a dire le stesse cose, e nel frattempo avremo sentito un migliaio di volte che si sta facendo una strenua lotta alle diseguaglianze.

mer
18
mag 22

Schiavisti. L’Italia è una Repubblica fondata sullo stage (non retribuito)

PIOVONOPIETREEroe del giorno, lo stagista ignoto. Anzi ignota, perché è una ragazza quella che a Tirrenia, vicino a Pisa, ha reagito con “lancio di oggetti”, segnatamente “portaceneri”, contro le pareti di un bar “danneggiandole”. Ira funesta. Ha scoperto l’ultimo giorno dietro il bancone (lo riportano piccole, timide cronache) che il suo “stage lavorativo” non sarebbe stato pagato. Niente. Zero. Nemmeno un euro. Insomma ha lavorato gratis, l’ha saputo a lavoro fatto, e non l’ha presa bene, giusto, vorrei vedere voi. Ecco che l’Italia degli stagisti, dei sottopagati, degli stagionali, dei tirocinanti, dei lavoratori a chiamata, degli eterni precari, ha la sua Spartacus. Solidarietà.

Il fatto è che la nostra stagista ignota ha soltanto arricchito per un giorno con una minuscola, quasi invisibile sfumatura, le appassionanti cronache sul mercato del lavoro nazionale, cronache che sono state invece occupate dalle esternazioni del ministro del turismo Garavaglia, preoccupato per la stagione, la ripresa, la prima gloriosa estate post-covid, alla quale mancano tra i 300 e i 350 mila lavoratori stagionali pagati solitamente come Spartacus (gli detraggono le catene). La proposta del ministro, in soldoni, è quella di prorogare il decreto flussi per gli immigrati, cioè permettere l’arrivo di più stranieri che facciano quei lavori per cui non si trova mano d’opera, per esempio gli stagionali in bar e cucine della Penisola. Mancano cuochi, sguatteri, lavapiatti, realizzatori di cappuccini, servitori di gelati.

Le storie italiane sul lavoro parlano di contratti poveri o poverissimi, di accordi sulla parola (retribuzione un po’ regolare e un po’ no), di durate risibili, trucchi, orari pazzeschi, il tutto coperto da quella deliziosa coltre di vergogna rappresentata dalla vulgata briatoresca che “i giovani non hanno voglia di lavorare”, mentre se hai voglia diventi milionario e ti compri la Bentley.

E siamo ancora lì (uff), al famoso reddito di cittadinanza che impedirebbe il corretto sviluppo della dinamica tra domanda (ti domando di lavorare dodici ore a due euro l’ora) e offerta (col cazzo). Insomma, non so se amate l’implacabile dispiegamento della legge del contrappasso, ma vedere un leghista che chiede più stranieri per fare lavori sottopagati ha un suo fascino. Il famoso “prima gli italiani” va letto dunque come “prima gli imprenditori italiani”, e per i lavoratori invece non ci sono preferenze etniche: va bene chiunque accetti condizioni semi-schiavistiche e non faccia mancare braccia all’estate. Arriva subito – ma ti pareva – l’artiglieria di rinforzo: non solo il tweet di Matteo Renzi (e vabbé) che dice “il reddito di cittadinanza è follia”, ma anche tutta quella corrente letteraria di baristi, ristoratori, albergatori che si sbraccia: li paghiamo bene! Benissimo! Un florilegio. Offro mille! Offro duemila! E poi, appena si va a leggere sotto il titolo a effetto, ecco che quei mille euro sono spalmati su centinaia di ore, festivi, notturni, niente permessi, sabati e domeniche, soprusi, angherie. E idee belluine, come quella di un ristoratore di Genova che ha buttato lì la sua proposta: “Mancia obbligatoria per legge, così avremo più dipendenti”. Ecco fatto, da reddito a mancia, che ci voleva? Resta da cambiare un articoletto della Costituzione, il primo: una Repubblica basata sulla mancia. Diciamolo, è ben trovata, ma siccome la realtà impone di guardare avanti, già me la vedo applicata alla sanità: “Non ci deve niente, signora, ma dia la mancia al chirurgo”.

mer
11
mag 22

Monterossi, Milano e tutto il resto. Bella intervista sul magazine del Touring Club

 

L’intervista di Gabriele Micciché su Milano, il noir, Monterossi e altro, pubblicata sul Magazine del Touring Club Italiano (maggio 2022). Le foto sono di Marco Garofalo (clicca per leggere)

TOURINGok

 

 

mer
11
mag 22

Talk show. Il Copasir metta uno bravo a scegliere gli ospiti urlanti

PIOVONOPIETREOnestamente, non guardo i talk show da quando ho scoperto che sugli altri canali c’è il wrestling, o addirittura, le sere fortunate, il catch nel fango, posti dove la dialettica mi sembra più avanzata. Non che non mi interessi l’entusiasmante sviluppo di idee che si genera quando qualcuno è chiamato a intervenire sulle sorti del mondo in ventitré secondi netti, che poi c’è la pubblicità; anzi, a volte, visti certi ospiti, ventitré secondi mi sembrano pure troppi. Certo, ci sono anche aspetti positivi, cioè, uno si sente ringiovanire se accende la tivù e si imbatte in un Luttwak, per esempio, che dice le cose che diceva – nello stesso posto, alla stessa ora, con le stesse parole – una ventina d’anni fa (Iraq, Afghanistan…), anche quando aggiunge che lui ha fatto tre guerre, si è trovato benissimo e ci consiglia l’esperienza.

Ora apprendo che il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) manderà qualcuno con gli occhiali neri e l’auricolare a fare il buttafuori negli studi televisivi, perché si teme che tra quelli che urlano “Io non l’ho interrotta!” e “Mi lasci parlare!”, si annidino spie russe che possono fregare micidiali segreti bellici, tipo un microfono, o un tubetto di eyeliner in sala trucco. Non credo che la nostra democrazia reggerebbe il colpo, facciamo bene a difenderci.

In sostanza va ripensata la formula dei talk show, adeguandoli al mondo nuovo, che sembrerebbe un posto dove siamo in guerra anche se la guerra la fanno altri. Spese militari di guerra, discorsi di guerra, economia di guerra, bollette di guerra, ovvio che ci vogliono anche talk show di guerra, dove al massimo sia concesso dissentire su come si scavano le trincee o come si carica un lanciarazzi, ma le divergenze devono finire lì. Porca miseria: pensa se eravamo in guerra! Del resto, si sa che la guerra si fa in due, ma guai ad essere in due a discuterne: quando mai avete visto un irakeno in un talk show? E un afghano? E un siriano?

Anche l’uso dei sondaggi nei talk show andrebbe regolamentato, possibilmente con una legge di un solo articolo: si possono pubblicare sondaggi solo se in linea con la sicurezza della Repubblica. Il fatto che la maggioranza degli italiani risulti contraria all’invio di armi in Ucraina (per tutti gli istituti di ricerca, con percentuali che vanno dal 48 al 60 e passa) è di per sé strumentale e fuorviante: che cazzo vogliono gli italiani, eh! Chi si credono di essere? Ma ‘sta legge ancora non c’è, e allora ci si adatta, spesso piegando la statistica a domande carpiate con doppio avvitamento: “Lei è d’accordo con chi è contrario all’invio di armi?”. Ben pensata: la percentuale rimane alta, ma almeno davanti al numero c’è scritto “sì”, è tutto bellissimo.

Naturalmente il Copasir ha poteri limitati, non può nulla contro le dinamiche televisive, o gli ego debordanti o le sceneggiate concordate in camerino. Peccato, perché se la sicurezza della Repubblica fosse veramente tutelata – anche dal ridicolo – avrebbe impedito gli scontri fisici e le urla belluine, per esempio tra Sgarbi e Mughini. Però bisogna anche tenere conto dell’opinione di quelli che difendono la formula talk show: avrà i suoi limiti ma gli italiani imparano qualcosa e si interrogano sulle questioni più disparate e spinose. Per esempio, quello che si sono chiesti tutti: “Urca, ma ancora sta in giro Mughini?”, oppure “Toh, ma ancora invitano Sgarbi?”. Insomma, vedete? Si fa anche informazione. Però mi raccomando: al Copasir, a scegliere gli ospiti, metteteci uno più bravo.

dom
8
mag 22

Una piccola questione di cuore. Qualche recensione sul web

Qui alcune recensioni uscite sul Web:  Gas, Milano Nera, Contorni di noir, Quotidiano Nazionale, SoiloLibri. Grazie grazie (cliccare per leggere)

GAS200422 QuotidianoNazionale080422SoloLibri180422MiòlanoNera190422ContornidiNoir070522

mer
4
mag 22

Fuori i poveri. Dalla Danimarca all’Uk, l’Europa esporta i profughi (in Africa)

PIOVONOPIETREIl Ruanda è bello ma non ci vivrei, però se sei un immigrato irregolare in Gran Bretagna potrà capitarti. Boris Johnson ha annunciato qualche settimana fa in pompa magna l’intenzione di trasferire i migranti che la Gran Bretagna non vuole accogliere, nel ridente (?) paese africano, descritto dallo stesso Johnson come una specie di Bengodi, con il pil che cresce, e insomma, una terra delle opportunità dove gli immigrati potranno “far parte di un nuovo Rinascimento” (giuro, ha detto così, sta cosa del Rinascimento è sfuggita di mano, diciamo). E così il migrante che voleva andare a Londra si troverà benissimo alla periferia di Kigali, toh, che sciccheria!

E’ probabile che ci siano parole più gentili, ma “deportazione” è quella che mi viene in mente ora. A leggere le cronache e le dichiarazioni, la cosa sarebbe semplice: se ritieni di fare richiesta d’asilo in Gran Bretagna e i tempi si fanno lunghi, vieni trasportato in Ruanda, dove aspetti il disbrigo della tua pratica. Se la domanda viene accolta, hurrà!, puoi farti una vita tua (in Ruanda, però, mica a Londra) e se invece viene respinta, il Ruanda ci pensa lui a espellerti (magari rimandandoti nel posto da cui stai scappando). La proposta è abbastanza articolata e potrebbe entrare in vigore presto.

Questa dell’esportazione di disperati sembrerebbe diventare una tendenza in tutta Europa. La Danimarca, per dirne una, i suoi migranti che abbiano commesso un reato su suolo danese, li manderà in galera, sì, ma in Kosovo. Accordo firmato, praticamente operativo. Una colonia penale nei Balcani è quello che ci vuole, dannazione, come non averci pensato prima? Il Kosovo, per cinque anni a partire dal 2023, incasserà quindici milioni all’anno per tenere in cella un po’ di delinquenti arrestati a Copenaghen. Anche la Danimarca, comunque sta studiando la pratica Ruanda, dove potrebbe esternalizzare, come la Gran Bretagna, le richieste di asilo. Il Ruanda, insomma diventerebbe una specie di campo profughi per gente che voleva andare a vivere in Europa, e che invece no, non c’è posto, spiace.

Non risultano grandi indignazioni, forse eventi più terribili e scenografici ci distraggono, ma insomma non si sono sentite in questi giorni di orgoglio europeo voci scandalizzate per la delocalizzazione della sfiga, dall’Europa al Centrafrica.

Eppure in tempi in cui si sprecano (spesso a vanvera) i paralleli storici, si potrebbe ricordare che spostare popolazioni e creare enclave non è una buona politica, in prospettiva. Stalin aveva questo vizietto, per dire: i tatari li mettiamo qui, gli osseti li mettiamo là, e poi ci sono guerre che durano cinquant’anni.

Per indignarsi, però, servirebbe una coscienza pulita, cosa che scarseggia, visto che sempre la famosa Europa dei diritti e dell’accoglienza paga soldoni sonanti a Erdogan per fare argine alle ondate migratorie da sud-est. Oppure che le autorità polacche ancora lasciano a dormire nei boschi, in una terra di nessuno, i migranti non ucraini che vengono da Oriente. Oppure che l’Italia paga profumatamente una specie di guardia costiera libica incaricata di riportare i migranti in fuga nei “lager” (cfr. papa Francesco) in Libia. Insomma il nuovo business europeo diventerà presto l’esportazione del povero, del fuggiasco, del nullatenente, il che fa un po’ a pugni con la retorica dell’accoglienza di questi giorni e con l’orgoglio democratico di un continente intero. E’ l’Europa, bellezza, oggettivamente uno dei posti dove si vive meglio nel mondo. E quindi, Benvenuti in Ruanda.

mar
3
mag 22

Una piccola questione di cuore. La recensione de Il Messaggero

Qui la bella recensione di Andrea Frateff-Gianni su Il Messaggero

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mer
27
apr 22

Non è uno scherzo. “Gente, pianeta e principi”: lo slogan di chi vende fucili

PIOVONOPIETREProblemi con le bollette? L’inflazione vi morsica? Il potere d’acquisto vi sfugge di mano? Il vostro stipendiuccio si accorcia ogni anno del 6-8 per cento? Non disperate amici, c’è sempre una via d’uscita. Comprate armi! Cioè, almeno, comprate azioni di aziende che inventano, producono, vendono armi, un affare che non conosce crisi, anzi cresce ininterrottamente da sette anni, pandemia o non pandemia. Per la prima volta nella storia la spesa militare globale ha superato i 2.000 miliardi di dollari (vediamo se così si capisce meglio: 2.000.000.000.000 dollari), una cifra che fa sembrare Elon Musk un barbone che dorme sotto i ponti, figuratevi noi.

E’ il mercato, bellezza. Se si sommano i fatturati dei primi venticinque gruppi che producono armi, l’incremento (dati 2019, Stockholm International Peace Research Institute, Sipri) è di 631 miliardi, più o meno l’8,5 per cento. Coraggio, nessun fondo di investimento, assicurazione, o portafoglio di obbligazioni, vi darà lo stesso risultato. Pensateci!

Come per tutte le merci hi-tech – l’irresistibile fascino dell’ultimo modello – domina la componente “sexy” dei prodottini elencati nei siti dei principali produttori, con qualche comprensibile paraculata di marketing. Per esempio, la prima azienda produttrice di armi nel mondo, la Lockheed Martin, apre la sua home page con una bellissima spianata di pannelli solari. Uh, che bello, energia pulita, ecologia, tutto verde, verrebbe da compiacersi, ma è un trucchetto per i gonzi, perché poi si scopre che il fatturato del comparto armamenti dell’azienda rappresenta l’89 del business, più di 50 miliardi di dollari (all’anno) di fatturato. E infatti basta scendere un po’ nella home page e si comincia a ragionare: missili, cacciabombardieri, elicotteri, blindati collegati tra loro con il 5g e via elencando. Quanto basta per far dire ai governi di mezzo mondo: “Oh no! Abbiamo il modello vecchio!”.

Lo stesso vale più o meno per le altre aziende della top ten, un catalogo di fantascienza già disponibile, come dice un bello slogan sul sito del Northrop Grumman (86 per cento del fatturato in armamenti, pari a quasi 30 miliardi di dollari): “Per qualcuno la parola ‘impossibile’ chiude le discussioni. Per noi è un punto di partenza”. Bene, mi sento più tranquillo, anche voi, vero. amici?

La Rayteon Technologies, invece (87 per cento del fatturato in armamenti, oltre 25 miliardi) apre la sua home page con una bella immagine di foresta vergine attraversata da un fiume azzurrissimo e il titolo: “Gente, pianeta e principi”, video che si alterna con immagine di eliche, motori. Anche qui per capire che si vendono armi micidiali bisogna scarrellare un po’ con il mouse. E anche qui, però, la guerra non si vede mai: niente corpi smembrati, niente case distrutte, nessuna immagine “brutta”, solo satelliti, spazio profondo, sistemi radar, impiegati sorridenti davanti a schermi avveniristici. Insomma, tra i primi dieci produttori mondiali, cinque sono americani, il sesto è cinese, Avic (affari di armi per 22 miliardi e mezzo, 34 per cento del fatturato), seguono un’azienda britannica (Bae Systems), altre due cinesi e un’americana a chiudere la top ten.

Noi, poverini, giochiamo a mezza classifica, dodicesimi con Leonardo, poco più di 11 miliardi di fatturato negli armamenti (il 72 per cento del fatturato del gruppo). Dannazione, ma si può fare di meglio, e ci è stato spiegato recentemente che la spesa militare è un volano per l’economia. E voi, amici, volete la pace o il volano acceso?

mer
20
apr 22

Dalla Francia all’Italia. Qualcuno dica alla sinistra quale destra votare

PIOVONOPIETREDomenica si vota in Francia, si decide se tenersi l’usato sicuro di Macron o gettarsi dalla rupe verso madame Le Pen, una specie di Meloni francese ma meno corteggiata dai media. Cinque anni fa i francesi si trovarono di fronte allo stesso identico dilemma: votare Macron sennò arriva Le Pen, quando si dice la continuità. Insomma, turatevi il naso e votate Macron, non so se vi ricorda qualcosa.

Assiste basito allo scontro un popolo intero, gli elettori di sinistra, quelli della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Avrebbero potuto andare al ballottaggio se altre tribù di sinistra li avessero seguiti: trotzkisti, socialisti, comunisti. Diciamo tanto della nostra, ma anche la sinistra francese sembra il bar di Guerre Stellari.

Dunque lo scenario che si apre è il seguente. Vince Macron, tutto bene, per circa sessanta secondi la Francia liberale si mostrerà riconoscente agli elettori di sinistra, – bravi, responsabili! – e poi tornerà al lavoro come prima. Oppure vince Le Pen, e allora la sinistra si prenderà la colpa, brutti stronzi che preferite la signora fascista a Macron, non vi vergognate? Uccidete l’Europa, eccetera, eccetera.

Il modello francese differisce per molti piccoli particolari da quello italiano. Intanto là si tratta del 22 per cento dei votanti, non poco. Un francese su cinque è disposto ad ascoltare con attenzione (fino a votarlo alle presidenziali) un discorso che cambia i parametri, una sinistra popolare abbastanza radicale, di classe, quella che qui da noi quasi non esiste e viene chiamata con disprezzo sinistra-sinistra, sbertucciata in ogni modo, cosa che non stupisce in un clima di rivalutazione della svastica.

Non è un caso che Mélenchon passi qui, sui titoloni dei giornali, come il “Populista”, o addirittura l’“Antisistema”; cioè si gioca la solita carta della delegittimazione, mettendo insieme al tradizionale derby destra-sinistra (uff!) un altro più attuale scontro di civiltà: i futili sognatori-guastatori e i professionisti competenti (?). Segno dei tempi, ma, a conferma, basta fare la prova infallibile dell’insulto. Nel secolo scorso, se dicevi “Ehi, al posto delle armi, spendiamo quei soldi in case popolari!”, eri un fesso comunista. Se lo dici oggi sei un fesso populista. Ne abbiamo fatta di strada, eh!

La lezioncina francese non servirà a niente. Ed è destinata a riproporsi qui, sempre nelle dimensioni della piccola farsa locale, quindi una specie di caricatura. I contorni sono più sfumati, anche perché qui una sinistra-sinistra o non c’è o è microscopica, e c’è invece abbondanza di sinistra-destra, quella che segue Draghi senza se e senza ma, e vota in Parlamento con Brunetta e Giorgetti.

Chi lo sa se esiste anche qui, come al di là delle Alpi, un’area culturale e politica che vagamente guarderebbe a un cambio di sistema, a un ribaltamento dei parametri sociali. Si direbbe di no, a giudicare dai sondaggi. Ma si direbbe anche di sì, se si pensa che almeno quattro italiani su dieci non votano, un po’ disgustati. Il voto di questi disperati è già oggetto di scandalo: si piegheranno verso le destre, la sora Le Pen nostrana e il baciatore di salami, oppure verso i sostenitori del draghismo illimitato? Avvertenza: chi si metta in testa di rispettare una sana pregiudiziale antifascista (quindi no Meloni), ma anche di non votare chi abbia sostenuto il governo Draghi, si metterà un po’ nei pasticci. Non è un paese per giovani, né per vecchi, né per donne, né per bambini, né per non allineati, che fa brutto e poi ti dicono “populista”.

sab
16
apr 22

Una piccola questione di cuore. L’intervista a Maremosso

Qui l’intervista a Maremosso, il magazine online di Feltrinelli (video)

mer
13
apr 22

Dire cose di sinistra. E’ facile, è chic e non impegna. Poi si fa il contrario

PIOVONOPIETREMi sembra di capire una cosa, nel rumore di fondo: che le parole sono un po’, vagamente, lontanamente, di sinistra; e poi le cose, le azioni, sono di destra, mi scuso per la semplificazione, ma andiamo con disordine. Si è già detto della neolingua orwelliana che pervade il Paese, dove per dire che si arma una guerra si parla di pace e di condizionatori d’aria, ché non è bello dire “burro o cannoni?”, è sempre meglio dire “miele o marmellata?”, anche se poi si fa casino e non si capisce più niente. Quiproquò che nasce da un’equazione data per scontata (più armi a loro e più spese militari a noi uguale pace. Mah, spero sia lecito dubitare). Ma qui non parliamo di politica, ci limitiamo alle parole e in particolare alle parole coprenti come il minio antiruggine, le parole che dicono il contrario di quello che si fa.

Per esempio sentire Enrico Letta, segretario del Pd, citare con ammirazione Alexander Langer, grande intellettuale pacifista troppo presto scomparso, è una cosa che fa piacere. Però ti chiedi anche: come è possibile che il segretario di un partito che ha votato un aumento spaventevole delle spese militari non più tardi di qualche giorno fa, aderisca idealmente al quel pensiero? E’ come se il generale Patton leggesse Bertold Brecht prima dell’assalto alla trincea nemica. Paradosso esagerato, ok, cambio: è come quando Salvini dice che gli piace De André; che non potendo pensare che si sia sbagliato De André, tocca pensare che si sbaglia Salvini.

Ripeto che non voglio qui affrontare la questione politica, ma soltanto quello stridore, tipo unghie sulla lavagna, che provocano certe distonie. Tutti hanno lodato la bella intervista al Papa di Fabio Fazio. Intervista in cui il papa chiamava “lager” i centri di detenzione libici, poi vai a vedere quelli che applaudono (bravo Papa!) e scopri che hanno votato i decreti Minniti, i trattati con le tribù, le motovedette alla guardia costiera libica. (Tranquilli, la settimana dopo il Papa era già diventato filo-Putin, devozioni che vanno e vengono, insomma).

C’è come una copertura mimetica a certi comportamenti, un maquillage fatto, appunto, di parole, di buoni propositi, di citazioni progressiste, cui seguono comportamenti che smentiscono tutto. Tipo “Uh, che brava Rosa Parks!”, e poi quando (Macerata) c’è una tentata strage di neri, si sconsigliano manifestazioni perché “non è il momento”. Insomma, un gran progressismo, anche burbanzoso e vibrante d’orgoglio, sempre pronto a spolverare eroi e miti, principi inviolabili e valori, e poi, colpo di scena, si fa l’esatto contrario. Lo stesso, immancabile testacoda, quando si parla di lavoro, e senti esponenti della sinistra, ragionevoli e convincenti, auspicare più diritti e protezioni per i lavoratori. Poi vai a vedere e hanno votato il Jobs act. Oppure si sentono (rarissimamente) parole sensate sulle morti sul lavoro, e poi gli stessi che le pronunciano hanno fatto parte di governi che hanno allentato i controlli, reso più difficili le ispezioni, oppure votano, in questo governo, insieme a un ministro (Brunetta) che dice che le aziende saranno avvisate prima di eventuali controlli. Dire cose di sinistra pare insomma abbastanza facile, fa chic e non impegna. Anzi, a volte, per paradosso, l’uso di un linguaggio progressista avvalora comportamenti di segno opposto. Una cosa come: se citi Gandhi puoi comprare più cannoni. Se citi Di Vittorio puoi scrivere le leggi con Confindustria. Un vortice, un lessico della sinistra che copre il contrario di quel che si dice.

mer
6
apr 22

“Effetti collaterali”. L’irredimibile merda della guerra infetta ogni cosa

PIOVONOPIETRE“Non c’è niente di intelligente da dire a proposito di un massacro”, scriveva Kurt Vonnegut (Mattatoio n. 5). Aveva ragione, niente pare doloroso e prevedibile come il fiume di parole che insegue in questi giorni i poveri fantasmi di Bucha, civili innocenti ammazzati con le mani legate, o torturati, o fucilati e lasciati lì, un po’ per monito e un po’ per mettere un timbro sull’impunità di chi fa a guerra. E già ticchetta l’osceno ping pong dei paragoni, un chiedersi attonito se Bucha valga My Lai, o l’Iraq, o Srebrenica, o Aleppo, perché una barbarie, poi, pare un po’ meno barbara se la metti vicino ad altre barbarie, se in qualche modo l’archivi; come se storicizzare fosse un po’ cauterizzare le ferite, e – alla fine – farsene una ragione.

La guerra è una faccenda che appartiene alla Storia, e si cristallizza lì, senza insegnare a nessuno il modo di non fare altre guerre, peraltro. Ma la guerra è anche una faccenda terribilmente personale, se finisci morto o torturato in una strada del tuo paese. Tra questi due estremi – tra il cinismo del Grande Disegno Geopolitico Globale e il terrore gelato dell’attesa di un colpo in testa, le mani legate dietro la schiena – lì, nel mezzo, sta tutta l’irredimibile merda della guerra. Meccanismo poderoso, che muove strategie e imperi, e interessi, e miliardi di tonnellate di gas, o petrolio, o armi, o soldi, dollari, euro, rubli – e dove poi rimane stritolato un innocente da qualche parte, magari faceva il panettiere, o la moglie, o il figlio, o gente che scappava.

Nell’orribile caleidoscopio di immagini che scorre in questi giorni, ci sono stati mostrati anche i presunti colpevoli, chi lo sa se poi sono loro, ma insomma, dei ragazzotti siberiani dell’unità 51460, facce da liceali ripetenti, militari della Jacuzia, lassù, lontanissima da Kiev. Chissà se si riuscirà ad accertare le responsabilità vere, personali, in quei solenni teatri che sono le aule della Corte Penale Internazionale dell’Aja sui crimini di guerra (della quale peraltro Russia, Cina e Stati Uniti, non hanno mai voluto aderire, o non hanno ratificato i trattati). E non dovremo stupirci se poi, a un certo punto, sentiremo rimbalzare una delle frasi simbolo del Novecento, la più schifosa: “Ho solo eseguito degli ordini”. E dunque tutto pare già scritto e già tutto sfuma nelle nebbie delle propagande incrociate, nell’ostensione dei martiri in prima pagina, che mischia un doveroso “è giusto sapere” a un nuovo terrificante uso di quei morti: più armi! Più missili! Più carrarmati! Insomma, “più guerra” – è la risposta – non “meno guerra”; e quindi più barbarie.

Così succede che la guerra infetta ogni cosa. In guerra fanno carriera i peggiori, gli istinti più orribili vengono premiati, incoraggiati, l’assenza di pietà è un notevole valore, come si è visto in ogni posto dove sia passata. E dietro, nelle retrovie – anche questo si sa da sempre – fanno affari i più cinici, quelli che scommettono sul prolungarsi del conflitto, che cementano nazionalismi, che soffiano sul fuoco, che vendono armi, eccetera eccetera. Tutte cose che si sanno, ed eccoci, oplà, ricaduti nel grande gioco della Storia, in cui le vite dei caduti civili e innocenti scompaiono di nuovo, smettono di essere vite reali, storie personali, e diventano statistiche, casi di scuola da rimbalzarsi addosso per sostenere tesi, o teorie, o ricostruzioni, e ognuno avrà il suo massacro di riferimento, che coi poveri massacrati non c’entra più quasi niente, anche se la guerra sono loro.

mar
5
apr 22

Una piccola questione di cuore. Recensioni

Qui un paio di articoli sul nuovo romanzo. La Libertà di Piacenza e una bella recensione di Alessandro Marongiu sul La Nuova Sardegna

Libertà030422     Nuova Sardegna020422

dom
3
apr 22

Una piccola questione di cuore. L’intervista a Radio 24 e la recensione su La Lettura

Qui ci sono l’intervista di Alessandra Tedesco a Il Cacciatore di Libri su Radio 24 e la bella recensione di Antonella Lattanzi su La lettura

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mer
30
mar 22

Da Superenalotto! Oplà, di colpo abbiamo 13 miliardi (per le armi)

PIOVONOPIETRENiente, mannaggia, niente da fare. Gli italiani in stragrande maggioranza restano contrari all’aumento delle spese militari fino al due per cento del Pil, cioè un po’ restii a spendere 13 miliardi in più (ogni anno!) in sistemi d’arma, gerarchie militari, missili e quant’altro. Resistono, insomma, all’offensiva dei corsivisti-generali più accreditati dai media, dai giornali e dai talk show, quasi tutti maschi, quasi tutti anziani, boomer burbanzosi e predicanti, autori di sermoni edificanti e patriottici, disposti a chiudere un occhio persino sui nazisti in campo. Fedeli insomma, al vecchio adagio americano applicato a dittatori, macellai e golpisti vari: “E’ un figlio di puttana ma è il nostro figlio di puttana”.

Il sondaggio è canaglia, insomma, e un po’ canaglia anche chi lo disegna. Non ci eravamo ancora ripresi dal grafico diffuso da Agorà (Rai3), dove nella torta colorata i contrari all’invio di armi all’Ucraina sembravano meno della metà pur essendo il 55 per cento, che ecco un altro strabiliante sondaggio, questa volta Swg per il Tg de La7. Capolavoro, perché il titolo in maiuscolo dice “L’aumento delle spese militari” e sotto con tanto di colonne colorate dice “D’accordo” 54 per cento. Urca! Poi, uno pignolo va a leggere la domanda fatta al campione rilevato , e trasecola: “Lei è d’accordo con la seguente affermazione: Non è giusto che l’Italia aumenti le spese militari…”. E’ la prima volta che si vede un sondaggio con la negazione incorporata. E’ d’accordo che non sia giusto… davvero bizzarro. Forse chiedere direttamente “Secondo lei è giusto?” esponeva a qualche rischio in più. Trucchetti.

Qualcuno – temerario – spiega che questo benedetto aumento delle spese militari non c’entra nulla con l’invasione russa dell’Ucraina, che se ne parla da tempo, che gli americani ce lo chiedono da anni, ed ora – vedi a volte le coincidenze – è venuto il momento. Per inciso, i dati Sipri (Stockholm International Peace Research Institute, uno degli osservatori più qualificati sul mercato degli armamenti) dicono che la Nato spende ogni anno circa 17 volte quello che spende la Russia, e anche togliendo le cifre spaventose degli Stati Uniti, calcolando soltanto le spese militari attuali di Italia, Francia, Germania e Regno Unito, si ha quasi il triplo della spesa militare russa. Pare che non basti.

Non è detto che gli italiani che rispondono ai sondaggi conoscano queste cifre (anche perché nessuno gliele dice), eppure si registra una resistenza ultra-maggioritaria nel voler spendere 13 miliardi in più all’anno in cannoni. C’è da capirli. Forse ricordano le solenni parole di Mario Draghi pronunciate quasi un anno fa: “Non è il momento di prendere soldi ai cittadini, ma di darli”. Bel programma. Peccato che in questi undici mesi (Draghi lo disse nel maggio del 2021 con grande plauso di tutti) non risulti agli italiani di aver migliorato sensibilmente le proprie condizioni di vita: tra inflazione al cinque per cento coi salari fermi, le bollette, la benzina e gli alimentari che aumentano. Ora si vedrà dove prendere tutti questi soldi, ma sotto sotto la notizia è buona: dopo anni passati a dire che “non ci sono i soldi” per scuole, sanità, servizi, oplà, ecco 13 miliardi che escono dal cilindro, magia e mesmerismo. Urge nuovo sondaggio: “Lei è d’accordo con la seguente affermazione: non è giusto dire che non è giusto rifare i tetti delle scuole o i prontosoccorso invece di comprare missili? E’ giusto dire che è sbagliato?”. Vediamo come disegnano il grafico.

mer
23
mar 22

Lessico Nazionale Bellico. Impasto di parole e immagini a volte pietoso

PIOVONOPIETRECome ogni avvenimento che colpisce nel profondo, anche la guerra sta lentamente formando il suo Lessico Nazionale Bellico, un impasto di parole, immagini, composizione formale e commento, fotogramma simbolico e didascalia. A volte pietoso, a volte porno-war, riflessivo raramente, emotivo quasi sempre. L’affresco della guerra, insomma, come si dice per dire di una rappresentazione complicata, densa, piena di dettagli che alla fine danno un quadro d’insieme. In questo marasma di segni si ritrovano vizi antichi e anche recenti. Antichi come sono quelli delle propagande incrociate, che debordano ogni tanto nel ridicolo, ma che a guardarle rivelano molto di noi. Caso di scuola: il teatro di Mariupol, usato dai civili ucraini come rifugio, bombardato dai russi. Grandi grida di strage e poi grande sollievo perché miracolosamente non ci è rimasto sotto nessuno e sono tutti vivi. Mi sembrerebbe questa la notizia: tutti salvi, meno male. Invece si è cominciato a litigare tra chi aveva dato tanto spazio alla strage, e poi niente allo scampato pericolo, e viceversa, come se rallegrarsi per una mancata strage possa considerarsi intelligenza col nemico. Premesso, ovviamente, che non si bombardano i teatri né, possibilmente, nessun’atra cosa.

Fa parte del Lessico Nazionale Bellico, a pieno titolo, appunto, la premessa salvavita che conosciamo da decenni. Chiunque voglia avanzare anche soltanto una piccola critica o distinguo, o per esempio considerare un po’ avventato l’invio di armi in zona di guerra, farà bene a munirsi delle prime due righe di ogni discorso: “Premesso che non sto con Putin…”. Già visto. Non c’era discorso nei primi anni Ottanta che non iniziasse con “Premesso che sono contro il terrorismo…”, poi venne, “Ovvio che non sto con Bin Laden…”, poi: “Lo dico da vaccinato…”; insomma, quando il gioco si fa duro è necessario chiarire. E questa è una faccenda piuttosto divertente perché spesso si chiede questa condanna ovvia e preventiva a chi il nemico l’ha sempre schifato (anch’io avevo una maglietta russa, ma sopra c’era Anna Politkovskaja), mentre si continua a dare credito e spazio a chi col nemico divideva ideologie, faceva affari, gli vendeva armi. Mah, sarà uno strabismo di guerra.

Incredibile a dirsi, ma anche la formula “Terza Guerra Mondiale” è rispuntata fuori dalla sua coltre di paradosso ed enormità, dov’era stata confinata per anni. Usata come metafora di un disastro senza appello, la Terza guerra mondiale se ne stava nascosta nei nostri discorsi come una piccola innocua battuta, “Eh, che sarà mai, mica è la Terza guerra mondiale!”. E ora, eccoci. Non solo se ne parla come opzione e rischio, ma la si evoca come non così peregrina, la vicepremier ucraina dice che è già in corso, alcuni analisti del fronte interventista dicono che se non è ora sarà domani, quando Putin attaccherà di qua e di là. Insomma c’è sottotraccia, nel nostro linguaggio quotidiano sulla guerra, l’impossibile che diventa possibile, l’impensabile che viene – con discreta leggerezza – pensato. E già ci si diletta, su qualche giornale, a calcolare raggi e diametri di ipotetiche bombe atomiche che potrebbero cascare qui e là, una specie di gioco di società (“Uh, guarda, con centottanta megatoni in corso Como a Milano, se abiti a Sondrio te la cavi!”). E così, piano piano, si comincia a pensare l’impensabile, e la guerra arriva anche se non arriva davvero, cioè ne arrivano schegge e frattaglie. La guerra un po’ ridicola, un po’ teorica, non falsa e non vera.

lun
21
mar 22

Una piccola questione di cuore, recensioni e interviste

Qui ci sono due piccole e preziose recensioni (uscite su L’Adige e Il Centro), e un’intervista di Francesco Mannoni uscita su Il Giornale di Brescia

L'adige210322     IlCentro210322     GiornalediBrescia110322

dom
20
mar 22

Una piccola questione di cuore, Ansa e Fatto Quotidiano

Una piccola questione di cuore è partito, ora, come dire, fatene quel che volete. Metto qui un paio di uscite stampa, l’intervista all’Ansa (grazie a Mauretta Capuano) e una piccola recensione del Fatto Quotidiano (Fabrizio D’Esposito)

Ansa150322             FattoQuotidiano190322

mer
16
mar 22

Porno-war. Tra chiacchiere da bar e Lolite, la vera guerra si dissolve

PIOVONOPIETRECome tutti, oscillo. La guerra non mi è mai sembrata così vicina, e al tempo stesso così surreale. Quando ero giovane e studiavo, mi sono sempre immaginato i dibattiti interventisti/non interventisti come una faccenda alta, magari non colta, ma insomma, di un certo spessore e vigore. Forse non era così, e certo non è così oggi: la maggior parte delle analisi non mi sembrano all’altezza del momento e dei rischi. Alla lunga non ascolti più, ed è una fortuna.

Ogni tanto ascolti, a tuo rischio, esponendoti a un helzapoppin’ quotidiano. Ammirevole la copertina di Di Più che ci dice che Putin “Da bambino era un teppista”, decisivo contributo all’analisi geopolitica sull’aggressione, ma vabbé, fa pure un po’ ridere. Metteteci l’uso indiscriminatissimo di bambini, anche in posa (la Lolita di Kiev è ad oggi l’esempio più famoso, solidarietà alla ragazzina) e alcune retoriche un po’ risibili, Liala (avercene!) e petto in fuori. Troppo pop per essere vere, troppo caricaturali, al limite dell’autolesionismo semantico, dove il ridicolo sommerge il messaggio. Non accade solo da noi: vedere Macron, l’uomo più incravattato del mondo, indossare una felpa da parà strappa il sorriso: c’è una salvinizzazione del pianeta, non credo potrebbe andare peggio.

Di nostro specifico, pare notarsi un uso disinvolto della Storia, diciamo così teneramente spannometrico, che viene da pensare all’esame all’università: “Ma guardi che io un 18 non posso darglielo, perché non torna il mese prossimo? Ha qualche guaio in famiglia?”. Perdoniamo per pietà l’uso del termine “sovietico” che ormai è usato come sinonimo di russo. Un Putin talmente “sovietico”, tra l’altro, che ha dichiarato una guerra parlando male per mezz’ora di Lenin (cosa che quando lui lavorava nel Kgb l’avrebbe portato dritto in Siberia). Ci dice il Tg1 che “Nel 1905 a Odessa il popolo ucraino si ribellò ai bolscevichi”, con tanto di fotogrammi di Ėjzenštejn. E’ come Napoleone che vince a Waterloo. Irresistibile, viene in mente il John Belushi di Animal House, genio premonitore, e la sua grandiosa battuta: “Siamo forse stati con le mani in mano quando i tedeschi bombardarono Pearl Harbour?”.

La neolingua di Orwell vive il suo grande momento, il mezzo miliardo di euro (in aumento) che l’Ue spenderà per armare l’Ucraina, viene da un Fondo europeo che si chiama “Fondo per la pace”, European Peace Facility. Così è un po’ troppo, anche come neolingua, e anche come metafora; mi chiedo: costava troppo cambiare la carta intestata?

Non arriva fino a qui la propaganda russa, questo è male, perché sarà ridicola tanto quanto, risibile nei ragionamenti binari, minacciosa e stupida. E anche lei molto esperta di neolingua, dato che proibisce alla stampa di pronunciare e scrivere la parola “guerra”, proprio mentre cominciano a tornare a casa i corpi di ragazzini di leva morti in guerra. Vertigine.

Alla fine, con il combinato disposto di titolazione shock, piccole furbizie ideologiche, aperti schieramenti, brandelli sparsi di porno-war, chiacchiere da bar e paralleli storici campati per aria, la guerra si sfuoca, là in fondo. Un po’ intrattenimento, un po’ indignazione, un po’ abitudine, un po’ bolletta del gas. La guerra vera, quella che ammazza i corpi, svapora, diventa una paura vera e una visione vaga dietro una cortina densa fatta di bugie, paura e qualche compassione. C’è un verso di Gregory Corso che lo dice molto bene: “La pietà si appoggia al suo bombardamento preferito / e perdona la bomba”. Come al solito, sono meglio i poeti.

dom
13
mar 22

Una piccola questione di cuore, la recensione di Tutto Libri

Qui la bella recensione di Raffaella Silipo su TuttoLibri. Grazie grazie

PQTuttoLibri120322

mer
9
mar 22

“Una piccola questione di cuore”, il nuovo romanzo, dal 10 marzo in libreria

“Una piccola questione di cuore” esce il 10 marzo, in tutte le librerie e sulle piattaforme online.

PICCOLAQ                Quarta

mer
9
mar 22

Tragedie. E’ la povera gente a perdere sempre le guerre, anche quando le vince

Se dobbiamo dare un nome alle assurdità che una guerra si porta appresso, sceglierei senza dubbio quello di Alexander Gronsky, la cui storia è rimbalzata sui giornali in questi giorni. Bravissimo fotografo, invitato a una prestigiosa mostra in Italia (a Reggio Emilia) e prontamente rimbalzato in quanto russo. Poi, quando hanno tentato di dirglielo – che non lo vogliamo perché è russo – hanno scoperto che era stato fermato dalla polizia (russa) perché manifestava contro Putin. In pratica, abbiamo applicato le sanzioni a un nostro amico. Non mi addentrerò nelle recenti rappresaglie contro la cultura russa, si è già sfiorato il ridicolo (per parlare di Dostoevskij dovresti parlare anche di scrittori ucraini – non che ne manchino – per una specie di par condicio letteraria). Più strabiliante l’annuncio della Siae di “sospendere i pagamenti alle società d’autore russe”, cioè di non pagare gli artisti russi che vendono qualche libro qui, o dirigono opere, o le cantano, o fanno qualunque altro lavoro che meriti la tutela della loro opera. In pratica si penalizza una categoria, quella della produzione culturale, che già viene bastonata in patria, tra censure, divieti, pressioni, media soffocati, persino parole vietate (“guerra”). Il poeta russo non prende i suoi cento euro dall’Italia, sai Putin quanto soffre.

Ora che in tivù sono tutti strateghi geopolitici-militari-campioni-di-Risiko, sarebbe bello che qualcuno indicasse un altro fronte, quello interno russo, quella che una volta si chiamava “la dissidenza”, e che oggi dimostra una notevole determinazione (manifestare contro la guerra a Mosca, o a San Pietroburgo, richiede abbastanza coraggio). Ed è anche innegabile che le due cartine non corrispondano, perché ora ci sono Europa e Russia divise da una guerra, ma se si guarda la mappa della letteratura europea, per dire, o della musica, sfido chiunque a tenere fuori i russi, e gli ucraini, impossibile. Forse dovremmo, invece che dire “russo, stai a casa tua”, offrirgli di venire qui, a dipingere o scrivere o cantare l’opera o fotografare. Cioè, se come si sostiene con molte ragioni, la guerra è una guerra imperiale di Putin, che porterà gravissimi danni anche al suo popolo, allora qui servono più russi, non meno russi; e il corso su Dostoevskij dovrebbe farlo RaiUno, per tutti.

Non è una cosa che riguarda solo il mondo culturale, ovvio. Qui ci aiuterebbe addirittura Brecht, a ricordarci che le guerre le perde sempre la povera gente, anche quando le vince.

Nel dibattito interno, invece, siamo al paradosso: chi parla di Putin come di un tiranno da anni, da decenni (la Cecenia, Anna Politkovskaja, il polonio nella minestra) viene ora accusato di intelligenza col nemico, pacifista malpancista, imbelle e altri epiteti da anni ‘20; mentre chi indossa l’elmetto più prontamente, governa insieme a chi amico di Putin lo è stato davvero, e vi risparmio la passerella polacca di Salvini, dimostrazione lampante che la guerra stermina tutto ma non il ridicolo. In più, se si fa la guerra ai russi (addirittura ai russi nati duecento anni fa) si alimenta la convinzione che si sia in guerra con un popolo, e non con il suo zar aggressore, e questo aumenterà le tensioni, non le appianerà di certo. Si sa che la guerra, per sua stessa natura, genera miopie varie, istinti di semplificazione, schieramenti netti, e del resto si tratta di un sistema piuttosto primitivo a cui media e comunicazione si accodano volentieri.

mer
2
mar 22

Dove sono i pacifisti? Attualmente piacciono molto quelli con l’elmetto

Usciti malconci dal pensiero unico sanitario, dove ogni accenno critico alla gestione della pandemia veniva interpretato come segnale di mattana pazzariella, terrapiattismo e magia nera, eccoci travasati direttamente nella mentalità bellica o-di-qua-o-di-là. Dunque lo dico subito: di qua. Il popolo ucraino non merita né i missili sulla testa né le mire imperiali dello zar. E casomai strabilia, dopo secoli, che siamo qui ancora a parlare di imperi e imperatori.

Ognuno metterà in atto un suo speciale atteggiamento rispetto alla guerra, chi non occupandosene, chi seguendo mosse e sviluppi minuto per minuto, chi improvvisando soluzioni geopolitiche elaborate su due piedi: tutti strateghi-generali, come prima erano tutti primari di infettivologia. Personalmente suggerirei qualche cauta resistenza, perché saranno anche passati duemilacinquecento anni, ma quel che diceva Eschilo è sempre vero, la prima vittima della guerra è la verità, e noi ci troveremo ad ondeggiare tra propagande contrapposte, notizie inventate, indiscrezioni, testimonianze, ricostruzioni che non saranno descrizione della battaglia, ma in molti casi la battaglia stessa. Già il tasso di testosterone è alto, l’elmetto è calcato sulla testa, l’unanimismo fortemente consigliato. Se ti permetti di dire che mandare armi in una zona di guerra è una cosa che ha sempre creato discreti casini, eccoti arruolato con Putin. Uguale se discetti delle cause e della storia pregressa: ti si colloca col nemico, come anche se citi di otto anni di guerra in Dombass. Eppure qui che Putin è un nemico lo si sa da sempre, e anzi c’è una data precisa che lo certifica, ed è il 7 ottobre 2006, quando spararono ad Anna Politkovskaja, la giornalista colpevole di informare su un’altra guerra dello zar, quella in Cecenia.

Ora dovrebbe esserci una sola parola ovunque, per la precisione “Cessate il fuoco”, ed è comprensibile che nessun pensiero complesso possa funzionare mentre c’è gente che spara ad altra gente. Purtroppo questa parola si sente poco, per ora prevale qualche isteria sparsa, e molte contraddizioni. Ad esempio, commentatori iperatlantici che hanno sempre irriso “i pacifisti”, quegli imbelli fancazzisti, e che ora li invocano alzando il ditino: “Dove sono i pacifisti? Eh?”. Poi i pacifisti arrivano, in tutta Europa, ma non sono più tanto graditi, perché si fa spazio la logica muscolare, pancia in dentro, petto in fuori, ci siamo rammolliti, presentat-arm! Nota in margine: sotto le bandiere della pace sfilano anche quelli che più di altri hanno inforcato la baionetta. Dunque si può chiedere pace votando in Parlamento per spedire missili, allo stesso modo in cui qualche settimana fa si poteva applaudire il papa sui lager libici pur avendo votato i decreti Minniti e gli accordi con la guardia costiera libica. Miracoli della guerra, accodarsi al “tacciano tutte le armi”, ma spingere per spedirne altre (peraltro ne abbiamo vendute parecchie ai russi almeno fino al 2014).

Insomma, consiglio di resistere, alle narrazioni di guerra che sono sempre tossiche, come sono tossiche le conseguenze: festeggiano i produttori di armamenti (guardate i segni più a doppia cifra nei listini di Borsa), riavremo le centrali a carbone e un nuovo stato d’emergenza. Non è difficile capire chi resterà schiacciato: per dirla con Brecht, “la povera gente”, di qua e di là, e questa è la guerra, sempre. Mentre qui ne faremo un uso interno, tra furbizie tattiche e simil-pacifisti con l’elmetto che fa molto “armiamoci e partite”.

mer
23
feb 22

Salario minimo. Si discute sui 9 euro lordi all’ora. Come se fossero “troppi”

PIOVONOPIETRESiccome ci travolge l’infinitamente grande, la guerra eccetera, occupiamoci dell’infinitamente piccolo: un euro, un euro e mezzo. Lo so, è volgare parlare di soldi, e questa è una cosa che dicono soprattutto quelli che i soldi ce li hanno. Ma approfittiamo per una volta del fatto che la politica – cioè, pardon, i partiti – avranno a che fare con gli spiccioli, contanti, calcolati al millimetro, insomma con la vita reale della gente misurata in termini di budget di sopravvivenza. Non si parla, per una volta, dei millemila miliardi luccicanti che dovrebbero pioverci addosso secondo la narrazione corrente, ma della differenza tra 9 euro lordi all’ora (proposta del ddl Catalfo) e le offerte “a scendere” delle forze politiche, tutte o quasi, con emendamenti molto somiglianti che puntano a togliere dalla legge una piccola frasetta, questa: “E comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali”. Lega, Forza Italia e Pd uniti nella lotta. In poche parole si vuole togliere il cartellino del prezzo. Si accetta l’idea che finalmente anche in Italia, come quasi ovunque, non si possa guadagnare meno di una certa cifra, e il problema – ovvio – diventa la cifra.

Tanto per capire di quante vite si sta discutendo, ci sono almeno quattro milioni e mezzo di persone che guadagnano meno di nove euro lordi all’ora (lo dice l’Inps) e fissando quella soglia, quasi il 30 per cento dei lavoratori dovrebbe avere un aumento (questo lo dicono gli esperti del ministero del Lavoro). Segue il pianto solito di Confindustria: il salario minimo a nove euro lordi costerebbe alle imprese più di sei miliardi, tra tempi pieni, part-time, tenendo fuori il settore agricolo e quello domestico. Insomma, troppo: porterebbe il salario minimo italiano (quasi) al livello di quelli europei, appena sotto Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi e Regno Unito. Chi vi credere di essere, un tedesco? Troppi soldi, sacrilegio.

Ora è probabile che si arriverà a infinite schermaglie sui centesimi, cioè i conti della serva, e la faccenda diventerà una battaglia di cifre, sistemi di calcolo, questioni politiche, mostrare muscoli ed esibire studi e grafici. Insomma, si litigherà molto su quell’euro e mezzo di differenza, perché le cifre che emergono nello stanco ribollire del dibattito politico partono da sette euro lordi l’ora fino ai nove previsti dal ddl. E’ un gioco a chi offre di meno.

Lasciamo dunque la faccenda alle schermaglie parlamentari, agli emendamenti, alle commissioni che dovrebbero riunirsi eccetera eccetera, non è difficile capire come andrà a finire: nove euro lordi l’ora verranno considerati una sciccheria, un lusso che il nostro sistema economico non può permettersi. Si parla di strumenti di verifica e controllo, di commissioni congiunte tra imprese e lavoratori (il che apre il fronte delle rappresentanze sindacali), addirittura sedute ai tavoli del Cnel, per decidere quanto vale, come minimo, un’ora di lavoro. Una cosa che rende piuttosto plastico e simbolico il vecchio detto “stare dalla parte dei lavoratori”. Di quanto? Di un euro? Due? Quanto si limerà da quei nove euro? Quanto si avrà il coraggio di dire: “No, con nove euro all’ora guadagnerebbero troppo!”. La partita è solo all’inizio, sui centesimi di lavoro, di  tempo, di vite, si formeranno forse inedite maggioranze, lunghe discussioni, trappole e trucchetti. Uno spettacolo interessante per quasi cinque milioni di italiani, che poi, magari, andranno anche a votare.

mer
16
feb 22

Dacci oggi il nostro bonus quotidiano (del resto chi se ne importa)

PIOVONOPIETREImpazza dunque la battaglia dei bonus, edilizia canaglia, delle truffe, del signor Gino con ventisei ditte di costruzioni e, per dipendenti, il cugino e il cane. Ora è in corso il tradizionale balletto, sei stato tu, no, sei stato tu, e comunque – lo dico come regola generale – se dai dei soldi a qualcuno, un sistema di controlli devi in qualche modo prevederlo. La rogna contabile (i vari bonus, anche senza truffe, succhiano oltre le aspettative e mancano soldi per coprirli) diventa subito una rogna politica. Però fatto sta: i bonus in sostegno al comparto edile fanno 38 miliardi, una bella sommetta. Siccome parlo da Milano, e qui si fa lo slalom tra cantieri, direi che la norma è stata “messa a terra” perbene, e conosco gente tutta contenta perché con la facciata rifatta il palazzo vale di più. Insomma, si vantano con me che con le mie tasse gli ho aumentato il valore della casa. Grazie. Prego. Rimane un retropensiero vergognoso e populista: ma se rifacevano le scuole, per dire, l’edilizia non si metteva in moto lo stesso? Guarda cosa vado a pensare.

Ci sarebbe anche la questione della sicurezza. E qui mi illumina un tweet del ministro del lavoro Orlando che (10 febbraio) dice: “Tra le misure da adottare in tema di sicurezza sul lavoro dovremmosubordinare il rilascio del superbonus 110% e dei sostegni all’edilizia al rispetto di alcuni requisiti contrattuali”. Eh? Dovremmo? Come, dovremmo, non è già così? Cioè uno può aprire un cantiere, con o senza bonus, e avere operai arrampicati qui e là, ma senza contratto? Dovremmo subordinare… che dovendolo tradurre in italiano diremmo: cadere dal pero. Ora si tenterà con un emendamento, nel decreto correttivo al Sostegni Ter, vedremo, ma la sensazione che si chiuda la stalla quando i buoi sono già andati rimane forte e chiara.

Ma questa è cronaca di questi giorni, che ci mette un attimo a diventare chiacchiericcio, mentre la questione sostanziale, la vera questione politica, trascende il singolo bonus. E’ che da qualche anno, complice la pandemia e le falle da tappare in emergenza, la politica economica e la politica sociale sono diventate una mappa da gestire e governare a colpi di bonus. A fare l’elenco non ci si crede, e non parlo solo di quelli a sostegno delle categorie in crisi per il Covid. Bene, l’intervento dello Stato come pianificatore e regolatore economico non è niente male, non sarò certo io a lamentarmi. In più, strappa sempre un ghigno amaro vedere tutti i liberisti che allungano le mani verso i sostegni pubblici. I rischi del sistema sono però evidenti: in campo economico la scelta di quali settori favorire a colpi di bonus e quali no, è una valutazione politica, lo si vede oggi a proposito dell’edilizia, ma anche all’apparire del “bonus Terme” se ne era un po’ discusso, e in un anno elettorale rischia di diventare rissa perenne, si vedrà con il tradizionale decreto Milleproroghe. Le norme, le strettoie, le regole, insomma la curvatura di ogni bonus sarà oggetto di trattative, interessi, pressioni. Dall’altro lato – ancora più grave – c’è che la logica del bonus contagia la sfera del welfare e c’è il timore che alimentando questa logica si arriverà ad avere più bonus (da rifinanziare, rinnovare, rivotare, quindi sottoposti ai venti mutevoli della politica) che diritti (fissi e conclamati, uguali per tutti). Ecco, sommessamente suggerirei di pensare un po’ alla faccenda prima che si arrivi al “bonus elementari”, al “bonus analisi del sangue”, magari esultando per la straordinaria conquista.

mer
9
feb 22

Il Grande Centro, ristorante, pizzeria, giardino, curling, Italia Viva, c’è di tutto

PIOVONOPIETREGrande Centro, ristorante pizzeria con giardino, forno a legna, matrimoni, cerimonie. Più mi addentro in questa faccenda del grande centro e meno ci capisco. Ma insomma, va molto di moda questa specie di curling politico di posizionarsi al centro, tutti al centro, in attesa di capire con quale legge si voterà, quella attuale, un proporzionale, e se sì con quale sbarramento, e insomma per ora il sistema più accreditato è il Salcazzellum, quindi la situazione è fluida.

Il Grande Centro – vendono anche piccoli elettrodomestici – è tutto un fibrillare di sigle e di nuovi nomi, tipo Italia Viva doveva sposare Coraggio Italia e dar vita a Italia al Centro, con il che capirete che un buon copy avrebbe un futuro assicurato. Centro Centrissimo, Centro per Sempre, o anche Centro Arredo – vendono anche camerette – andrebbe bene.

Come avviene nelle grandi città, anche nel Grande Centro c’è un gran traffico, tutti incontrano tutti in appuntamenti segretissimi che il giorno dopo compaiono sui giornali. Berlusconi ha una corsia preferenziale dalla quale, di solito, “si sfila”, poi si rinfila, poi incontra Casini, poi guarda alla Lega, insomma tutte ‘ste baggianate sul Centro devono sembrargli un po’ ridicole, visto che il centro pensa di essere lui.

In tutta la faccenda, di centrista c’è solo l’egocentrismo, in effetti. Purtroppo, lo dico con la morte nel cuore, Coraggio Italia è un po’ in crisi perché il governatore della Liguria, Toti e il sindaco di Venezia, Brugnaro, hanno diverse visioni del Grande Centro, mannaggia, sai tipo Hegel e Kant, e quindi la situazione si fa drammatica. Resa incandescente dal fatto che con Brugraro si schiera Lupi, di Noi con l’Italia (giuro). Gli altri, invece, avevano adottato Mastella, perché in una banda uno col cervello ci vuole, e anche perché sennò Renzi e Toti al sud non li vota nessuno, cioè al Grande Centro vendono anche prodotti regionali dop. Per il resto: porte girevoli, cioè se ho capito bene il Grande Centro dovrebbe essere aperto ai residenti nel gruppo misto, a quelli di Forza Italia in crisi d’identità, alla pattuglia compatta di Italia Viva, ai totiani (o totici?).

Poi ci sarebbe un altro centro, che sarebbe quello di Calenda con più Europa, un grandioso polo aggregativo di idee e progetti che si attesta attualmente intorno al quattro per cento, se va bene. Qui, per non far coincidere sempre Centro e grisaglia ministeriale, si sceglie la via del punk: Calenda, “il centro mi fa schifo”. Gli sembra riduttivo, piccolo, mentre lui vuole un movimento “liberale, democratico, riformista europeista e serio”, dice che lui sarà il perno che riporterà Draghi al governo nel 2023. Ecco, bravo, faccia da perno.

Poi siccome c’è stato il festival di Sanremo e tutto il resto, ho perso un po’ di vista ‘sta cosa del Grande Centro, ma è certo che nel gioco c’è anche una corrente del Pd che esorta il segretario a “guardare al Centro” dato che nei 5 stelle prevale il cupio dissolvi. La situazione aggiornata – ma può cambiare tutto in pochi minuti – è che il Grande Centro resta una bella idea, bellissima, tranne alcuni piccoli particolari: non si sa chi lo farebbe, come, con chi, quando, perché, con quali voti, con quale legge elettorale, con quali leader e con quale programma. Dettagli. Sembrerebbe più un “che ci inventiamo adesso?”, solo che il cast è strampalato, la lite sempre in agguato, il melodrammatico “Mai con Tizio, mai con Caio” viene smentito dopo due giorni e si ricomincia da capo. Nell’indefessa costruzione del Grande Centro.

gio
3
feb 22

Dylan et moi – intervista alla rivista francese 813

Metto qui la bella intervista che mi hanno fatto Corinne Naidet e Jacques Lerognon per la rivista francese Revue 813 (numero speciale sul polar e la musica) in occasione del festival Toulouse Polarizzatrice du Sud. Si parla di Dylan e dei romanzi e di come le due cose si sono intrecciate. Grazie grazie

813-3 2          813 uno ok          813 due ok

mer
2
feb 22

Con Draghi-2 il consiglio dei ministri è una riunione tra l’epico e il fantasy

PIOVONOPIETREOgnuno ha le sue perversioni, ci mancherebbe. La mia, ieri, è stata bere avidamente le cronache del primo consiglio dei ministri del governo Draghi Due, che sarebbe il governo Draghi Uno dopo la scomparsa dei sogni quirinalizi del capo. Apprezzabili i toni sospesi tra l’epico e il fantasy, un po’ come se ci descrivessero una seduta della Tavola Rotonda, o una merenda dei ministri del Re Sole. Merende niente, però, lo dico subito, nemmeno il caffè, solo acqua. Poi l’applauso chiamato da Draghi per Mattarella rieletto – un bell’applauso! – poi gli sguardi bassi di chi ha qualcosa da farsi perdonare, poi piccole scaramucce (Giorgetti versus Speranza, Brunetta versus chissà chi), poi strette di mano. Poi l’orgoglioso giubilo per un Pil che veleggia verso il 6,5 per cento, cosa mai vista in tempi recenti, hurrà. Viene da chiedersi come mai Mattarella, appena rieletto dal Parlamento, abbia parlato chiaramente di “crisi economica”, forse si sbaglia lui che non vede il boom, forse si sbaglia Draghi che lo rivendica, non sottilizziamo.

Insomma, come è tradizione del primo giorno di scuola, il prof non ha interrogato (interroga nel consiglio dei ministri di oggi, si dice, ndr), ma soltanto spiegato agli alunni che ora si fa sul serio, che ci sono gli esami, che non tollererà ritardi e distrazioni, eccetera eccetera. Una cosa a metà strada tra il pippone motivazionale e la faccia severa del preside. I titoli e i commenti dicono che ora Draghi è più forte; le ultime righe degli zuccherosissimi articoli – se qualcuno ci arriva senza aggravare il diabete – dicono il contrario: che in un anno pre-elettorale, con molti mal di pancia in giro, non sarà una passeggiata di salute. Va bene, non sottilizziamo (e due).

Si proroga l’obbligo di mascherine all’aperto, la stessa valenza scientifica di stringere un cornetto di corallo o di toccare ferro, e si parla di discoteche, che aprano almeno per San Valentino, l’amore è una cosa meravigliosa. Poi tutti a casa: era solo un antipasto, come un rincontrarsi dopo un lungo ponte e le festività.

Ed è qui che mi sono detto: ma guarda che fesso che sono! Perché, in effetti, nella rubrica della settimana scorsa mi ero lasciato prendere dallo sconforto, addirittura avevo teorizzato che si possa fare politica, e meglio, fuori di lì, nelle strade e nelle piazze, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. Ma no, dài, avrò esagerato, mi sarò fatto prendere la mano… E allora avevo preso a coltivare l’illusione che al primo consiglio dei ministri, si parlasse di noi, del mondo qui fuori, dei comuni mortali. Chissà, immaginavo forse un piccolo capannello in cui il ministro del Lavoro chiacchiera con quello dell’Istruzione per risolvere questo fatto che un ragazzo sta in cantiere invece che in classe, e muore per una trave che gli casca in testa, cosa che peraltro succede a tre o quattro lavoratori italiani ogni giorno. Macché, niente.

Oppure che la ministra degli Interni spiegasse a tutti, con parole sue, come sia possibile che la polizia (a Torino, a Milano, a Napoli, a Roma), si metta allegramente a bastonare a sangue dei ragazzini che protestano pacificamente perché uno di loro è morto in cantiere. Magari comunicando che salta qualche prefetto, o che si prenderanno provvedimenti disciplinari.  O magari che qualcuno “di sinistra” (ahah) chiedesse la benedetta riforma di mettere numeri di riconoscimento sui caschi degli agenti per contrastare abusi, come avviene in tutto il mondo… Macché, niente nemmeno lì, ma non sottilizziamo (e tre).

mer
26
gen 22

L’extraparlamentare. Il paese lontano dalla farsesca trattativa Stato-Draghi

PIOVONOPIETRESiamo appena al secondo giorno della trattativa Stato-Draghi e sono già spossato. Cioè, confesso: sarei spossato se seguissi la questione, se mi appassionassi alle varianti, alle trattative, alle ipotesi, al cabaret di basso livello dell’aula, alle battutine dei commentatori, alle dietrologie, all’eco delle parole in libertà, ai verbi tenuti al guinzaglio lasco dei condizionali. Tizio avrebbe visto Caio e forse, chissà, risposto alla telefonata di Sempronio, che avrebbe fatto il nome di Gino, gradito a Ciccio, ma fortemente inviso a Lino perché sbarrerebbe la strada del prossimo governo a Pino, che ci terrebbe tanto. Se state guardando gli speciali televisivi di questi giorni, consiglio di mettere lo schermo accanto a una finestra, e ogni tanto guardare fuori, perché la distanza tra quel che avviene attorno ai catafalchi della democrazia (mai nome fu più adatto) e il mondo reale, appare incolmabile, siderale.

Sono pronto a correre il rischio dell’insulto, perché se ti ribelli (parola grossa), o se ti mostri indifferente (ecco, più credibile) al balletto, ti becchi di solito la patente di “populista”, che è ormai l’ingiuria corrente buttata lì da chi sostiene il teatrino, o ne fa parte attiva. E riconosco che il giochetto è abbastanza facile: di qua un manipolo di strateghi da bar che muove le pedine su una scacchiera tra Governo e Quirinale, e dall’altra un Paese stanco, stufo, nervoso, incazzato come un cobra che non sa né dove né come riversare la sua rabbia. Potrei essere più preciso: da una parte i sedicenti influencer o kingmaker che sussurrano cretinate ad ogni passo (Psst! Frattini! Psst! Casellati! Psst, vedrai che vince Casini. Psst, alla fine sarà Draghi); e dall’altra un popolo (ossignùr, che parola démodé) dove un lavoratore su quattro sputa l’anima per arrivare alla fine del mese, i salari scendono anziché salire, i diritti scolorano, i ragazzini muoiono in cantiere proprio come i lavoratori veri, e i loro amici che protestano vengono manganellati, forse dalle stesse forze dell’ordine che scortavano i fascisti ad assaltare la Cgil.

Di tutto questo, del Paese reale, del suo sangue, delle sue paure, dei salti mortali e dei calcoli al centesimo davanti agli scaffali dei supermercati, non c’è nessuna, nessunissima traccia nello spettacolo indecoroso di questi giorni. Anche le parole sono lontane, lontanissime. Da “Bisogna difendere la ripresa” (eh?) a “Non possiamo permetterci di perdere Draghi” (eh?), e giù per li rami: cose che possono sembrare assurde, e sono invece semplicemente offensive.

Poi – dopo – tutti con le mani nei capelli, oh signora mia, dove andremo a finire, perché l’affluenza alle urne cala, l’astensione si impenna, la gente se ne sbatte e tenta di vivere nonostante. Il rischio – ormai conclamato – è che si dia la colpa alla politica, così, genericamente, mentre è “quella” politica che produce danni, lutti e fantasmi. E forse bisogna ricominciare a pensare che la politica si può fare senza quelli lì, senza burattini, senza pupi e pupari, senza uomini della provvidenza che “non possiamo permetterci di perdere”. Possiamo benissimo, invece, perché forse osservando un Parlamento dove sovranisti ottusi, sedicenti “di sinistra” e liberisti assistiti dallo Stato sostengono lo stesso governo, la parola “extraparlamentare” non è più così peregrina. Ricominciare a pensare che si può fare politica con le nostre vite, il nostro impegno, i nostri bisogni, fuori di lì, mi sembra, al momento, l’unica (flebile, d’accordo) speranza.

mer
19
gen 22

Il Caimano. Il problema non è solo lui, ma la classe politica che gli somiglia

PIOVONOPIETRETra le cose che mi appassionano meno, insieme all’hokey su prato e al porno gotico giapponese, c’è la corsa al Quirinale, che sembra una partita a scacchi tra persone che non hanno mai visto una scacchiera e credono che sia una tovaglia a quadretti. Per mesi ha tenuto banco l’allarme su Silvio Buonanima al Colle, la sua foto nei tribunali (sceglierei quella dove fa le corna) e, visto che le Scuderie del Quirinale sono famose nel mondo, avrebbe nel caso bisogno di uno stalliere. Eppure – perdonate il paradosso – l’autocandidatura ora-sì e ora-no di Berlusconi contiene elementi di commedia all’italiana più che notevoli. Sgarbi telefonista che chiama in giro per trovare pesciolini da chiudere nella rete, per dire del ridicolo. O un condannato per bancarotta – Denis Verdini – che tesse la sua tela, al domicilio non ci sta, e si vede in pizzeria a Roma con peones e seconde file, con la scusa che deve andare dal dentista. Il quale (Verdini, non il dentista) è tra l’altro il quasi-genero di Salvini, amico fraterno di Renzi, insomma gli mancano solo il boia di Riga e mister Magoo e poi finisce l’album.

“Ha messo fine alla guerra fredda”, Berlusconi. E questo l’ho letto su una pagina di giornale (suo), e in effetti anch’io avevo interpretato in quella chiave la sua storica frase da statista: “La patonza deve girare”. Chiaro obiettivo geopolitico che metterebbe fine alle dispute tra grandi potenze (oddio, dai tempi del sequestro di Elena di Troia si direbbe il contrario, ma…).

Va bene, è probabile che Silvio non ce la farà e questo apre nuove speranze, e porta nuove iatture, perché il rischio è che chiunque venga eletto Presidente, verrà salutato come “Uh, meno male che non è Silvio!”, anche se magari avrà la statura politica e morale di un cotechino senza lenticchie. E però, paradosso per paradosso, una cosa va detta. Se il Presidente deve somigliare alla classe politica del Paese – non per appartenenza partitica, ma per risultati ottenuti, dignità e visione di futuro – in fondo Silvio Nostro non è così fuori dalla realtà. Dopotutto stiamo parlando di un Paese dove nel pieno di un’esplosione spaventosa della povertà si vota allegramente per negare un contributo sulle bollette ai meno abbienti, dove il salario minimo è considerato un attentato al sacrosanto liberismo, si riducono le tasse a chi guadagna il triplo della media nazionale, dove un’eventuale patrimoniale viene letta alla stregua di un comunicato delle Br, e tutta la stampa e la propaganda in coro parlano dei poveri come di gente che si fa le pippe sul divano a spese nostre. Beh, mi fa orrore il nichilismo, ovvio, ma un Paese dove su Ponte Vecchio, patrimonio dell’Umanità, compare la scritta dello sponsor, è più culturalmente vicino a Berlusconi che a chiunque altro.

C’era un tempo (forse, ricordo vagamente) dove uno poteva “buttarsi a sinistra”, ma ora fa prima a buttarsi al fiume, visto che proprio da sinistra (oddio, il Pd…) si plaude alla “straordinaria ripresa economica”, fatta di numeretti (più sei, più sei e due, più sei e cinque…) che non finiscono però nelle tasche di cittadini e lavoratori. Intendo: non è che facendo la spesa senti gente che si rallegra di aver maggiore potere d’acquisto, e festeggia il boom economico con le lacrime agli occhi come il ministro Brunetta. Anzi. Metafora per metafora, se tra socialismo e barbarie si sceglie barbarie –  da anni, con pervicacia e furore, con gusto, con sberleffo –  Silvio ci sta, con tutte le scarpe, anche se ovviamente si spera di no.

sab
15
gen 22

Due o tre cose (e qualche foto) su Monterossi, la serie. E la gioia di lavorare in un collettivo

LaLetturaMonterossi271221     IMG_1165

IMIoRoanFabriCome forse avrete sentito (ehm…), lunedì 17 esce su PrimeVideo Monterossi, la serie. Sono sei puntate da 45 minuti l’una, tre da un libro (Questa non è una canzone d’amore, Sellerio, 2014) e tre da un altro libro (Di rabbia e di vento, Sellerio 2016). La produzione è Palomar, la regia è di Roan Johnson, il protagonista, il “mio” Carlo Monterossi, è Fabrizio Bentivoglio (e quindi ora è anche il “suo”

monterossi locandonaCarlo Monterossi).
Non la farò lunga, essendo un filino di parte, ma il risultato, a noi pochissimi che l’abbiamo visto, è piaciuto molto. Ora tocca a voi, se lo vedrete. Qui, intanto, a due giorni dalla messa in onda, vorrei ringraziare tutti quelli che hanno lavorato alla serie. Di molti (e mi spiace) non so nemmeno i nomi.

Sono quelli che in un film fanno quei lavori che non sapete nemmeno che esistono, quelli delle macchine, dei suoni, quelli che sul set danno “tecnicamente” forma a una storia, che truccano, che arredano, che scelgono le location, che scelgono il cast. Grazie a tutti loro, non è mica una cosa facile fare una cosa del genere. In più, quando giravamo (cioè, quando giravano, perché io quando andavo sul set sembravo “Scovate l’intruso”) non si lavorava da un po’, sembrava tutto fermo, e la serie ha rimesse in moto certe cose, questo è un altro motivo di gioia.

 

 

Qui il trailer lungo (90 secondi)

Poi, ovvio, vorrei dire qualche cosa sui compagni di viaggio, che sono molto più che compagni di viaggio. Intanto Fabrizio Bentivoglio. Lui e il gioco di specchi che si è creato:8ed25f72-b2c6-4d9d-a6b5-24930c81f96d io, lui, Monterossi, come un ritrovarsi tra amici. E poi Fabrizio è un grande attore. Questo lo sapevo, ovvio, dai tempi di Marrakech Express e Turné (io l’ho amato tantissimo anche ne Il capitale umano…), ma vederlo lavorare, vederlo diventare un altro restando se stesso, beh, davvero una lezione.
Poi Roan Johnson, con la sua tranquillità zen (sul set) che mette tranquilli tutti, ma sempre deciso, sa cosa vuole e come lo vuole e per me che ho scritto la storia, capire che la macchina messa in un punto o in un altro può cambiare tutto è stato strabiliante. Federico Annichiarico ha diretto la fotografia, cioè la luce, cioè… insomma, molto delle atmosfere, delle situazioni, sono merito suo. Il produttore Carlo Degli Esposti (qui accanto con me e Carla Signoris) che ha fatto, con una tigna e una volontà incredibili, un lavoro pazzesco.
E2yxWqHX0AQeUsgSul cast che posso dire? I “giovani” che accompagnano il Monterossi nelle sue avventure sono perfetti: Nadia (Martina Sammanco) gioca alla perfezione la sua carta di “precaria della conoscenza”, sa fare cose che noi umani… e il suo gioco di ironie e prese per il culo del “boomer” Carlo è perfetto, ed è quello che può fare solo una vera amica. Oscar Falcone (Luca Nucera) è sfuggente e misterioso, è lui il vero detective.

Poi i miei due sbirri. Diego Ribon (Tarcisio Ghezzi) e Tommaso Ragno (Carella) sono loro, ma proprio sputati, incollati come sulla pagina, non avrei potuto immaginarli che così. Una brava persona, che sa meditare, che pensa, che capisce, Ghezzi, e un irruente fumantino, Carella, uno che prende le cose sul personale. In tutti, il senso di giustizia domina e comanda. “La giustizia non esiste, Monterossi”… Carla Signoris è Flora De Pisis, e chi se no? (ma vale anche l’inverso: Flora De Pisis è Carla Signoris, e chi se no?), strabiliante.

Maria Paiato, che i più fortunati hanno visto in teatro è l’agente di Carlo, Katia Sironi. Donatella Finocchiaro – che non ha bisogno di presentazioni – è Lucia, quella che nella “Canzone” si nomina solo chiamandola “Lei”, l’amore finito di Monterossi, che ancora ci pensa (e come ci pensa!). Altre ragazze di grande bravura: Marina Occhionero è l’agente Sannucci, ha con Ghezzi un gioco di complicità allieva/maestro sempre ironico. Silvia Briozzo è Caterina (Katrina, nei libri), la Mary Poppins di Carlo. Beatrice Schiros è Gregori, il capo di Ghezzi e Carella. E Mariangela Granelli è la signora Rosa.

Gli zingari (oh, i miei zingari!) sono Gianni D’Addario e Ilir Jacellari, mentre i miei due killer (oh, i miei killer!) sono Gabriele Falsetta e Maurizio Lombardi. Poi ci sono Miriam Previati (Anna) e Roxana Doran (Sarena), Bedlù Cerchiai (Meseret)… Michele Bravi fa… Michele Bravi…
Poi c’è Bob Dylan. Intendo che le canzoni sono le sue, che le canta lui, che ci sono scene in cui parte e… ma quand’è che avete sentito Dylan in una serie? Ci voleva il Monterossi, diciamo… Insomma, la pianto qui. Metto qui sotto qualche foto di scena. Il tutto accade a partire da lunedì prossimo. Insomma. Ecco. Fate sapere…

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mer
5
gen 22

L’autosorveglianza. Dopo il Covid magari arriverà pure quella sul fisco

PIOVONOPIETRESono affascinato, devo ammetterlo, dal concetto di “autosorveglianza”, introdotto dall’ultimo decreto legge sul Covid. Immagino che voglia dire “arrangiatevi”, cosa che già facciamo in abbondanza e quindi bene, niente di nuovo. Non stupisce nemmeno che avvenga in ambito sanitario, in un Paese dove è più facile parlare col Papa che col medico di base, dove un tampone d’emergenza o controllo costa come una cena da Cracco, dove le regole sono interpretabili, eccetera, eccetera.

Che la parola compaia in un decreto legge (col trattino in mezzo, auto-sorveglianza) inquieta un po’, questo sì.

Mettetela come volete, ma l’autosorveglianza, in generale, rischia di darci grandi soddisfazioni. Contiene una retorica densa di senso di responsabilità e ragionevolezza (“Badi, buon’uomo! Io mi autosorveglio!”), e una prateria davanti di cose che si possono autosorvegliare, anche al di fuori dell’emergenza Covid. Se la cosa prende piede, tra un po’ qualcuno chiederà l’autosorveglianza fiscale, e qualcun altro dirà beh, sai, non è una brutta idea. Sappiamo come vanno queste cose. E se cerchi “sorveglianza” in rete non ti esce subito Foucault, ma decine e decine di venditori di telecamere, sicurezza, anti-intrusioni, panoramiche del tuo salotto dal telefonino. Ecco, diciamo che sorvegliare ci piace di più che autosorvegliarci (Foucault torna sempre fuori), e prima qualche prova pratica la farei. Che so, un decreto in cui si dica: ehi, gente, niente multe per un mese, autoregolatevi il codice della strada! Un’orgia di doppie file, un’ordalia di lamiere. Oppure due turni di serie A senza arbitri, “Oh, sul fuorigioco fate un po’ voi”. Delirio.

Ma posto che “autosorveglianza” significa “non riusciamo a sorvegliarvi” – a pensarci bene è strano che non abbiano trovato una parola inglese – verrebbe da dire che è meglio così. Al netto delle regole arabescate e ghirigoreggianti, è ovvio che uno si autoregola, cioè si arrangia. Chiede in giro, si informa presso le massime autorità del ramo, tipo il dottore che sta in tivù, o la cassiera del panettiere, o addirittura ascolta quel che gli dice il medico, se riesce a trovarlo. Si fa insomma, delle sue proprie regole, accettando la sua collocazione nella complicata scala sociale sanitaria del momento. Asintomatico con booster! Guarito da 120 giorni! Hurrà!

Ci autosorvegliamo tutto il tempo, peraltro, non andiamo al centro commerciale con un fucile a pompa, non prendiamo l’autobus nudi e riusciamo persino a non tirare i piatti al televisore durante certi dibattiti o interviste. Direi che fin qui la tenuta di nervi e la capacità di autosorveglianza degli italiani è stata persino strabiliante, oltre ogni più rosea previsione. Ora cerchiamo di autosorvegliarci – inteso come stiamo calmi – anche mentre leggiamo il decreto legge e la circolare del ministero della salute, che dicono cose diverse su come devono comportarsi gli autosorvegliati. Serve il tampone, quando ti sei autosorvegliato da asintomatico per cinque giorni? Non serve? E’ argomento di grande attualità nelle file per i tamponi, che intanto fatturano come la Krupp nel ’41. E il gioco dell’anno sarà sfuggire alla sorveglianza, dribblare quarantene, sminuire contatti, mentire, in modo da non cadere nel limbo dell’autosorveglianza. Per scoraggiante coincidenza, l’appello e l’incoraggiamento a sorvegliarsi da sé coincidono con la più grande matassa di regole che si sia mai vista, il più complicato origami di articoli e commi in cui le nostre vite siano mai rimaste impigliate.

mer
29
dic 21

Da Figliuolo. State calmi: c’è il Green pass di livello 25-C-Rafforzato Plus

PIOVONOPIETRECon il Green Pass di livello 25 – C – Rafforzato Plus puoi entrare in una sala biliardo, ma puoi giocare solo a boccette, niente stecche, per quelle serve il livello 26, che ti danno solo se fai un tampone di tipo D-14 in un aeroporto della Mongolia orientale. Occhio che c’è la fila. Ha ragione il generale Figliuolo, bisogna avere pazienza. Dai, cazzo, magari aspetti quaranta minuti dal concessionario della Porsche e non vuoi stare sei ore fuori da una farmacia?

Di tutte le categorie in crisi, la mia solidarietà di fine anno va a chi aveva in mente di scrivere un romanzo distopico, ambientato in un futuro nebuloso e incerto, su una società isterica. Ecco, mi spiace per lui, dovrà inventarsi qualcos’altro, perché ‘sta roba qua la leggiamo tutti i giorni. Seguo, per esempio, la strabiliante evoluzione tecnico-scientifica del nostro lasciapassare sanitario, quello che durava nove mesi, no dodici, no di nuovo nove, no sei.

Mostro il mio Greenpass con la scioltezza del giocoliere, potrei partecipare alle Olimpiadi nella categoria “Mostratore al volo di display”. Vado a lavorare tutti i giorni nello stesso posto, dove la stessa persona me lo chiede ogni giorno, e ormai il problema non è il Greenpass, ma inventarsi qualcosa da dire in quell’attimo di imbarazzo: lui sa che sta facendo una cosa inutile, io so che sto facendo una cosa inutile. E’ un rito scaramantico, che ha la stessa portata scientifica di stringere un cornetto di corallo. Eppure lo facciamo lo stesso. Unica soddisfazione: quando gli antropologi ci studieranno, tra una decina di secoli, e impazziranno per interpretare una cosa del genere. Giunti al punto “SuperGreenpass obbligatorio per le feste di laurea ma non per i matrimoni” si arrenderanno, spero.

Ma facciamola breve. Presto il mio Greenpass non basterà più: come per il Mac, il telefono, il tablet, la televisione, il navigatore, dovrò fare l’upgrade, aggiornare il programma. Una certa riprovazione sociale comincia a spumeggiare intorno a me: ho ancora il Green pass semplice, non mi vergogno? Non penso a mio nonno? “Io non ce l’ho il nonno!”, rispondo. Ma niente, ottengo solo un accenno di disprezzo.

Naturalmente ho prenotato la terza dose, mi daranno il Green pass rafforzato, diciamo che passo da Greenpass 2.1 a Greenpass 3.0, non male per uno che non aveva mai pensato di fare carriera nel mondo della sanità. La quarta dose viene data per certa, comunque, da quasi tutti i virologi in onda, quindi già so che è il solito giorno della marmotta, e che quello che leggiamo oggi (“cambio di passo sulle terze dosi”) potremmo leggerlo anche domani (“cambio di passo sulle quarte dosi”). Approfitto per consigliare nuove formule (che so: colpo di reni, scatto felino) perché il generale Figliuolo che dice “cambio di passo” è un classico da marzo, nove mesi fa, un po’ invecchiato come tormentone. Scatteranno le promozioni commerciali, tipo un tampone gratis se porti un amico, e ci saranno corsi di laurea dedicati ai diversi tipi di quarantena.

Intanto, le cose che si potevano fare, non sono state fatte. A parte litigare un po’ su chi controlla biglietti e/o Greenpass sugli autobus, gli autobus sono sempre quelli, le aule sono sempre quelle, le code per i tamponi sono dense di gente che bestemmia tutti i santi perché in classe di Gino o di Filippa c’era un positivo, quindi tutti a casa, madre, padre, due fratelli, stanno tutti bene, ma è il Vietnam. A ‘sto punto la coda per il tampone è una botta di vita. Il mio consiglio è scollinare Capodanno e ripresentarsi qui nell’anno nuovo, carichi di buoni propositi. Auguri a tutti.

lun
27
dic 21

Due o tre cose sul Monterossi, la serie

Oggi con l’intervista doppia su La Lettura (io e Fabrizio Bentivoglio, l’intervista è di Cecilia Bressanelli) comincia ufficialmente l’avventura di Carlo Monterossi al cinema. Siccome è più di un secolo che si mettono i libri nei film, che si danno facce a personaggi, gesti, voci, insomma non cadrò nella trappola di dire le solite banalità. La produzione è Palomar, il regista è Roan Johnson, il protagonista è Fabrizio Bentivoglio, la luce è di Federico Annichiarico, la sceneggiatura è di Roan, Davide Lentieri e mia.  E poi ci sono (li dico in ordine sparso, Diego Ribon, Martina Sammarco, Donatella Finocchiaro, Luca Nucera, Tommaso Ragno, Marina Occhionero, Beatrice Schiros, Maria Paiato, Silvia Briozzo… vabbè li scoprirete nei vari ruoli).

Andrà in onda su Prime Video dal 17 gennaio. Sono sei episodi, tratti da due romanzi, Questa non è una canzone d’amore e Di rabbia e di vento.

LaLetturaMonterossi271221

mer
22
dic 21

Sotto l’albero. Il Green pass gold edition e il booster come sorpresa

PIOVONOPIETREDunque, il consiglio dei ministri deciderà il 23 dicembre (domani) come potremo/dovremo comportarci il giorno di Natale. Siamo in quella fascia di tempo in cui le rosticcerie non ti prendono nemmeno più l’ordine: “Mi spiace, signora, doveva dircelo prima”.

E infatti gli italiani hanno fatto prima: chi doveva disdire ha disdetto, chi poteva confermare ha confermato, un po’ di parenti staranno a casa, si mentirà su obblighi e quarantene, tutti o quasi greenpassati e tutti alle prese con quella ormai familiare frase: “Vabbé, staremo un po’ attenti”.

Ma nelle decisioni prenatalizie che ci verranno gentilmente comunicate mentre facciamo i pacchetti, c’è qualcosa in più di qualche regola; c’è in controluce la crisi di una narrazione molto molto pressante, sulla pandemia, sulla scienza, e in definitiva sulle nostre vite ai tempi del Covid.

Due unanimismi intrecciati hanno camminato di pari passo in questo anno: quello per superare la pandemia, uscirne finalmente, accettare regole e consigli a reti unificate, a volte un po’ balzani; e uno per il nuovo salvatore della politica, l’ennesima ultima spiaggia, eccetera eccetera, insomma, il draghismo semi-obbligatorio che il paese respira come un aerosol. Ecco, è possibile ora che questi unanimismi si scollino un po’, che non marcino più così uniti come qualche mese fa. Ognuno dei due ha dato qualche cenno di cedimento, non la tenuta ferrea che si credeva.

Sul lato pandemia (ma ormai bisognerebbe dire “politica pandemica”) i nuovi sviluppi ci dicono che il vaccino ci protegge dall’intubazione, ma non da tutto il resto (dall’ammalarsi alla quarantena, all’isolamento, e via elencando, e tutto magari con un greenpass valido in tasca). Ognuno fa i conti con la sua propria situazione. Personalmente sarei un eroe della AZ generation, in attesa di booster-surprise, perché non so se mi toccherà Pfizer o Moderna, può darsi che tirino a sorte. Diciamo che non mi avvicino alla terza dose con la stessa soddisfatta serenità con cui ho ricevuto la prima e la seconda.

Si parlò addirittura, qualche mese fa, di vietare i tamponi, colpevoli di disincentivare al vaccino. Si infiammò persino la polemica: io con le mie tasse ti dovrei pagare il tampone! Ver-go-nia! Si colorò insomma il dibattito tanponi sì-tanponi no con quell’atteggiamento sbirresco e discriminatorio che faceva di uno col tampone il nemico sociale del momento, il parassita buono per il dileggio popolare. I romanzi distopici di Ballard ci fanno una pippa.

Oggi invece si certifica (cioè domani, con calma) che magari in certe situazioni (stadi, grandi eventi) non basterà il vaccino, e quindi il green pass, ma ci vorrà anche un tampone, con nuovo greenpass, suppongo. E questo mentre un’altra proposta arriva alla “cabina di regia”: che per il trasporto locale non basti più il tampone, ma sia necessario il vaccino, in due dosi, meglio tre, e greenpass gold edition. Si è parlato anche (sono quei ballon d’essai lanciati per capire se c’è spazio di manovra) di greenpass più tampone per andare al cinema, o a teatro, con il che a teatro, spiace, ma non ci andrebbe più nemmeno Pirandello.  Insomma, la gestione tecnico-politica della pandemia non è più il Sacro Graal, che se lo tocchi sei un cane infedele. E siccome di tutto lo sbandierato boom economico nelle tasche della gente non sta finendo niente, ecco che anche i superpoteri di Supermario si fanno meno scintillanti. Due unanimismi abbracciati, uno che regge l’altro, sembrano un po’ meno abbracciati, e anche un po’ meno unanimi.

mer
15
dic 21

Dignità 2.0. Persino il licenziamento è diventato “smart”: un sms e sei fuori

PIOVONOPIETRENuove tendenze. Va molto di moda il licenziamento smart. Ti chiamano via Zoom, o in teleconferenza, oppure al telefono, oppure whatsapp, sms, tamburi, segnali di fumo e insomma, il cellulare fa plin e sei licenziato al volo. E’ una cosa moderna e pulita, rapida, ancora abbastanza nuova da conquistare qualche titolo sui giornali. Campione del mondo, il Ceo di Better.com, mister Vishal Garg, che ha licenziato 900 dipendenti in un collegamento via Zoom: “Se siete in questa chiamata, fate parte dello sfortunato gruppo…”. Scena lugubremente fantozziana.

E’ un caso estremo, ma solo per entità della strage, basta cercare online licenziamenti sms, o licenziamenti whatsapp per farsi una piccola cultura in materia.

I titoli, va detto, si fanno via via ogni volta un po’ meno indignati, all’inizio era tutto un “Oh, che scandalo, licenziati via mail!”, e ora la faccenda sembra accettata con più filosofia, ci si abitua, insomma.

Ci si chiede perché non affinare nuove tecniche, sperimentare, portarsi avanti col lavoro, forse qualche ufficio studi potrebbe occuparsene. Uno sforzo, su, almeno per vedere il titolo “Sorteggio per i licenziamenti alla Pinco Pallino Laminati Industriali”. E poi si potrà migliorare ancora, fino a “Licenziati a colpi di fionda”, perché no? Un piccolo Squid Game, con i suoi eliminati dal mercato del lavoro, venti qui, trentadue là, poi ogni tanto delocalizzazioni importanti (la Gkn di Campi Bisenzio) a colpi di centinaia. Lo studio di avvocati che ha assistito l’azienda per la chiusura e l’esubero di 430 dipendenti si vanta dell’impresa e viene premiato ai Top Legal Awards. E’ una guerra piuttosto asimmetrica, diciamo.

Tra l’altro, mi si consenta l’inciso, non si legge mai “Assunti via sms!”, e in generale la parola “assunzioni” risuona assai meno della parola “licenziamenti”, cosa che andrebbe considerata di una certa stranezza, in un Paese che vanta uno strepitoso aumento del Pil. Chiusa parentesi.

Insomma, si discute un po’ sulle varie scelte etiche nelle modalità di licenziamento dei lavoratori, un dibattito tutto teorico, asettico, tecnico. E’ meglio la raccomandata? Un sms che dice: “Da domani può stare a casa”?, un algoritmo che non ti caga più, con rispetto parlando?

C’è il rischio, almeno sul piano mediatico, che il dibattito finisca per concentrarsi sui modi e non sulla sostanza. Insomma, che la modalità smart del licenziamento (quando ti dicono smart c’è la fregatura, è praticamente sicuro) attiri più attenzione del licenziamento stesso. Eppure c’è anche lì –  nei modi, nei tempi, nelle frettolose arroganze aziendali, nelle righe sbrigative di liquidazione ed espulsione – una questione densa e importante, che è alla fine una questione di dignità del lavoro. Non è solo forma, insomma, o meglio si tratta di una forma che è anche sostanza: trattare in generale il lavoro come una variabile dipendente, uno strumento che oggi serve, domani no, e si dosa di conseguenza, con le modalità più funzionali alle aziende: non facciamola tanto lunga, un sms basta e avanza. Tra l’altro, ricacciando molti dei licenziati d’Italia nella morta gora dei lavoretti, del cottimo e delle coop farlocche, dove le modalità di licenziamento smart sono la prassi, dove si lavora a chiamata, a convocazione e tutti i trucchi che si sanno. Non si vede all’orizzonte un’inversione di tendenza e anzi si paventano mattanze in vari settori industriali, quindi sms, whatsapp, riunioni online, comunicazioni estemporanee tipo “Buongiorno, da domani lei non ci serve più”, arrivederci.

mer
8
dic 21

Che Colle! Il rischio è trovare B. davanti a casa mentre vende “Lotta Comunista”

PIOVONOPIETREAl momento in cui scrivo, i trapezisti sono stati bravi, i clown sempre perfetti e aspettiamo gli illusionisti. Quella che si chiama “Corsa al Quirinale”, una versione circense di Helzapoppin’, riserva colpacci giorno dopo giorno, numeri nuovi e sorpresone. Se ti distrai dieci minuti non capisci più chi vuole Draghi lì, chi lo vuole là, occhio che finisce né lì né là, oppure può andare là e comandare anche lì. Una trama intricatissima.

Poi, di colpo, spunta un nuovo genere letterario: il Fantasy Costituzionale. Anche qui la trama non è semplice: un doppio incarico con un Draghi con due cappelli, uno da presidente e uno da premier? Non si può. Allora un prestanome? Un uomo di assoluta fiducia? Da qualunque parte la si guardi è un po’ imbarazzante. Il coro “Draghi stai lì” risuona in ogni dove, tutti lo vogliono al Quirinale e nessuno lo vuole al Quirinale, lui cosa vuole non lo dice. Così si favoleggia di astruse architetture costituzionali, Granducati, Superpresidenze, Imperi.

Gli attori, poi, memorabili. Di Silvio nostro si è detto in lungo e in largo, manca poco che si iscriva agli Inti-Illimani, che si mostri con l’eskimo. Dopo le aperture ai Cinquestelle (forse non ricorda “Nelle mie aziende pulirebbero i cessi”, aprile 2018) mi aspetto di trovarmelo da un momento all’altro sul pianerottolo, che tenta di vendermi Lotta Comunista. In generale gli altri si barcamenano, cercano di capire cosa succede intorno a loro, menandosi come fabbri anche se stanno nello stesso governo, votano le stesse leggi, esultano per i mirabolanti risultati raggiunti (eh?).  Non mancano le note di colore locale: se Draghi andasse al Quirinale il presidente del consiglio designato sarebbe il ministro più anziano, cioè Renato Brunetta.

Nel frattempo, divampa l’incendio nel campo largo. E’ largo? Non è largo? Maria Elena Boschi lancia ultimatum: “O noi (intende i renzisti, ndr) o i Cinquestelle”. Urca. Carlo Calenda, autocandidatosi (è un vizio) per dispetto e poi autoritiratosi dalle suppletive a Roma, dice invece che ora va da Letta e gli dice serio: “O noi (intende Calenda, ndr) o i Cinquestelle”. Anche questo a suo modo è un Fantasy, con le tribù, capi e capetti, territorial pissing, offensive, colpi bassi e incantesimi.

Se si esce da questa confortevole e appassionante fiction, la situazione è un po’ più grama. Incombe uno sciopero generale, cosa che non avveniva da anni, contro un governo che – a leggere stampa e propaganda – risulta amatissimo, competentissimo, geniale. Basterebbe questo a dire di una notevole distonia tra la realtà e la sua narrazione incoraggiata: il sei e uno, sei e due, sei e tre di aumento del Pil non si vede nelle tasche del Paese, dove anzi si vede l’inflazione, che erode il potere d’acquisto ed è di fatto una flat tax che colpisce i più poveri. Mentre si assiste alle schermaglie pre o post-quirinalizie, ai tatticismi e allo spettacolino, insomma, emerge una verità. Tutti quei soldi, quegli investimenti, quel “è il momento di dare” che potevano cambiare il Paese, sono andati e stanno andando nella direzione di lasciarlo com’è. Dare qualcosa a quasi tutti, rafforzare qualche posizione cardine, smollare contentini, ma niente di strutturale, capace di cambiare in modo più egualitario il corpo sociale del paese. Un’operazione di mantenimento dell’esistente, mediocre e troppo diseguale. Il resto, quel che avviene intorno al disegno, è poco più che coreografia, un gran parlare di tattiche e strategie, mentre il gioco si fa da un’altra parte.

mer
1
dic 21

Monti e l’informazione. C’è già il “suo”dosaggio (molto meno) democratico

PIOVONOPIETREChiedo scusa se parlo di Mario Monti – un Mario Draghi di dieci anni fa – ma, occupandosi questa rubrichina di leggende, narrazioni e media, direi che la recente uscita del senatore Monti sull’informazione che va “dosata” merita qualche appunto in margine (ne ha parlato benissimo, unendo molti puntini, Tommaso Rodano, eri, su questo giornale). Dunque troppa democrazia, troppa libertà di stampa, abbiamo subìto tante restrizioni, perché non subirne un’altra? Che male c’è? “Trovare modalità meno democratiche nella somministrazione dell’informazione” è una frase che dovrebbe mettere qualche brivido nelle brave persone. C’è anche quell’altro verbo, “dosare”, che ribadisce bene il concetto, cioè dovrebbe esserci un rubinetto, quello dell’informazione, e il governo (secondo il senatore Monti) dovrebbe aprire e chiudere a piacere, “come nell’informazione di guerra”. Seguono precisazioni e correzioni di tiro, ma si sa, le parole dal sen fuggite sono le più sincere.

Si lanci dunque il giusto allarme: l’informazione che si “somministra” a dosaggio merita un no fermo, sicuro, come si dice senza flessioni. Un soave “non diciamo cazzate”. Ma a parte questo, esistono già abbondanti sentori di un’informazione di guerra. Il nemico è brutto, sporco, cattivo, si macchia di orrendi delitti, si copre di ridicolo, è un cretino, è stupido, eccetera eccetera. Il nome, “no-vax” già lo descrive spregevole, e siccome l’informazione di guerra non deve guardare troppo per il sottile, diventa “no-vax” chiunque abbia una posizione anche vaghissimamente critica sulla gestione della pandemia, anche plurivaccinati convinti. Insomma, l’informazione di guerra evocata da Monti radicalizza il confronto e divide, individua il nemico e lo ridicolizza. Così abbiamo, praticamente a reti unificate, una specie di reductio a imbecillum di una parte della popolazione. Si intervista il cretino, quello che dice che il Covid è un raffreddore, quello del 5g, del complotto planetario, dell’“io mangio molta verdura”, il millenarista, lo squilibrato generico. Insomma, il catalogo è questo: sono tutti matti, e bon, ecco una perfetta – a volte un po’ ridicola – informazione di guerra, dove il filosofo critico vale il guru che si cura con il muschio, tutti nemici uguali.

Si dirà che la pandemia ha cambiato certi parametri, eccetera eccetera. Certo, come no. Ma il meccanismo dell’informazione di guerra si applica anche in altri ambiti, basti pensare alla reductio a delinquentem che si è fatta, per esempio, dei percettori di Reddito di Cittadinanza. Per loro, tutti i giorni un titolo su casi specifici di malviventi (quello con la Ferrari, quello con tre case, quello che vive ai Caraibi) e la riprovazione etica costante, il pubblico ludibrio. Le modalità si somigliano molto, in effetti, e viene da pensare che quel “dosaggio” nell’informazione evocato dal senatore Monti sia già abbondantemente in atto, non “dall’alto”, come dice e vorrebbe lui, più probabilmente da molte direzioni convergenti.

Si sa poi che un “dosaggio” tira l’altro, come le ciliegie, e quel che si applica per la pandemia (niente centro storico alle manifestazioni, per dirne una) poi si applica a tutti. La Cgil regionale dell’Emilia Romagna, per citare un caso, non potrà manifestare in piazza Maggiore a Bologna per un no della Prefettura. Non si capisce se per leso shopping o per paura di contagi, le cose si confondono, la notizia merita un trafiletto minuscolo, poche righe. Insomma, come direbbe il senatore Monti, un dosaggio minimo.

mer
24
nov 21

B. al Quirinale. E’ lo spettacolo d’arte varia di un uomo innamorato di sé

PIOVONOPIETRENell’eterno giorno della marmotta che viviamo, scandito dalle stesse parole di sempre, da “Non abbassare la guardia” (Covid) a “No allo spezzatino” (Tim), la battaglia per il Quirinale porta una ventata di spumeggiante novità, che metterà d’accordo fini scacchisti e rudi amanti della lotta nel fango. Insomma, c’è una scadenza, bisognerà prima o poi fare dei nomi, tessere, cucire, uscire allo scoperto, imbastire agguati nell’ombra, bruciare avversari, mentire. Che meraviglia. E poi, tutto in diretta, l’atto finale. Prepariamoci.

Su tutti svetta Silvio Nostro, uno che ci crede sempre al di là della logica, che non molla nemmeno davanti all’evidenza, insomma che punta al Quirinale senza se e senza ma (e senza dirlo per scaramanzia anche se lo sanno tutti). Ha mandato, pare, una brochure a tutti parlamentari, una specie di opuscolo con le sue gesta da statista, discorsi alti, diciamo così, non le barzellette. Poi, grandiosa, l’uscita sul Reddito di Cittadinanza, che dice un po’ le cose come stanno e spezza la narrazione ossessiva del “reddito di delinquenza” (cfr. Renzi) che “diseduca alla sofferenza” (cfr, sia Renzi che Salvini), o che è “come il metadone” (cfr, Meloni). Insomma, commovente Silvio in cerca di sponde per salire al Colle, ma di una cosa bisogna dargli atto: pochi come lui sanno l’importanza del mercato interno, dello stimolo ai consumi, della necessità di avere gente felice che fa la spesa, e cinque-sette milioni di poveri non gli piacciono di certo.

Ma sia: nella partita complicatissima del Quirinale, che investe la partita complicatissima del governo, che riguarda la partita complicatissima dei futuri assetti politici, la mission di Berlusconi – portare Berlusconi a fare il Capo dello Stato – è l’unica cosa chiara. E infatti tutti hanno letto l’apertura di Silvio sul Reddito di Cittadinanza come un dar di gomito ai Cinque stelle, un’operazione simpatia, cosa che Silvio tenta in qualche modo anche con il Pd, mentre Renzi si vanta che farà tutto lui e “siamo l’ago della bilancia”, Salvini e Meloni sostengono Berlusconi, a parole e con l’atteggiamento di fare un favore al vecchio padrone.

Quel che ci si presenta davanti, insomma, è lo spettacolo d’arte varia di un uomo innamorato di sé, che vuole abbastanza incongruamente coronare il suo sogno di padre della patria. Mi aspetto da un momento all’altro Silvio at work su molti fronti, alle manifestazioni per l’acqua pubblica, o a quelle per Fiume italiana, per l’aborto, contro l’aborto, fa lo stesso, purché gli venga accreditata la patente di uomo retto e super partes. Non male per uno che ha diviso il Paese per trent’anni, e fa tenerezza sentire i giovani epigoni che tuonano da un palco contro la magistratura con gli stessi argomenti e motivazioni che usava lui, passivo-aggressivo. Il giorno della marmotta, appunto.

Il bello, deve ancora venire, questo è certo, nel vortice di nomi bruciati, candidature civetta, ballon d’essai. Non proprio uno spettacolo edificante, con minacce incrociate, anche divertenti, tipo Letta che dice a Renzi che se si schiera con le destre sul Quirinale tra loro è finita (ah, perché? Non è ancora finita? Cosa serve ancora?). In tutto il balilamme politico e para-politico che ci attende, insomma, le motivazioni di Silvio, la pura ambizione personale, un riconoscimento finale alla sua opera, un risarcimento per le ingiustizie subite (eh?) sembra la più cristallina, a suo modo epica: l’ultima battaglia di uno che sì, il Paese l’ha cambiato eccome, rendendolo, ahinoi, quello che vediamo.

mer
17
nov 21

Una settimana in giallo (e un racconto col Monterossi)

Domani (il 18 novembre) esce in tutte le librerie del regno, piattaforme, ecc. ecc., la nuova antologia noir  Sellerio, che si intitola Una settimana in giallo. A parte il fatto (non trascurabile) che è bello esere in buona compagnia – insomma con i migliori che potete trovare in giro a partire dalla mia beloved Alicia Giménez-Bartlett a tutti gli altri – sono onorato di presentare un nuovo racconto con il Monterossi, Falcone, la Cirrielli eccetera. L’indagine sembra semplice, ma… Insomma, si intitola Occhi. Fate sapere

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mer
17
nov 21

Fedez “candidato” alla fine è il miglior comunicatore. I media escono a pezzi

PIOVONOPIETRENon so se si può trarre una buona storiella o lezioncina su “media e politica” dallo scherzo di Fedez, che molti boccaloni credevano pronto alla carriera politica e invece voleva solo fare il promo del suo disco. Ora se la ride, ed è probabile che conservi ritagli e screenshot a futura memoria del livello raggiunto dal Paese. La storia è nota, lui registra un dominio apposta, fa filtrare qui e là che sarebbe pronto per le elezioni del 2023 (per magia, Fedez sarebbe l’unico sul pianeta a conoscere la data delle elezioni italiane) e molti cominciano ad agitarsi. Chi mettendosi le mani nei capelli col solito “dove siamo finiti” (di solito significa che ci siamo già finiti), chi urlando al neo-neo-neo-populismo, chi facendo i calcoli: per un noto sondaggista ecco già Fedez al dieci per cento che “ruberebbe voti ai 5s”. Intanto si riflette, giustamente, su questi nuovi conflitti di interessi, e su come calcolare il peso politico di milioni di followers. Insomma, un mondo vario, chi ci è cascato con tutte le scarpe e chi ha fatto il sorrisino del dubbio, ma c’è un dato di fatto: una settimana di chiacchiericcio ha dimostrato che non è considerata impossibile una simile opzione (Fedez che sbaraglia tutti alle urne), che è tutto sommato “plausibile”, che l’attuale classe politica è così debole, balorda, impaurita e senza strumenti che sembra temere qualsiasi concorrente. Urca, arriva Fedez! Godzilla! Si candida Amadeus! Sondaggio! La Ferragni avrebbe il 64 per cento in Molise! Un delirio.

Di base, chi sa fare gli scherzi mi sta simpatico, mi viene sempre in mente l’immenso Ugo Tognazzi in prima pagina, catturato come capo delle Brigate Rosse su il Male. In questo caso poi, lo scherzo rivela un po’ lo stato delle cose, ha quindi un valore didattico: attenzione, quelli che stanno decidendo come spendere una valanga di miliardi possono finire ad avere paura di Fedez. Sì, fa abbastanza ridere.

Ma a uscirne malamente è anche il sistema dei media, dopotutto lo scherzo era diretto a loro. Si capisce, naturalmente, che un caporedattore stremato dalle dichiarazioni di due righe, il pastone politico, il feticismo delle cronache parlamentari, abbia bisogno di un po’ di distrazione, ed ecco la simil-notizia di Fedez che registra un sito per le elezioni, è il cielo che la manda. E così parte la giostra, prima la notizia, poi il titolone, poi il commento, poi il ditino alzato. E’ un attimo che ti scende la catena e ti ritrovi a fare un comizio. E forse è pure peggio, un gioco delle parti che lo stesso Fedez spiega bene: “Nonostante tutti fossero consci che fosse una trollata, per loro era più importante fare finta che fosse vero”.

Il giorno dopo, quando è uscito il vero promo del disco di Fedez e la faccenda è apparsa semplice, tutti se la sono cavata con una fotonotizia, bon, via, alla prossima, che è l’equivalente di andarsene fischiettando.

Alla fine, dopo qualche risata, quel che viene fuori è che il “cantante tatuato”, il “rapper con la terza media”, quello ricco, tutto griffato lui e famiglia, zuccheroso coi figli nelle storie su Instagram, sempre in mezzo a bambini, vestiti, giocattoli, ecco, quello lì che mi guarda da una vetrina di mutande con gli addominali perfetti, capisce di comunicazione più di tanti sedicenti geni messi insieme. Spin doctor, consiglieri, esperti d’immagine, strateghi della narrazione, su, su, fate largo che finalmente, dopo tanta fuffa, arriva uno che ci sa fare. E lo fa citando il caposcuola indiscusso, il padre di tutte le recite: “L’Italia è il paese che amo…”.

mer
10
nov 21

Rivoluzione. Chi lavora non può essere povero: lo Stato intervenga

PIOVONOPIETREUno speciale caso di strabismo, fa in modo che ci sia una parte della società poco indagata, poco vista, poco raccontata, insomma di cui non ci si occupa, e sono quelli che fanno la guerra tutti i giorni coi prezzi, la spesa, l’affitto, e i salari da fame. E’ un fenomeno italiano piuttosto noto, quello dei lavoratori poveri, da poco certificato dalla Fondazione Di Vittorio: cinque milioni di italiani guadagnano meno di diecimila euro lordi all’anno. Il limite, insomma, a un passo dalle sabbie mobili e della soglia di povertà. E’ una popolazione che non ha narrazione, che non si vede nei telegiornali, nelle serie, non è presente nella politica. Quando si parla di poveri, in generale, è per fargli il culo, perché non corrono a lavare i piatti al mare in agosto, o perché sono assistiti, o svogliati, o fancazzisti che ai miei tempi, signora mia… Ecco.

Tutto il racconto del proletariato italiano sta qui, dileggio e insulto, per non dire dell’equiparazione ormai diretta tra percettore del reddito di cittadinanza e “furbetto”, un’equazione accettata dai media con soddisfatta nonchalanche, e passiamo ad altro. In generale si sentono grandi allarmi, ma non ci si muove molto. Le file, per usare una metafora nemmeno tanto metaforica, si allungano.

Non pare che nella manovra finanziaria, ci siano molte tracce di attenzione per questa numerosa genìa dannata, ma in compenso qualche briciola per chi sta meglio. Se la revisione dell’Irpef sarà quella annunciata – quella del famoso “tagliamo le tasse” che tutti sbandierano – non c’è molto da brindare: si limerà qualcosa tra i 28 e i 55 mila euro, cioè chi guadagna ventottomila euro l’anno niente, e chi si avvicina ai cinquanta risparmierà meno di 500 euro all’anno. Poco, ma soprattutto sempre lì, ai piani medio-alti dei contribuenti.

Dunque, abbiamo un problema: periodicamente si puntella un po’ la classe media, diciamo la borghesia produttiva, il lavoro garantito, e dall’altra si dimentica sistematicamente il lavoro che più si è espanso negli ultimi decennio, quello intermittente, a chiamata, casuale, a singhiozzo, insomma una massa indistinta e molto numerosa di lavoratori che di garanzie ne hanno pochissime o niente del tutto. Non è un settore in cui possa intervenire la politica fiscale, giusta obiezione, perché la platea dei lavoratori poveri non è quasi soggetta a tassazione. Ma proprio per questo la faccenda è un po’ più impegnativa: non si tratta di regalare soldi, ma di disegnare bene dei diritti, e forse proprio per questo la politica se ne sta alla larga.

La vera polarizzazione, qui e ora, è quella tra redditi accettabili e redditi troppo bassi, con buona pace delle vecchie terminologie novecentesche, e però, uh, che sorpresa: riecco la borghesia e riecco il proletariato. Non so dove possa portare questa annosa faccenda dal punto di vista politico, ma insomma, le differenze sociali troppo marcate si sa che generano insoddisfazione e incazzatura. Dunque lì, lì ai piani bassi, serve più che altro un ridisegno complessivo delle modalità di lavoro e di salario, un certificato statale che chi lavora – almeno chi lavora! – non sia povero, il che tra l’altro ripristinerebbe non solo un minimo di giustizia sociale, ma distenderebbe i nervi i tutti. Forze politiche che prendano sul serio questa battaglia e la portino al centro della scena non ce ne sono, non conviene, non fa fine, forse non sono considerati voti appetibili, non fanno opinione, non sono moderati, non hanno sotto il braccio l’agenda Draghi, quindi non vanno bene.

mer
3
nov 21

Squid Draghi: premier conteso tra Colle e X-Factor”

PIOVONOPIETREE’ probabile che la politica italiana dei primi anni Venti verrà ricordata come un gigantesco gioco di ruolo dal suggestivo titolo: “Dove mettere Mario Draghi”. Certo, parlare oggi di “politica italiana” è un po’ esagerato, e uso questa figura retorica per dire dell’indefessa attività di applaudire il premier in ogni contesto e situazione. Insomma, corre il decennale dell’avvento a palazzo Chigi di Mario Monti e non si scopre niente di nuovo: l’ovazione pare obbligatoria e sembra ieri che la stampa nazionale si spellava le mani perché un tizio andava a Roma in treno, metteva il loden e mandava i lavoratori in pensione più tardi. Da allora, l’evoluzione dell’elettronica è stata poderosa, quindi non parleremo di un Mariomonti due-punto-zero, semmai di un Mariomonti a realtà aumentata. Resta il fatto che “Dove mettere Mario Draghi” è il gioco di società del momento e tocca quindi mettere in fila le ipotesi più accreditate.

Draghi a Palazzo Chigi. Molti giocatori desiderano fortemente questa ipotesi. I partiti al governo per non avere il fastidioso grattacapo di metterci uno dei loro; Silvio Berlusconi nell’astrusa speranza di finire lui al Quirinale, cosa che Salvini e Meloni cercano di fargli credere per fargli poi “marameo” all’ultimo momento. L’ipotesi si scontra con le rigidità del regolamento, cioè che nel 2023 ci saranno le elezioni, per cui si teorizza un Mario Draghi capo del governo anche dopo che si sarà votato, un piccolo azzardo. Si potrebbe però – come ha già chiesto in un editoriale il primo giornale italiano – evitare la seccatura delle votazioni, tenersi Mario Draghi a vita perché votare è ormai inutile e démodé.

Draghi al Manchester United. L’arrivo di Cristiano Ronaldo ha velocizzato la manovra della squadra inglese, ma il talento portoghese ha ormai una certa età e la dirigenza si sta guardando intorno per potenziare la rosa in prospettiva futura. Di Mario Draghi piace il dribbling e la visione di gioco, ma soprattutto il fatto che – come avviene nel campionato italiano – nessun arbitro si sognerebbe mai di fischiargli contro, ha tutta la grande stampa dalla sua parte e gli altri giocatori gli ubbidiscono ciecamente.

Draghi a X-Factor. Rilanciare un programma che ha avuto enorme successo, si sa, non è mai facile e i piccoli aggiustamenti spesso non bastano. Serve dunque una rivoluzione del format, con una giuria più verticistica e autorevole. Chi meglio di Mario Draghi potrebbe giudicare i concorrenti in gara? Pare già di vederlo davanti al cantante che propone di andare in pensione a 82 anni (“Per me è un sì”), o al cospetto del giovane artista che chiede il salario minimo (“Per me è un no”).

Draghi al Quirinale. E’ il sogno di molti. A chi ribatte che poi sarebbe un problema trovare un Mariomonti tre-punto-zero per Palazzo Chigi si ribatte che, una volta arrivato Draghi al Colle, il ruolo del capo del governo sarebbe una questione poco più che decorativa. Con un piccolo strappo al regolamento, insomma, si potrebbe avere un Mario Draghi al Quirinale che nomini Mario Draghi a Palazzo Chigi, nel qual caso avremmo spesso severi moniti di Draghi che ammonisce Draghi di non ricorrere troppo al voto di fiducia.

Draghi alle Olimpiadi. Qualcuno ricorda che tra pochissimo, nel 2024, si svolgeranno i Giochi Olimpici a Parigi e sarebbe folle rinunciare al fondamentale apporto che Mario Draghi ha dato ai successi italiani di Tokyo 2020. Si avanza dunque la sua candidatura in tutte le discipline, certi di un nuovo trionfo del medagliere azzurro.

gio
28
ott 21

A teatro! A teatro! Chi, come, dove, quando e perché (che non lo so)

Il 20 novembre almontabbano date Teatrodante Carlo Monni di Campi Bisenzio (Firenze) va in scena uno spettacolo teatrale (ma sì, diciamolo, è una commedia!) tratto da un mio vecchio racconto pubblicato nel 2011 (in Piovono Pietre, cronache marziane da un paese assurdo, Laterza Editore). Non ve la farò lunga con la retorica del teatro, su quanto è bello mettere in scena una cosa scritta, trasformare in pièce un racconto, eccetera eccetera. Però vi assicuro che è bello forte. Il titolo è Montabbano sono! (spoiler, il commissario Montalbano non c’entra) e la storia è questa, che un giorno mi suona il telefono (o era la mail?) e una signora gentile anche se molto toscana mi chiede se non ho per caso qualche idea per il teatro, e io le dico, in che senso, scusi? Poi la signora si è rivelata essere Ilaria Morandi, della compagnia teatrale I Pinguini, di Firenze, quindi non era uno scherzo, cioè, in qualche modo sì, ma insomma, che razza di scherzo.

Poi Luca Palli mi ha sottoposto una bozza di adattamento e io ho detto, beh, niente male, se bisogna adattare adattiamo, e così abbiamo lavorato un po’ insieme, finché una sera ci siamo visti a cena, con Luca, Ilaria e altri matti come loro, e ne abbiamo parlato ancora, finché, alla fine, è venuta fuori questa commedia, che spero faccia un po’ ridere e dica anche qualche cosa su di noi e sul conformismo generale, ma anche sui libri, gli occhiali da sole e i motivi per cui ogni tanto ci capita di sghignazzare. E se non ci capite niente, da queste righe, vuol dire che le ho scritte bene. Insomma sabato 20 novembre tutta ‘sta roba si può vedere in un teatro stando comodamente seduti, e alla fine si può decidere se battere la mani o no, che anche questa, se ci pensate, è una bella libertà.

La regia è di Andrea Bruno Savelli, in scena ci sono Pietro Vené, Aldo Innocenti, Cristina Bacci, Simone Petri, Bettina Bracciali, Paolo Gualtierotti, Ilaria Morandi e Sergio Forconi. La produzione è dei Pinguini Theater in collaborazione con la Fondazione Accademia dei Perseveranti. Lo spettacolo è sabato 20 novembre (alle 21) e domenica 21 (alle 16.30), il posto è Campi Bisenzio. Ho finito, vostro onore.

 

 

 

 

mer
27
ott 21

Pensioni, la solita moda di usare i figli per picchiare i padri e i nonni

PIOVONOPIETREColpo di scena, tornano di moda i giovani. Non stupisce più di tanto, è una cosa che succede periodicamente quando si tratta di penalizzare i vecchi, e quindi si attua il facile barbatrucco di mettere generazioni contro generazioni, segnatamente quando si parla di pensioni e previdenza. Traduco: siccome le pensioni ci costano un bel po’ e data l’incapacità di chiedere qualche soldo ai nuovi ricchi (un milione e mezzo i neo-milionari italiani, cresciuti del 20 per cento durante l’età d’oro – per loro – del Covid), ecco che si indicano ai giovani i diritti dei vecchi additandoli come odiosi privilegi.

E’ un trucchetto antico come il mondo, che funziona sempre e che ha come unico effetto collaterale di rivelare la statura etica, morale e politica di chi lo conduce: poca cosa. Non mi addentrerò qui nel vortice attuale dei numeri e nel gorgo che si legge in giro: quota 102, no, 104, no Fornero forever, eccetera eccetera, e mi limiterò all’uso strumentale del giovane in quanto sfigato storico di riferimento, funzionale al dibattito, feticcio utile alla causa draghian-confindustriale. Un po’ occultati e nascosti sotto il tappeto (quando non se ne parla per dire che sono tutti scemi), i famosi giovani vengono buoni adesso per dire che loro probabilmente le pensioni non le vedranno, o le avranno sotto la soglia di una decente sussistenza. E si capisce: calcolandole col contributivo secco, e avendo fino alla mezza età lavori intermittenti e stipendi da fame, dall’Inps prenderanno due cipolle e un pomodoro. Da qui, dritta come una freccia, ecco la pressione sulle trattative per la previdenza di genitori e nonni: è colpa loro e della loro avidità se chi ha vent’anni oggi farà la fame domani. E giù interviste, pareri, interventi, per dire che il sistema è iniquo e penalizza le nuove generazioni (mentre i pensionati anziani, si sa, nuotano nell’oro). Naturalmente essendo le basse paghe e il precariato ad libitum a penalizzare eventuali pensioni dei giovani, bisognerebbe intervenire su quei punti: meno contratti fantasiosi, meno stages e tirocinii, più stipendi veri, magari un salario minimo che finisca per rasentare la decenza. Invece, su quel versante, niente, mentre si spinge sul pedale della guerra tra generazioni, mettendo figli contro padri, cioè i futuri poveracci contro i “privilegiati” che dopo aver lavorato una vita prendono (addirittura!) la pensione.

Il trucchetto ha il suo fascino, e a volte funziona. A pensarci, è quello su cui basa la sua propaganda anti-immigrati Matteo Salvini che tuona “prima gli italiani”, cioè invita i penultimi (gli italiani poveri) a odiare gli ultimi (i migranti). Altro caso di scuola, la narrazione renzista che portò all’abolizione dell’articolo 18. Siccome moltissimi non l’avevano, invece di darlo anche a loro si additò chi ne usufruiva come egoista e privilegiato. Anche allora i giornali erano pieni di giovani che dicevano: io, precario, l’articolo 18 non lo avrò mai, e allora perché deve averlo un metalmeccanico? Il meccanismo culturale che sovrintende il “ridisegno” del sistema pensionistico è esattamente lo stesso: lasciare una moltitudine senza diritti e poi – fase due – additare chi i diritti ancora ce li ha come un pescecane profittatore. Questo il desolante quadro del dibattito: trasferire la guerra ai piani bassi della società, mentre ai piani alti si stappa e si festeggia la ripresa “oltre le previsioni”. Siamo sempre lì: un Monti, un Renzi, un Draghi, la stessa sostanza di cui sono fatti gli interessi dei ricchi.

mer
20
ott 21

La politica pop. I leader sono come tormentoni. E gli elettori poi si stufano

PIOVONOPIETRESiccome Giorgia Meloni l’altra sera aveva la stessa faccia di Paul McCartney quando si sono sciolti i Beatles, tocca segnalare che dare alla politica una svolta pop comporta qualche rischio. Giorgia era – fino a una settimana fa – enormemente trendy, vezzeggiata, “brava” – e non c’era cronaca, anche critica con Fratelli d’Italia, che non le regalasse quel personale premio di consolazione: è una vera leader. Non so se subirà il contraccolpo della sconfitta (in genere succede), ma ecco che intanto Giorgia perde qualche posizione nella top ten del pop politico italiano. Aveva da poco scalzato il campione, il suo socio Salvini, che aveva avuto estati furenti, ogni dichiarazione un titolo, ogni titolo un rimbalzo nei sondaggi. Fino al crollo perché – semplicemente – aveva rotto le palle, non piaceva più, se lo trovavi alla radio cambiavi stazione, o canale in tivù, come certe canzoncine estive che ti piacciono in agosto, in spiaggia, e trovi ripugnanti in novembre. E’ il pop, bellezza, è quel meccanismo – almeno in politica – per cui qualcuno ha molta più visibilità e successo di quel che realmente raccoglie nel Paese. A un certo punto ci si accorge che il tizio, o la tizia “tirano”, e questo garantisce loro una specie di premio di maggioranza nella copertura mediatica e nei sondaggi. La storiografia delle hit-parade del pop politico registra casi analoghi, anche più drammatici, si pensi a Renzi, che oggi per trovarlo in classifica bisogna immergersi come palombari. Ma insomma: resta il fenomeno pop, in cui il gradimento politico si mischia alle copertine, alle mattane nei talk-show, alla comunicazione social, insomma un impasto di sussulti pre e post politici in cui la politica finisce per entrare poco.

I sondaggi seguono, in parte, o fotografano, questa logica. Quando era accreditato del 34 per cento – ancora un annetto fa – Salvini raccoglieva i frutti del suo primo posto nella classifica pop. Un sondaggio di popolarità, diciamo, la cosa non è sorprendente. Ciò che stupisce, invece, è che quel numero fosse preso per buono, e Salvini andasse in giro (e si comportasse, e venisse ascoltato, e intervistato, e esposto) dicendo di essere “il primo partito in Italia”. Così come oggi (cioè, l’altro ieri) Giorgia Meloni parlava di Fratelli d’Italia come della “prima forza politica del Paese”. I sondaggi, insomma, fanno l’agenda politica, dettano spazi e protagonisti, il che, con un Parlamento semidefunto che si limita a votare fiducie e a ratificare decreti, non stupisce.

Una volta trasformati i cittadini e gli elettori in pubblico dello spettacolino pop (ci sono anche band underground che ogni tanto spuntano e scompaiono, tipo Calenda), non ci si può stupire se hanno gusti volubili, se cambiano idea spesso, se si innamorano e disamorano in fretta. Oppure se decidono – i cittadini-spettatori – all’improvviso (mica tanto, il segnale c’è da tempo) che il teatrino non gli interessa, che la top ten degli ego non risolverà i loro problemi, che la noia ha preso il sopravvento.

Non saprei dire quanta importanza abbia, ora, rimproverare di questa situazione il sistema mediatico. E’ lì, dopotutto che si compiono le grandi “operazioni simpatia”, è lì che si creano i front-men, che si gettano i semi. Gli stessi media che facevano un titolo a nove colonne per un sospiro di Matteo (dei Mattei), o per una canzoncina su Giorgia, registreranno ora un calo in classifica degli ultimi beniamini. Pazienza, arriverà qualcun altro, è il pop, bellezza, e tu non puoi farci niente.

mer
13
ott 21

Gli storici in tv. Dopo la scorpacciata di virologi, magari ci spiegano il fascismo

PIOVONOPIETRECoi virologi abbiamo dato, e se cominciassimo con gli storici? Intendo: se in ogni telegiornale, talk show, siparietto divertente, angolo delle interviste, documentario e Carosello, invece di un esperto di pandemie ci mettessimo qualcuno che ha studiato seriamente il famoso Ventennio? Ok, abbiamo fatto per quasi due anni una straripante, strabordante, spannometrica, lezione di virus. In tram senti signore che parlano di memoria cellulare o di affinità e divergenze tra Astra Zeneca e noi, bene. Passiamo alla nostra storia, che ne dite? Ed ecco a voi il primario di Storia Contemporanea…

Se ci allontaniamo un po’, come prospettiva, dalla sede della Cgil di Roma (massima solidarietà) e vediamo le cose più ad ampio spettro, di lezioni di storia ne servirebbero un bel po’. Il discorso di Giorgia Meloni in Spagna, per esempio, ci rivela una folta platea sinceramente e devotamente franchista, dittatura molto amata dai fascisti nostrani della generazione Almirante, come anche i colonnelli greci (è gente che non si fa mancare niente, gli piaceva anche Pinochet). In Francia si litigano la palma di re della destra, in vista dell’Eliseo, madame Le Pen e monsieur Zemmour, come dire fascio e più fascio. Non va meglio nel resto d’Europa, sia a livello di governi (l’Ungheria di Orban e la Polonia che insegue), e non c’è paese che non abbia una formazione parafascista, fortemente nostalgica, a volte rappresentata alle elezioni; a volte dispersa in una galassia semiclandestina di gruppetti con la svastica tatuata su fronti “inutilmente spaziose”.

Se ne deduce che il “non conosco la matrice” (delle azioni squadriste di Roma, ndr) di Giorgia Meloni è un trucchetto ancor più patetico di “voglio vedere tutto il girato”. Quella matrice lì, con le croci celtiche, le svastiche, i boia chi molla e tutto il campionario, la riconosce anche un ripetente di seconda media, dunque quella della Meloni è una provocazione.

Detesto i paralleli storici, anche perché le cose non sono mai parallele, ma pensare che siamo nel 2021, cioè a un secolo esatto da fatti che somigliano a quelli di oggi, con gli arditi che attraversano indisturbati una città per andare a devastare la sede sindacale, beh, qualche brividino dovrebbe metterlo. Quindi uno storico ospite qui e là che ci dicesse come si arrivò a quella situazione, perché, come mai, quali furono le molle sociali, economiche, ideologiche, insomma, che ci faccia un ripassino, non sarebbe male. Magari che smonti il diffuso luogocomunismo fascista del “ha fatto anche cose buone”, o le agghiaccianti nostalgie repubblichine tanto in voga.  Magari ci spiegherebbe – il nostro ipotetico storico diffuso – che il vittimismo era parte consistente nella costruzione del primo fascismo, e non sarebbe difficile ritrovare quel tratto nella difesa dei gerarchi di FdI e della Lega e nei titoli dei giornali della destra. Passare per vittime, insomma, è un tratto distintivo, e la vulgata di destra di questi giorni lo conferma. Non si tratta di cercare analogie, che è un giochetto facile, ma di individuare – appunto – la “matrice”, che è un imprinting ideologico. Giorgia Meloni non sa, o forse ha capito dopo, di aver dato un titolo perfetto al dibattito, e forse non troppo conveniente per lei. Perché se si cercano gli arditi, eccolì lì, già noti alle cronache, i Fiore, i Castellino, facile. Ma se si cerca davvero la matrice, la struttura ideologica, il dna storico-culturale, beh, si scopre facilmente che quello è l’album di famiglia di Giorgia, che la matrice è nota.

mer
6
ott 21

Meloni e fascisti. Non può continuare a cavarsela con ridicoli calembour

PIOVONOPIETRECome anche ciechi e sordi hanno capito da tempo, Giorgia Meloni non ha nessuna intenzione di fare i conti con i cascami fascisti nel suo partito, che sono parecchi e ben radicati (d’altronde, basta guardare il simbolo per capire da dove viene, e con chi). Mi spiego, non quattro dirigenti mattacchioni – ogni tanto ne beccano uno vestito da nazista, o che saluta romanamente, o peggio – ma una vera cultura di base: la moderna FdI poggia su un irrequieto cimitero di labari e gagliardetti di cui finge ogni tanto di vergognarsi ma che non può seriamente combattere. Diciamo così: per ogni dirigente che racconta la barzelletta su Hitler ci sono dieci militanti che ridono e si danno di gomito, fingere di non vedere il problema fa parte del problema.

Ma siccome qui si parla di comunicazione e narrazioni, rimane interessante capire come fa la leader di FdI a sfiorare ancora una volta la domanda, parlare d’altro e, in definitiva, non rispondere. Insomma, scienza e tecnica della deviazione, ché tanto i media ci cascano (e infatti: ci cascano). Il classicone intramontabile di Giorgia è la data di nascita: è nata dopo il 25 aprile del’45 (un bel po’ dopo) e quindi bon, chiuso, il fascismo non la riguarda, roba vecchia, che palle, tipo i Beatles. Una visione interessante, una specie di vertigine storica da film di fantascienza, la mente che cancella, e tutto quello che esisteva prima di te non esiste. Purtroppo il dibattito politico è fatto così, una battutina e via, e dall’altra parte (i famosi media) nessuno che incalzi sul punto, che dica: “Bella battuta, ora però parliamo seriamente”.

L’ultima trovata per non rispondere alla famosa domanda è la strabiliante richiesta di “tutto il girato” di un’inchiesta audiovideo durata tre anni ad opera dei cronisti di Fanpage. Si tratta dello stesso procedimento retorico: rispondere con una battuta o una pretesa risibile, o con qualche trucchetto per cui dici e non dici, ammicchi, giochi la carta del vittimismo e insomma, alla domanda politica non rispondi, perché non puoi farlo. Un’elusione in piena regola con aspetti divertenti, perché quel che si lascia intendere è che vedendo le altre 99 ore e passa di “girato”, chissà a quali meraviglie avremmo assistito, che so, dirigenti di FdI che portano i fiori sulla tomba di Matteotti, che festeggiano il 25 aprile, o salvano migranti in mare, vai a sapere cosa ci nascondono! Insomma è un altro trucchetto retorico, buono per il bar, per il videomessaggio sui social e per i comunicati stampa, niente di nuovo sotto il cielo di Giorgia, che promette di “torchiare” i suoi, e a noi maligni viene in mente via Tasso.

Eppure la questione politica è enorme: FdI sta per strappare lo scettro della leadership della destra al povero Salvini, decisamente rintronato, e si candida (pur incassando una bella sberla alle amministrative) a guidare il Paese, dunque la questione dell’intima anima fascista del partito andrà affrontata con argomenti un po’ più solidi. Oggi la narrazione prevalente dice di una Meloni brava, uh che brava!, e di un partito inadeguato e senza classe dirigente. E’ una narrazione un po’ comoda e semplicistica, e oltretutto non tiene conto che un politico che vuole arrivare a palazzo Chigi non può cavarsela a lungo con piccoli calembours. Oppure è tutto più semplice e cristallino: alla domanda se FdI contenga una consistente componente fascista, se siamo ancora al fascino per le puttanate in orbace, la non-risposta di Giorgia Meloni è invece una perfetta risposta. Affermativa.

mer
29
set 21

Luca Morisi e la sindrome del vescovo beccato nel bordello

PIOVONOPIETRESe non si parla di politica, ma di Comédie Humaine, ci vorrebbe Balzac, per dire del caso Morisi e della Lega salviniana tutta. Una galleria di personaggi che avrebbe fatto la fortuna di un buon romanziere ottocentesco: il Rasputin dei social media, il costruttore in affari coi russi, la cascina nelle nebbie nata come enclave vip e “ora ci abitano un po’ tutti”, il capo che abbraccia e perdona, i ragazzi rumeni che se la cantano manco li avesse interrogati Philip Marlowe. E poi i commercialisti furbetti, i milioni spariti, la faccia truce del potere, un feuilleton in piena regola. Mi sembra che questo elemento, sovrastato dal clamore politico, sia passato un po’ in ombra, peccato. Anche perché, la figura di quello che predica in un modo e viene sorpreso a fare l’opposto – diciamo così, la sindrome del vescovo beccato nel bordello – ha un fascino eterno, inscalfibile. Da lì passa la lama che divide l’umorismo dalla satira, è lì che un incidente disvela il reale. E’ più di una faccenda politica, è un tratto letterario, è una caduta della maschera così clamorosa da diventare proverbiale, e quindi ci vorrebbero un Balzac, uno Zola, a dire la loro.

Oltretutto, mai personaggio potrebbe essere così trasparente: Morisi lo possiamo leggere parola per parola scarrellando all’indietro i social di Salvini per cinque lunghi anni, è come se un personaggio si presentasse sulla scena con il curriculum in mano, che passa dalle “risorse boldriniane” alla gastronomia popolare, dall’attacco sistematico ai più deboli, ai selfie con la figlia, al “non si usano i figli per la politica” al “no alla droga” anche (anzi, soprattutto) quando si parla di due canne. Tutto il repertorio, insomma, nero su bianco e con le fotine. Lo Zeigest morisian-salviniano è sempre stato chiaro, lampante. Il problema è che è invecchiato, non serve più. Che al momento l’ordine di scuderia è un altro: fare i responsabili incravattati al Mise, e procedere con la linea Draghi, nascondere un po’ di arditi sotto il tappeto, e sorridere alle telecamere, possibilmente senza salami in mano.

La narrazione di Salvini, tutta all’attacco, sprezzante, intimamente fascista, con il forte che picchia i deboli, aveva un’eco sistematica e costante, rimbalzava sui media ufficiali, faceva notizia, quindi suggerirei anche meno lacrime e sentimenti di facile umanità, perché Morisi non parlava solo sui social di Salvini, ma al paese intero, con tivù e giornali alla ricerca dell’ultima trovata che facesse titolo. Complice anche – segno dei tempi – una certa fascinazione tecnica, per cui di un propagandista che inquina i pozzi, avvelena le acque, sposta a destra il sentiment di un paese intero si può dire: “Però è bravo”. I numeri confermano: la Lega stava al 4 e quando è comparso lui è arrivata al 34. E anche gli avversari lo dicono come se fosse un merito e non una iattura, con un po’ di ammirazione che sottintende: avercene di Morisi!, con ciò confermando indirettamente l’attuale situazione etica della politica italiana.

Per portarsi avanti col lavoro, comunque, urge sapere se con Morisi finisce anche il morinismo, cosa non molto probabile, il Parlamento è sistematicamente sorpassato dai voti di fiducia, la barra è dritta, il sentiero tracciato, non resta, come prova di esistenza in vita per leader e capipopolo, che litigare sui social, inventare nuove formule e slogan. Ecco, un consiglio: nel caso si lanciasse una crociata contro i frutti tropicali, meglio evitare si farsi beccare in una cesta di ananassi

mar
28
set 21

De rage et de vent, due (belle) recensioni francesi

Come sapete (?) è uscito in Francia “Di rabbia e di vento”, sempre per le Editions de l’Aube, e sempre con la benedetta traduzione di Paolo Bellomo e di Agathe Lauriot dit Prévost (grazie, amici, come fate rimarrà per me un mistero). Qui due recensioni francesi, una di NYCTALOPES (qui) e l’altra di Le Litteraire.com (qui). Per leggere cliccare sulle immagini. Grazie grazie, merci

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mer
22
set 21

Italia alla rovescia. Il “Sussidistan” va bene solo se ingrassa le imprese

PIOVONOPIETREA giudicare da titoli e titoloni che i giornali hanno dedicato ieri e l’altro ieri alla vittoria in tribunale dei lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio, sembrerebbe di vivere nel paese dei Soviet. Di colpo, tutti accanto ai lavoratori licenziati, anche se il giorno prima, quando quelli (e altri) erano scesi in piazza sotto lo striscione “Insorgiamo”, avevamo letto al più qualche trafiletto, piccole fotonotizie, spigolature non più lunghe delle noterelle acchiappa-click tipo il cane che conta fino a sei e la gara di velocità per lumache. Insomma, alla buon’ora: una òla per il tribunale che dà ragione ai lavoratori (bene, benissimo), e quasi niente per le lotte degli stessi lavoratori, che minacciano un autunno caldo, e non si fa, signora mia.

Resta sul campo, la proposta di inventarsi qualcosa per rimediare all’incidente belluino delle grandi aziende che vengono qui, prendono soldi per insediarsi, incassano contributi pubblici, e poi decidono di andarsene dove i lavoratori costano meno, magari licenziando con un sms, le famose delocalizzazioni.

E qui – scusate la noia – scatta quello che potrebbe sembrare un dibattito culturale, il famoso “che fare”. Perché la proposta di penalizzare in qualche modo chi prende i soldi e scappa non piace per niente a Giorgetti (Lega), a Bonomi (Confindustria) e a Draghi (Draghi). Si era cominciato parlando di sanzioni abbastanza significative: una multa pari al due per cento del fatturato e la creazione di una black list, cioè niente contributi pubblici per qualche anno a chi ha fatto il furbo ed è finito nella lista. Apriti cielo. Da Confindustria hanno cominciato a metter mano ai fazzoletti, piangendo amare lacrime sulla “penalizzazione” delle aziende, e lo stesso ministro dello Sviluppo economico – descritto dalla stampa buontempona come il leghista che ci sta con la testa (la testa di Bonomi) – ha detto che così si scoraggia a investire in Italia. Cioè si scoraggia chi investe qui e scappa subito dopo, ma questo è un dettaglio. Insomma, la solita solfa, il chiagni e fotti che ben conosciamo.

Per fortuna ci sono le indiscrezioni dei giornali che ci illuminano su come la pensa Draghi (domani parlerà a Confindustria e forse sapremo), e cioè così: non bisogna punire i cattivi, ma premiare i buoni. Dunque, a quel che si è capito, limitare le sanzioni per chi scappa lasciando all’improvviso sul lastrico centinaia di famiglie, e dare invece incentivi a chi si comporta decentemente, cioè investe, assume, produce e guadagna. Risultato: un altro bonus per chi fa impresa, che prenderebbe così aiuti, incentivi, facilitazioni o sconti solo per il fatto di comportarsi come sarebbe giusto, normale e lecito.

Anche tendendo molto l’orecchio, a fronte di questa impostazione culturale (dare soldi a chi si comporta normalmente anziché toglierli ai manigoldi), non si colgono le grida dei liberisti, quelli contrari ai sussidi, allo Stato che mette il naso nell’economia privata, alla famigerata giungla normativa. Cioè: tutti contrari ai sussidi, a meno che i sussidi non arrivino alle imprese, nel qual caso niente da dire, anzi hurrà! Il famoso “Sussidistan” di cui parlò Bonomi riferendosi ai poveri aiutati dallo Stato, diventa di colpo una mano benedetta, un toccasana, qualcosa da applaudire con convinzione se invece va a premiare il famoso libero mercato, libero di allungare il cappello per il prossimo obolo – pardon, incentivo – che sarebbe tra l’altro l‘ultimo di una lunga, lunghissima serie per il capitalismo assistito d’Italia.

mer
15
set 21

Lavoro 2.0. Altro che salario minimo, sembra lo Spotify dello sfruttamento

PIOVONOPIETREIl reddito di cittadinanza è ormai un genere letterario, credo che dovrebbero istituire dei premi appositi. La prima cosa che si fa nei giornali quando c’è una notizia di reato (rapina in banca, furto con scasso, spaccio, sequestro di persona, furto di cavalli) è andare a controllare se il colpevole prende il reddito di cittadinanza, in modo da completare la facile equazione: delinquente uguale sussidiato. E’ solo la punta dell’iceberg, il resto è garrula narrazione diffusa: non hanno voglia di lavorare, meglio il divano, è diseducativo alla fatica (Renzi), è diseducativo alla fatica (Salvini, la ripetizione non è mia, ndr), eccetera eccetera. Come dicevo, un vero genere letterario. Lo dico subito a scanso di equivoci: chi prende il reddito di cittadinanza e non ne ha diritto va sanzionato, in primis perché magari lo toglie a chi ne ha più diritto e bisogno, e in secondo luogo perché ricorda le vecchie storie di quelli che congelano il cadavere della nonna per continuare a prendere la pensione (non è che per questo si chiede l’abolizione delle pensioni).

C’è però un altro genere letterario che meriterebbe attenzione, e che riguarda sempre il mondo del lavoro: quello delle offerte di impiego. Basta sfogliare uno dei tanti portali di annunci per assaggiare meravigliosi stralci di prosa italiana del XXI secolo, roba che dovrebbe entrare nelle antologie. Tipo il barista per dieci ore al giorno, ma ve ne pagano quattro, il banconista a due euro l’ora, la commessa “stagista con esperienza”, eccetera eccetera. Lettura ricca di colpi di scena, per cui ognuno potrà farsi la sua top ten dell’annuncio più spericolato. Il mio preferito – me l’ero segnato a suo tempo – era un’inserzione per banconista in un negozio di autoricambi a Messina: dieci ore al giorno per sei giorni alla settimana, più la mattina della domenica: totale 66 ore settimanali per 400 euro al mese (ve lo faccio io, il conto: fa 1 euro e cinquanta all’ora). Ma non voglio consigliarvi la mia playlist preferita, fatevi la vostra, tra baristi, commessi, addetti alle pulizie, eterni stagisti, avrete un campionario infinito, una specie di Spotify dello sfruttamento, un pozzo senza fondo. Trattandosi di annunci di lavoro, c’è sempre un riferimento, un contatto, un numero da chiamare o una mail a cui scrivere, e ci si chiede come mai, ogni tanto, non risponda l’ispettorato del lavoro: è lei che cerca un commesso a un euro e cinquanta l’ora? Venga con noi. Non sarebbero indagini difficili, ma non le fa nessuno, peccato (lo dico anche per i giornali, sarebbe una fonte inesauribile di spigolature divertenti).

Intanto, in Europa, ventuno paesi su ventisette hanno un salario minimo garantito. Traduco: se lavori non puoi prendere meno di una certa cifra. E sono, in certi casi, cifre da capogiro 1.555 euro mensili in Francia, 1.626 in Belgio, 1.685 in Olanda, per non dire del Lussemburgo, dove nessuno, per legge, può lavorare per meno di 2.202 euro mensili. Per chi vuole guardare oltreoceano, negli Stati Uniti siamo a 1.024 euro, niente male.

Qui no. Qui il salario minimo era in una bozza del famoso Recovery plan, che sciccheria, ma poi è sparito – puff! – quando il testo è arrivato in Parlamento. Mistero: chi sarà stato? Come mai? Come si dice in questi casi, le indagini sono ferme, si brancola nel buio, si seguono tutte le piste. C’è evidentemente un caso di sordità selettiva, perché un salario minimo, a ben vedere “ce lo chiede l’Europa”, ma da quell’orecchio, chissà perché, l’Italia non ci sente.

mer
8
set 21

La guerra ai poveri. Adesso passa dai frigoriferi e dalla birra (ben calda)

PIOVONOPIETRECi sono due cose che contengono l’apoteosi della tristezza: la pizza fredda e la birra calda. Sulla pizza fredda non si è ancora pronunciato nessuno (diamogli tempo), ma pare che la birra calda si affacci periodicamente come geniale soluzione al male supremo delle città, dove molti giovani passano le serate in piazza sorseggiando colpevolmente liquidi non a temperatura ambiente, il che sconcerta e crea pericolo. La triste questione della birra calda torna alla ribalta in quel girone dantesco che sono le elezioni comunali a Roma, e precisamente nel programma di Carlo Calenda per il III Municipio, con tanto di slide, in cui si parla (testuale) di “movida a basso costo”, deriva da combattere con tutti i mezzi. Uno dei quali sarebbe, appunto, staccare i frigoriferi ai minimarket che vendono bibite, anche alcoliche come la birra.

Diciamolo subito, anche per non fare di Calenda uno strabiliante innovatore: questa faccenda di incoraggiare la vendita di birra calda ha radici antiche. Se ne trova traccia su Il Tirreno già nell’anno di grazia 2016, quando il comune di Pisa vietò la vendita di bevande fredde, sempre per contrastare la movida (allora, nei titoli, era “selvaggia”, al classismo del “basso costo” non si era ancora arrivati). Venendo ai giorni nostri, una simile ordinanza è stata adottata questa estate dal comune di Voghera (sì, quello dell’assessore leghista alla sicurezza che ha ammazzato a pistolettate un immigrato): si fa divieto ai commercianti di detenere e conservare bevande alcoliche “di qualunque genere e gradazione a temperatura inferiore di quella ambiente abbassata mediante utilizzo di sistemi e/o apparecchi di refrigerazione e raffrescamento”.

Naturalmente a tutti piace sorseggiare un gustoso Moscow Mule ghiacciato ai tavolini delle belle piazze italiane, nei privé o nei locali esclusivi, ma la birretta al volo, magari (sacrilegio!) seduti sui gradini o sulle panchine è considerato poco commendevole e foriero di disordini. Insomma, un nuovo – ennesimo – capitolo della guerra ai poveri passa questa volta per i frigoriferi, diavolerie moderne che attentano alla quiete pubblica e consentono momenti di ristoro e rinfresco alle classi meno abbienti (gente che non sa soffrire, secondo la vulgata salvinian-renzista, diseducata alla consumazione come dio comanda). La questione della birra calda nelle piazze del III Municipio di Roma è stretta parente delle ordinanze fiorentine che vietano di mangiarsi un panino in strada, cosa che dovrebbe avere il duplice scopo di aumentare il fatturato delle trattorie e di scoraggiare i visitatori poco solventi, insomma di tenere alla larga i poveracci che rovinano il paesaggio. Trattasi di lotta di classe, ininterrottamente e ferocemente condotta contro le classi meno abbienti che – dai tempi di Dickens e anche da prima – non possono frequentare taverne costose, né accasarsi in alberghi con molte stelle, né ambire all’ingresso nei bar di lusso, dove la birra fredda resterebbe naturalmente disponibile. Forse dovremmo, a questo punto, cercare una metafora o una allegoria per dire del ridicolo, e anche della violenza, di un simile disegno. Ma non è il caso di sforzarsi, è già tutto abbastanza metaforico così, e sapete tutti che, una volta toccato il fondo, si può sempre cominciare a scavare. Forse si scoprirà che le scarpe “a basso costo” rovinano i selciati delle nostre piazze, e bisognerà correre ai ripari, anche con mezzi drastici – severi ma giusti – tipo l’amputazione dei piedi ai cittadini di basso reddito.

mer
1
set 21

Michele Emiliano. Un instancabile globe-trotter delle idee (degli altri)

PIOVONOPIETRESe la politica è la battaglia delle idee, porca miseria, prima o poi serviranno delle idee, ma siccome chi ha delle idee viene subito bollato come “ideologico”, allora è meglio non averle, le idee, e sedersi su quelle degli altri, che idee non ne hanno nemmeno loro, ma sembra che vincano.

Ed eccoci a Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, instancabile globetrotter delle idee degli altri. Ultima uscita, molto commentata, il suo elogio di Matteo Salvini, una specie di apologia di Socrate, con qualche piccola differenza: che Emiliano non è Platone, che Salvini non è Socrate e che ha mangiato e bevuto di tutto, ma non la cicuta (era mojito).

Mi rendo conto che l’argomento non è entusiasmante e che ci sarebbero mille cose più interessanti di cui parlare, dalla raccolta dei funghi al calciomercato, ma se la politica italiana offre questo, beh, tocca accontentarsi.

Dunque Emiliano.

Dice che “Salvini sta facendo un grande sforzo per delineare una visione di Paese” e che da quando c’è il governo Draghi non è più omofobo, non è più xenofobo, non è più antieuro, non è più antieuropeo, non sventola più madonne e rosari e insomma, non si sa quel che gli è capitato, ma nel volgere di pochi mesi è diventato quasi una brava persona, e magari non si chiama più nemmeno Salvini. Naturalmente Emiliano sta anche con Draghi, sta anche con Conte, starebbe con gli alieni, se sbarcassero in Puglia (“Sono molto avanti tecnologicamente”), oppure, alla bisogna, si gemellerebbe con qualche tribù antropofaga del Borneo (“Difendono le loro tradizioni”), o, se servisse, con i serpenti a sonagli (“La natura è meravigliosa”). Tra i pregi di Salvini secondo Emiliano ci sarebbe il fatto che ha lasciato la Meloni (eh?, ndr) e che ha fatto dimettere Durigon, che è un po’ come dire che i nazisti lasciarono Stalingrado perché non gli piaceva il clima. Insomma, Emiliano se la canta e se la suona, a volte con un indomito sprezzo del ridicolo, tipo dire che Fratelli d’Italia parla alla parte oscura dell’umanità, ma flirtare con il sindaco di Nardò che è un ex (?) di Casa Pound. In confronto a Emiliano, un arabesco è una linea retta. Ora, naturalmente, il problema non è il “governatore” della Puglia, per cui bisognerebbe inventare un “Emilianometro” che ne registri le oscillazioni in tempo reale, ma la cretinissima pervicacia con cui si abbraccia l’ultimo format in circolazione, l’ultima trovata, la più recente cazzata in commercio. Ancora si ride, per esempio, alle grida di giubilo provenienti dai draghisti militanti quando Salvini, nel suo discorso per la fiducia al governo, citò Parri. Urca cita Parri! E’ cambiato! E giù battimani per il nuovo Salvini (probabilmente pensava fosse una mezzala del Milan).

Ci perdoni dunque Emiliano se non consideriamo la sua svolta salviniana come una cosa seria in un posto (l’Italia) e in un tempo (gli ultimi vent’anni, più o meno) in cui di serio non c’è niente. In più, delle cose che dice ce n’è una vera, comunque, che lui “ha a cuore l’umanità”, e in effetti non c’è niente di più umano che pararsi le chiappe, tenersi buoni i futuri potenti, dire “io sono stato amico atté” quando sarà il momento. Il resto è vita, orecchiette, olio buonissimo, i tramonti meravigliosi del Salento e un’idea di politica che è stretta parente delle signorie medievali, quando uno stava un po’ col papa, un po’ con l’imperatore, un po’ col primo venuto, o con l’ultimo arrivato, purché ne venisse fuori, come da una spremuta, un qualche goccia di potere.

mar
31
ago 21

L’intelligenza artificiale and me (partita persa)

Oggi sul Il Fatto Quotidiano un mio raccontino, che forse non è un raccontino, ma insomma, eccolo (se cliccate, come per magia si ingrandisce)

FATTO310821 intelligenza artificiale

mer
25
ago 21

Nostalgia fascista, dentro al governo i tre casi che fanno gridare “allarmi!”

PIOVONOPIETREChissà se è vero che tre indizi fanno una prova, forse no, forse tre indizi fanno solo tre indizi, ma sono sempre parecchi, abbastanza da creare forti sospetti. Se poi i tre indizi hanno nomi e cognomi, e hanno tutti a che fare con il governo Draghi e le nostalgie fasciste, beh, qualche pensiero ti viene, non c’è niente da fare.

Primo nome: Mario Vattani, detto anche “Katanga”, fondatore di gruppi rock filonazisti come Intolleranza e SottoFasciaSemplice, uno che faceva il saluto romano ai concerti di Casa Pound (vi risparmio i testi perché, a leggerli, viene voglia di scappare in Svizzera vestito da tedesco e poi finire a piazzale Loreto). Dopo luminosa carriera (diplomatico figlio di diplomatico, in un paese ereditario come il nostro non è una novità), ecco ora “Katanga” ambasciatore della Repubblica Italiana a Singapore, nominato alla fine di aprile 2021 nonostante qualche flebile protesta.

Secondo nome, più noto alle cronache di questi mesi: Claudio Durigon, sottosegretario leghista del governo Draghi al ministero dell’economia. E’ quello che ha avuto la luminosa idea di proporre che un parco, a Latina, tolga la targa che lo dedica a Falcone e Borsellino e ne metta una in onore di Arnaldo Mussolini, fratellino del più noto puzzone littorio. Nonostante sulle dimissioni di Durigon ci sia forte dibattito (e forse, si vedrà, una mozione di sfiducia), il capo del governo Mario Draghi non ha detto una parola in proposito. Un silenzio davvero inquietante. E anzi, incontrando l’altroieri Salvini “per fare il punto sull’attività del governo”, non ne ha parlato nemmeno per mezzo secondo. Salvini fa sapere che Durigon è vivo e lotta insieme a lui, anzi, sta studiando la riforma delle pensioni. Andiamo bene.

Il terzo nome, meno noto, è quello di Andrea De Pasquale, nominato dal ministro Franceschini alla direzione dell’Archivio Centrale dello Stato (ne ha parlato ieri Tomaso Montanari su questo giornale). Uno che, quando dirigeva la Biblioteca Nazionale, acquisì il fondo archivistico personale di Pino Rauti, il fondatore del gruppo fascista (e stragista, come da sentenze sulle stragi di Brescia e di piazza Fontana) Ordine Nuovo, che in un comunicato pubblicato sul sito istituzionale veniva addirittura definito “statista”. Ora che (mah) si decide per la desecretazione di molte carte relative agli anni delle stragi, la nomina non sembra delle più felici, tipo mettere la volpe a guardia del pollaio. A nulla sono servite le proteste delle associazioni dei famigliari di vittime delle stragi fasciste italiane: Franceschini ha difeso la sua scelta, e da Draghi nemmeno un verbo, una parola, un sorrisino sardonico dei suoi. Silenzio granitico.

Insomma, tre casi, tre indizi, e altrettanti silenzi del premier, circonfuso da quel consenso obbligatorio che conosciamo, ma inspiegabilmente muto su tre episodi che portano nel suo governo – ciascuno a suo modo – un’ombra in orbace che confligge manifestamente con la Costituzione antifascista.

Ora aspettiamo le intemerate dei pipicchiotti candidati sindaco di Roma che ci accusano di “vedere fascisti dappertutto”, oppure dei “moderati” di Fratelli d’Italia che passano il tempo a derubricare passi dell’oca e cretini in divisa da nazista a “ragazzate”. Ma, spiace, i fatti restano questi: importanti cariche pubbliche affidate a funzionari che di antifascista hanno davvero pochino e anzi, almeno in un caso, hanno fieramente militato tra gruppi e gruppetti che meriterebbero – da leggi e Costutuzione – lo scioglimento.

mer
18
ago 21

I cantori dell’Afghanistan adesso vanno confinati nel disprezzo eterno

PIOVONOPIETREEro tentato di scrivere al direttore per chiedergli – invece dello spazio di questa rubrichina – una pagina, o due, o tre, per elencare tutti gli insulti ricevuti negli anni da quelli, come me e molti altri, che alla guerra in Afghanistan (e in Iraq) sono sempre stati contrari. Utopisti, imbelli, amici dei talebani (qualche imbecille col botto lo ha detto anche ieri), comprese insolenze di stampo fascista (malpancisti, panciafichisti), più analisi geopolitiche dei puffi, più rapporti amorosi (ed economici) con la Cia e il Pentagono, più le accuse di tradimento dell’Occidente. Insomma, mi limito a questa minuscola sintesi delle infamie ricevute per vent’anni. Anche ieri, su Repubblica, Francesco Merlo ci ricordava che “il pacifismo assoluto è un’utopia infantile e qualche volta pericolosa”, ed ecco sistemato anche Gino Strada (ciao, Gino).

Siamo abituati agli insulti, anche se alcuni – recentissimi, di ieri – suonano davvero intollerabili (ah, sei contento che gli americani si ritirano! E le donne? E i bambini? Sei come i talebani!), argomenti di poveri disperati che preferiscono fare la figura dei coglioni piuttosto che ammettere un errore politico durato due decenni.

Paradossalmente, la vergogna non riguarda solo una guerra criminale e sbagliata, ma anche il suo grottesco epilogo. Speravano, tutti gli “armiamoci e partite”, che l’esercito del governo fantoccio resistesse almeno tre mesi. Cioè: fatevi sbudellare per permetterci di scappare con più agio. La risposta – comprensibile – è stata “col cazzo”, e mentre i militari da noi così efficacemente addestrati (ahah, ndr) si arrendevano, i loro capi, da noi così generosamente coperti di soldi, scappavano oltre confine, e chi s’è visto s’è visto.

Avendo letto qualche libro di storia, avevamo imparato che chi perde una guerra viene sostituito, cacciato, sommerso dal disprezzo, insomma, il famoso “vae victis”, guai ai vinti. E invece no. Perché i cantori della guerra persa non hanno perso per niente. Ne escono vittoriosi, più ricchi e più grassi – insieme ai feroci talebani – anche tutti gli apparati militari occidentali, che per vent’anni sono stati ricoperti d’oro per sostenere il più grande affare del mondo: la guerra al terrorismo. Tremila miliardi di dollari, è costato tutto questo scempio di vite, per lo più intascati da contractors privati, produttori di bombe, lobbisti delle armi, consulenti strategici, Pentagono, servizi segreti. Con tremila miliardi di dollari, in vent’anni, si potevano consegnare ad ogni afghano centomila dollari in contanti, trasformando quel paese in una specie di Svizzera o Lussemburgo. Invece i soldi sono passati da una tasca all’altra degli invasori – una partita di giro – e per gli afghani bombe e terrore. I “signori della guerra” (cfr, Bob Dylan, 1963) siedono a Washington e nelle cancellerie occidentali, nei giornali che hanno insultato per vent’anni (e continuano tutt’ora) i pacifisti, nelle lobby degli armamenti, tra tutti i parlamentari che per vent’anni hanno finanziato e rifinanziato le missioni armate all’estero chiamandole “missioni di pace” e “umanitarie”, e si è visto. Non si farà fatica a ricordare nomi e cognomi, da Bush a Blair giù giù fino ai pensosi corsivi di oggi che ci spiegano, in clamorosa malafede, che la guerra era giusta, peccato per come è finita. Ecco, segnarsi i nomi, almeno quello, in modo da non votarli mai più, non leggerli mai più, da confinarli nel disprezzo eterno. Non sarà un risarcimento, ma almeno un piccolo esercizio di dignità personale.

mer
11
ago 21

Covid, il governo gioca a scaricabarile coi vaccini: “La colpa è dei cittadini”

PIOVONOPIETRETomo tomo, cacchio cacchio, come direbbe Totò, il senso di realtà si insinua nelle maglie della propaganda ed erode un po’ alcune delle certezze acquisite che si direbbero più o meno obbligatorie. Le ultime giravolte sul greenpass, per dirne una, rivelano alcuni problemi, detti tra le righe e furbescamente attribuiti – per comodità e per creare un nemico – solo alle destre più stupide. E’ un buon trucco, vecchio come il mondo: se sei critico sul greenpass e avanzi qualche dubbio sulla gestione della pandemia, eccoti subito arruolato in Casa Pound, o con Salvini, e giù giù nei bassifondi della politica. “Ecco, voti come i fascisti!”, ci dissero ai tempi del referendum renzista. Il meccanismo è identico.

Ma sia: i gestori di locali non dovranno chiedere i documenti, gli basterà vedere il greenpass (anche se è della zia). Lo ha detto chiaro, chiarissimo, il ministro dell’Interno, smentendo clamorosamente le istruzioni del governo. Non solo. Lamorgese ha detto anche che la polizia non passerà le sue giornate a controllare le pizzerie, perché – si capisce – ha altro da fare. Ci saranno “controlli a campione”, cioè degli agenti potranno entrare in un ristorante a caso e controllare i documenti degli avventori. Dunque si introduce un obbligo (che presenta oggettivamente qualche scricchiolìo costituzionale) ma lo si lascia di fatto alla responsabilità del singolo. Se funzionerà, bene, altrimenti si giocherà il gioco solito di colpevolizzare il cittadino, una cosa che funziona perfettamente da quasi due anni a questa parte.

Vedremo con il tempo se il greenpass sarà la nuova app Immuni, cioè un fallimento, oppure se porterà qualche vantaggio. Nel frattempo, mettere in discussione la gestione dell’emergenza pandemica in Italia sembra ancora un tabù, anche se le circonvoluzioni, gli arabeschi e i comma 22 si sprecano. Basta pensare all’odissea di Astra Zeneca, prima ai vecchi, poi a tutti, poi a tutti ma non alle donne incinte, poi a quelli coi baffi, poi no, solo ai biondi, poi di nuovo solo agli over-60. Insomma un circo, ma dirlo è sacrilegio e reato di leso-Draghi.

L’ultima gag è quella relativa agli studenti. Il generale Figliuolo si affanna a dire che il prossimo obiettivo sono i giovanissimi, cioè gente che – statistiche alla mano – non ha motivi di temere il virus, mentre rallenta la “caccia” agli ultracinquantenni – soggetti a rischio – che non si sono vaccinati. Riassumo: bisogna vaccinare i giovani per (motivo ossessivamente ripetuto) proteggere gli anziani, quattro milioni e mezzo dei quali non si sono vaccinati, e non si riesce a convincerli. Sui giornali, accanto alle prediche, si susseguono testimonianze e interviste, quasi tutte sul tenore “Mi vaccino perché non voglio infettare il nonno”, e nessuno che chieda mai perché il nonno – che è, lui sì, a rischio – non sia ancora vaccinato. Ancora una volta, insomma, si ribalta sulle persone la responsabilità e la soluzione del problema, mentre basterebbe una legge per imporre l’obbligo vaccinale per fasce d’età – subito tutti gli over 50, per esempio. Una responsabilità che il governo non vuole o non può prendersi, e così lo scaricabarile finisce sui cittadini: è colpa loro, punto e basta. In più, limitazioni e divieti nuovi non sembrano sostituire limitazioni e divieti vecchi. Esempio: se salgo su un treno dove è obbligatorio il greenpass devo supporre che quelli che stanno a bordo lo posseggano tutti, come me. Posso togliere la mascherina? No, eh? Che stranezza, però!

mer
4
ago 21

Sport e propaganda. La politica vuole sempre saltare sul podio coi campioni

PIOVONOPIETREHouston, abbiamo un problema. Cioè, come si sa, più d’uno, ma quello che è emerso nei giorni dei trionfi azzurri – calcio, atletica, coppe, medaglie – è così evidente che già è scattato il paradosso: abbiamo un problema con l’epica, la retorica, le parole per dirlo. Insomma, esageriamo un po’, ecco, niente di male, se non fosse che il linguaggio è abbastanza rivelatore, e quindi eccoci improvvisamente – a ondate – a cercare l’orgoglio nazionale dove si può e si riesce. Un oro nei cento metri piani è un vittoria pazzesca, così come un oro nel salto in alto: è comprensibile che siano medaglie che ci mettiamo un po’ tutti, e ci sentiamo migliori. Una gioia condivisa.

Lo dico subito: sfrondiamo la faccenda dalle cretinate politiche: che le medaglie e le coppe alzate dagli azzurri siano merito di questo o di quello, del nuovo rinascimento italiano (sic), di Draghi, del Paese che rialza la testa e altre amenità, fa parte di quella propaganda un po’ ridicola che percorre come un brivido dannunziano corsivi e commenti. La riscossa, la rinascita, grazie Draghi (ma quando si allena? Di notte?). Insomma, non è solo la risibile retorica dell’omaggio al capo (vinciamo perché c’è Lui) che si commenta da sé, ma proprio una difficoltà oggettiva di trovare parole misurate e credibili. Ecco invece il profluvio: dal glorioso manipolo, alla giornata storica, dai nostri gladiatori all’osanna che coinvolge tutto: vinciamo e quindi siamo un paese vincente – finalmente! Era ora! – equazione banalotta e facile, che sembra piacere a tutti.

Può darsi, naturalmente, che i successi sportivi facciano bene a chi comanda: si ricorda il mondiale argentino del 1978, quando una delle dittature più feroci del dopoguerra si costruì la sua vetrina, e questo senza bisogno di tornare alle Olimpiadi del ’36. Insomma, non voglio esagerare nemmeno io, ma che lo sport sia motore di propaganda non è certo cosa nuova, il tentativo di saltare sul podio insieme ai campioni per prendersi dei meriti senza aver sudato nemmeno cinque minuti è un classico di ogni tempo.

Resta il fatto: ciò che rimproveriamo alla vita politica e al dibattito pubblico, cioè di essere dominati dalle tifoserie, di essere orgogliosamente anti-oggettivi, si riflette perfettamente nelle cronache sportive. Il fallo di un nostro giocatore è un fallo, quello dell’avversario è un attentato terroristico che “voleva fare male”. Gli altri vincono, noi trionfiamo. Gli altri sono bravi atleti, i nostri sono mostri, giganti, immensi gladiatori, e via così, in un’ordalia verbale in cui si sprecano parabole belliche, retoriche nazionaliste, narrazioni trionfali dove l’epica è costruita lì per lì, a volte addirittura attribuita a poteri superiori e disegni celesti. Non siamo lontani, in certe cronache che debordano dalle pagine dello sport, dal vecchio “Dio è con noi”. Corre più forte, salta più in alto, para i rigori, una specie di popolo eletto per interposto atleta.

Così si corre il rischio, sfuggendo al coro unanime, di passare per rosicatori anti-italiani se ci si colloca in un ragionevole mezzo tra la gioia collettiva per la vittoria e la retorica sul riscatto nazionale: o si accetta tutto il pacchetto (vinciamo perché siamo un paese migliore, più unito, pronto finalmente alla ripartenza) oppure si finisce nel limbo dei disfattisti, equazione irricevibile per chi ancora riesce a vedere le dimensioni delle cose. Tipo: hurrà per le medaglie, evviva, ma scambiarle per riscossa etica, morale, politica, economica, sociale, non sarà un po’ troppo?

mer
28
lug 21

Green Pass, chi ha dubbi (fondati) passa subito per amico di Salvini

PIOVONOPIETRESe si prova ad ascoltare la gente, anziché gli arguti corsivisti del giornali – pardon del Giornale Quasi Unico che si vende, sempre meno, in Italia – si capirà senza troppo sforzo che le perplessità sul green pass obbligatorio sono articolate e numerose, non tutte campate per aria. Si può cogliere fior da fiore, naturalmente, in un esercizio che non finisce più. Si parla di green pass per i treni ad alta percorrenza (cioè quelli dove già si siede distanziati e ti regalano la mascherina) e non sui carri bestiame dei pendolari o sugli autobus in città all’ora di punta, per dirne una. O si può notare che né Germania né Gran Bretagna vaccinano i minorenni, se non in casi con patologie, mentre qui un tredicenne non vaccinato viene indicato come pericoloso terrorista che vuole ammazzare il nonno (che però dovrebbe essere vaccinato, no?). Insomma, in un dibattito libero condotto da cervelli liberi e non da tifoserie schierate a gridare “merda-merda” agli altri, gli argomenti sarebbero numerosi e la discussione persino interessante, con risvolti etici, giuridico-costituzionali, di opportunità, eccetera eccetera.

Si assiste invece al feroce giochetto delle criminalizzazioni, nascosto dietro la formuletta facile “no-vax”, per cui si attribuisce agli scettici (non tanto sui vaccini, ma sull’impianto generale del green pass) una specie di tendenza al nichilismo. Per dirla in parole povere, se provate a esprimere qualche perplessità (tipo quella per cui dovete avere il green pass per mangiare al ristorante, ma non per cucinare o servire ai tavoli) passate immediatamente nel mare magnum dei negazionisti, di quelli che temono il chip sottopelle, oppure dei ridicoli balilla di Forza Nuova o di Casa Pound, oppure siete amici di Salvini, e via discorrendo, in una specie di discesa negli inferi dei deficienti conclamati.

C’è dunque, diciamo così, un pensiero unico per induzione. Nessuno con la testa sulle spalle vuole essere assimilato al signor Castellino, il piccolo federale di Forza Nuova già condannato in primo grado per pestaggio, che in sprezzo a qualunque regola democratica guida i “rivoltosi” per le strade di Roma. Insomma, il dibattito è inquinato: chiunque abbia una posizione non perfettamente allineata diventa automaticamente imbecille (il G5 cinese nel sangue!) o ardito tatuato di svastiche.

La questione è molto complicata e nessuno la risolverà a breve, certo. Però viene da chiedersi (se lo chiede in Francia la sinistra, per esempio) come mai si preferisca un obbligo indotto (senza green pass le tue libertà sono limitate) a un obbligo vero, di legge. Ci sono già vaccini obbligatori, in Italia, punture che lo Stato garantisce e impone. Se si è convinti che il vaccino sia l’arma più efficace (io, per esempio, ne sono convinto) perché non imporlo? Perché lo Stato, che secondo l’articolo 32 della sua Costituzione deve garantire la salute dei cittadini, preferisce una delega di responsabilità anziché imporla? Si fosse cominciato subito con l’obbligo per gli over-60, poi per gli over-50, e così via, monitorando seriamente i numeri di ospedalizzazioni e decessi, si sarebbe fatto prima e più seriamente. Invece abbiamo centinaia di migliaia di ultasessantenni non vaccinati e grida di “vergogna-vergogna” verso i genitori dubbiosi di adolescenti. Fare lo Stato senza farlo davvero, insomma, perché colpevolizzare i cittadini pare meglio, più produttivo, che prendersi una reale responsabilità da Stato sovrano (ti vaccino e sono responsabile di quel che ti inietto).

mer
21
lug 21

Nell’attesa del boom di Bonomi, nutriamoci con bacche e radici

PIOVONOPIETREMannaggia, che disdetta, il boom economico non arriva. Eppure ce l’avevano promesso in tanti, e alcuni con lo sguardo ieratico del profeta. Tipo Carlo Bononi, il boss di Confindustria: “Credo ci siano le condizioni per un piccolo miracolo economico, ma neanche troppo piccolo”, ha detto il 7 giugno scorso a Manduria (titolo del convegno “Forum in masseria”, ahahah). L’equazione era semplice: licenziamo, così potremo assumere, che è un po’ come quando buttate la macchina nel burrone così poi potrete comprarne un’altra, salvo accorgervi, guardando la carcassa, che per la macchina nuova non avete i soldi.

Intanto impariamo la geografia sulle pagine economiche dei giornali: la Timken è a Brescia (106 licenziati), la Giannetti Ruote in Brianza (152), la Gkn a Campi Bisenzio (422), la Whirlpool a Napoli (327), e non passerà giorno senza che si aggiunga alla lista qualche ridente località. Se va avanti di questo passo il miracolo economico dovrà essere strepitoso.

Intanto ferve (?) la discussione sui “nuovi ammortizzatori sociali”, il che conferma la passione della classe dirigente del Paese per l’azione coordinata in due fasi. Funziona così: prima fase, stringete la cinghia, restate senza lavoro, restate senza reddito, stringete i denti perché poi arriverà la seconda fase fatta di ammortizzatori sociali e aiuti per tutti. Bello. Solo che la prima fase viene attuata senza problemi e per la seconda fase, ehm… vediamo… pensiamoci bene… aspettiamo un po’… bisogna mettere tutti d’accordo… Insomma, mai che venga in mente di fare quel che farebbe chiunque nella sua vita: prima predisporre dei sistemi di sicurezza e poi, nel caso, procedere. E’ come se si montasse la rete sotto il tendone del circo dopo che il trapezista è caduto.

A proposito di caduti, i morti sul lavoro nel 2020 (anno in cui si è lavorato meno causa pandemia, peraltro) sono stati 799 contro i 705 del 2019 (più 13 per cento). L’Inail, che viglia o dovrebbe sulla sicurezza di chi lavora, ha controllato l’anno scorso 7.486 imprese, una goccia nel mare, perché ha pochi ispettori. Di queste sono risultate irregolari (tenetevi forte) l’86,57 per cento, praticamente nove su dieci. Non male, dài!

In sostanza, mettendo insieme i dati, aggiungendo le cifre sull’aumento delle situazioni di forte disagio economico, e rincarando la dose con l’ininterrotto attacco dei soliti noti al reddito di cittadinanza, si ha come risultato che oggi in Italia c’è almeno una cosa che ha un discreto successo: la guerra ai poveri. Guerra non solo economica, ma anche fisica (le grate di protezione rimosse dai macchinari per non rallentare la produzione, i lavoratori in sciopero investiti dai camion…), perché c’è questa convinzione che morto un lavoratore ne arriva un altro, e pazienza. Ora che sul Paese (meglio, sulle aziende) pioveranno soldi, uno si aspetterebbe che vadano soltanto a chi è in regola con le norme sulla sicurezza, ma l’argomento non pare all’odine del giorno, non se ne parla, nessuno lo solleva, sacrilegio. Naturalmente siamo qui ad aspettare a pié fermo il “piccolo miracolo economico, nemmeno troppo piccolo” che ci hanno promesso in cambio di qualche centinaio di migliaia di sacrifici umani: famiglie senza più reddito che non sanno dove sbattere la testa ma si immolano per tutti noi, che presto brinderemo a champagne per il nuovo boom. Tutti, anche a sinistra, fanno finta di crederci, rapiti dell’ideologia dominante che se aiuti i ricchi mangeranno qualcosa anche i poveri. Non funziona, mannaggia, che disdetta!

mer
14
lug 21

I 442 licenziati della Gkn. Si guarda più alla forma che alla sostanza

PIOVONOPIETRECi sono, sui grandi giornali, 12-13 pagine di iper-retorica sul trionfo azzurro, la rinascita, la gioia, la festa, il rinascimento tricolore, il draghismo, il mattarellismo, il mancinismo, il donnarummismo, poi si arriva – col fiatone – ai 442 di Campi Bisenzio che il rinascimento italiano l’hanno ricevuto via email: licenziati. Tutti menano scandalo sul metodo: che modo sarebbe di mettere sul lastrico intere famiglie? Che poca eleganza, che cinismo! Insomma davanti a quasi cinquecento persone che perdono il lavoro, in un momento in cui trovarne un altro è assai difficile (e trovarlo alle stesse condizioni praticamente impossibile), si stigmatizza il metodo e non il merito: viene da pensare che se i lavoratori della Gkn fossero stati licenziati con una regolare raccomandata tutto sarebbe stato accettato più facilmente. Una questione di eleganza.

Poi, giù a leggere dichiarazioni ed esternazioni della politica, la stessa che due settimane fa ha votato per sbloccare i licenziamenti, perché se non si licenzia non si può ripartire, logico, no? Povero governo Draghi, intendeva permettere licenziamenti di massa, sì, ma secondo il galateo, e invece…

Naturalmente nessuno ci spiega esattamente cosa vuol dire per una famiglia con un reddito di 20-30.000 euro annui perdere quel reddito. Nessun cronista sarà presente alle cene in famiglia dove si decide di rimandare questa o quella spesa, di affrontare azioni normali (un paio di scarpe per i ragazzi, un cinema, una gita fuori porta e altre cose persino più essenziali) come sforzi indicibili. Nessun politico assisterà alla frenetica compulsazione dei volantini dei discount che permetteranno (forse) di risparmiare quindici euro sulla spesa settimanale. Sarebbe retorica, sarebbe giornalismo ad effetto, sarebbe parlare “alla pancia del Paese”, uh, che brutto! Populismo! Mentre invece infiocchettare di pagine e pagine la riscossa dell’Italia sul mondo per via di rigori ben tirati e ben parati è buona prassi, ma bisogna capirli: nessuno dei prodigiosi cantori del trionfo di Wembley ha problemi a mettere insieme il pranzo con la cena.

Tra i più grotteschi interpreti di questo scandalizzarsi per il modo e non per la sostanza, c’è l’ineffabile ministro Giorgetti, il leghista buono, il leghista che non bacia i salami. Testuale: “E’ inevitabile che queste cose accadano” (intende i licenziamenti che il suo governo ha sbloccato, che poteva rendere evitabili, per l’appunto). Ma poi, sventurato, aggiunge la sua perlina alla collana di paraculismo diffuso: “Però non possono succedere in questo modo”. Il dito, la luna. E infine, ecco la ciliegina: “Noi abbiamo in mente di fare il West, non il Far West”. Costruzione semantica stretta parente dei giochetti verbali del renzismo, parlandone da vivo, calembour, formulette buone per andare sui giornali, che non dicono niente, che non hanno dietro un pensiero, che servono a fregare i gonzi. Tutti i gonzi – come volevasi dimostrare – riportano la frasetta a effetto. Prudono le mani, più che altro.

Ancora più irritanti le reazioni della politica: “Inaccettabile”, dice il ministro del lavoro, che alla fine accetterà. “Se le cose stanno così bisogna rivedere lo sblocco dei licenziamenti”, dice il segretario del Pd. E come dovevano stare, le cose? Qualcuno lamenta che non abbia funzionato a Campi Bisenzio la “moral suasion” di governo e Confindustria: licenziate pure, ma con garbo. In modo che centinaia di famiglie possano precipitare nella povertà, ma con garbo, mi raccomando, sennò fa brutto.

mer
7
lug 21

Commedia umana. La politica in Italia, come chiedere a un lombrico di volare

PIOVONOPIETREConfesso di leggere le cronache politiche con la stessa attenzione e lo stesso trasporto emotivo con cui leggerei i risultati dell’hockey su prato. Con qualche eccezione, perché ci sono personaggi della comédie humaine che travalicano le pagine delle cronache del potere e diventano macchiette esilaranti, caricature. A volte le metafore sono così evidenti che chiamarle metafore diventa un’offesa: la motovedetta libica regalata ai libici dagli italiani che sperona e spara su migranti indifesi è una di quelle. E se la mettete accanto alla foto del Presidente del Consiglio che si congratula per lo spirito umanitario della guardia costiera libica, vi darà un’idea di dove siamo finiti: in un gorgo in cui la realtà non c’entra niente, quel che c’entra è il raccontino della realtà, ad uso e consumo di questo e di quello (cioè di questo, Draghi, oppure di quello, Draghi).

Dunque, scorro le pagine e guardo i Tg con l’aspettativa del paradosso che esplode, è il mio Helzapoppin’ quotidiano. Sommario su Repubblica: “Letta richiama Italia Viva alla coerenza”, che è come chiedere a un lombrico di volare. Seguono righe e righe e righe di analisi (questo ovunque) in cui si spiega e analizza che forse i renzisti non sono così di centrosinistra come qualche poveretto ha creduto per anni, e ora, che sorpresa!, brigherebbero insieme a Salvini per portare al Quirinale un Presidente della destra. Minchia, che intuizione.

E poi c’è la dietrologia, chiamata così perché “davantologia” fa brutto e bisogna far finta che per vedere la realtà si è scavato a fondo, mentre invece è lì sotto gli occhi di tutti. Che esista un asse ideologico tra i naufraghi di Italia Viva e le potenze della destra rampante e populista è conclamato da anni, ma lo si presenta come “colpo di scena”, “inaudita svolta”, “perbacco”, “ma guarda un po’”. Lo spettacolo d’arte varia di vedere arguti commentatori venir giù dal pero non ha prezzo.

Insomma, c’è da pensare che nei giornali non leggano i giornali, e allora perché diavolo dovremmo leggerli noi?

L’ultimo Tetris è quello del Quirinale, per cui si interpretano le astute mosse dei filo-sauditi di Italia Viva sul ddl Zan come una cosa che non c’entra niente con il ddl Zan, ma con il futuro presidente della Repubblica, sulla cui elezione cui i 45 di Italia Viva potrebbero fare l’ago della bilancia. Eletti col Pd, speranzosi di finire in doppia cifra (in effetti, a parte la virgola, 1,5 è doppia cifra), sempre in prima linea per tentare di far vincere la destra (Scalfarotto candidato in Puglia con l’appoggio della “bracciante” Bellanova, ah, che spettacolo!), vengono intervistati come fossero Cavour redivivo, e tutto questo senza scoppiare a ridere, che sarebbe a ben vedere la reazione più sana.

Naturalmente, ogni volta che Renzi fa il suo salto della quaglia c’è chi la prende alla larga e ci spiega con il ditino alzato che ogni compromesso è un compromesso al ribasso, e che bisogna piantarla di fare gli estremisti. Sono gli oliatori, i facilitatori, gente che dalla legge sul divorzio avrebbe tolto l’articolo uno, ma anche il due, il tre, il quattro e così via, perché sono “divisivi”. Se poi alzi gli occhi dalla prima pagina pensando “ma questi sono scemi”, ti predi dell’ideologico, che secondo loro è una parolaccia tranne quando sono ideologici loro, sempre al servizio occulto di baciatori di salami e di baciatori di pantofole (principesche e saudite). Il vecchio Cuore avrebbe titolato “Hanno la faccia come il culo”, oggi non si può, sarebbe “divisivo”.

mer
23
giu 21

Quale lavoro. Prepariamoci al cottimo, all’erosione dei diritti e ai licenziamenti

PIOVONOPIETRETra una settimana esatta, alla mezzanotte del 30 giugno, la dichiarazione di guerra (un’altra!) contro i lavoratori sarà consegnata nelle mani dei gruppi industriali italiani. Si tratta delle fine del blocco dei licenziamenti, che produrrà moltissimi nuovi poveri, privati del diritto fondamentale di cui parla l’articolo 1 della Costituzione. Le stime più ottimistiche (!) dicono di centinaia di migliaia di nuovi disoccupati – sono 56 mila soltanto quelli delle aziende che siedono ai 99 tavoli di crisi aperti al ministero – che salteranno come tappi il primo luglio. La vulgata confindustriale (appoggiata da tutta la destra, da Forza Italia a Italia Viva) è che bisogna licenziare per ripartire e assumere di nuovo, che è come dire che per bere un bicchier d’acqua è giusto prima morire di sete.

La realtà è molto più semplice: l’obiettivo è quello di ridisegnare le dinamiche del lavoro salariato in modo da espellere chi ha ancora vecchi diritti e vecchie garanzie e di assumere (semmai) con diritti e garanzie minori. In sostanza, una grande ristrutturazione del Lavoro a beneficio dei profitti. Traduco: chi lavora sarà più povero e meno protetto; chi fa profitti sarà più ricco e più tutelato. La riforma degli ammortizzatori sociali, tanto sbandierata, è una faccenda di chiacchiere stantie, il salario minimo è scomparso dai radar, e vagano nell’aria tante belle dichiarazioni d’intenti e progetti luminosi che finiranno, al solito, come lacrime nella pioggia.

Nel frattempo, un’indagine dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (2020) certifica che il 72 per cento delle aziende che operano nel settore della logistica presentano irregolarità. Delle famose cooperative che fanno da serbatoio di braccia (quelle che “somminstrano” il lavoro, tipo supposta, insomma), il 78 per cento è fuori legge. Settantotto per cento (lo ridico), cioè quasi otto su dieci. Domanda: quale cazzo di Stato arriva a permettere un’illegalità sul mercato del lavoro che raggiunge in certi segmenti (lo ridico) il settantotto per cento?

Il 5 può essere fisiologico, il 10 una disgrazia, il 15 un segnale inequivocabile che qualcosa non funziona. Ma per arrivare al 78 per cento significa che non stiamo parlando di un incidente o di un’anomalia, ma di una precisa volontà politica, granitica, coesa, un’intesa larghissima per cui negli ultimi vent’anni e pure di più, la guerra al mondo del lavoro è stata costante, precisa, agguerrita. In una parola: un’ideologia.

La trappola dialettica che “bisogna difendere il lavoro e non i lavoratori”, sbandierata spesso da chi freme dalla voglia di licenziare, significa alla fine che ciò che producevano in due lo produrrà uno solo, e l’altro cazzi suoi. Si riproporrà, insomma, su larga scala il cottimo e l’erosione dei diritti che vediamo oggi sui piazzali e sui camioncini della logistica.

Per vent’anni, ogni legge sul lavoro si è sovrapposta ad altre leggi sul lavoro, e poi deroghe, regali, decontribuzioni, incentivi, centinaia di contratti diversi, sempre, ad ogni passaggio, con un cedimento di posizione dei lavoratori.

Risultato: secondo la conferenza dei sindacati europei su dati Eurostat, oggi in Italia, il 12,2 della popolazione lavorativa è considerata “povera”, cioè pur lavorando resta sotto la soglia di povertà.

C’è poco da scomodare categorie storiche e apparati filosofici, la realtà è più forte delle chiacchiere: questo sistema di organizzare il lavoro in una grande democrazia che lo sbandiera come primo diritto non funziona e diventerà presto intollerabile.

mer
16
giu 21

Altre recensioni di Flora. Il Foglio e L’Arena di Verona

Qui altre due recensioni di Flora uscite in settimana: L’Arena di Verona (Mimmo Colombo) e il Foglio (Andrea Frateff-Gianni). Grazie grazie


    Arena VR 080621         IlFoglio 090621

mer
16
giu 21

Fannulloni? Finalmente un’alternativa ai sussidi “facili” c’è: nascere milionari

PIOVONOPIETREC’è un nuovo format giornalistico, o se preferite una immensa onnipresente rubrica, che si potrebbe intitolare: “Ricchi che danno consigli ai poveri”. Si direbbe un argomento di gran moda, almeno a giudicare dalla pletora di imprenditori, amministratori delegati, presidenti, possidenti, rentier, che si alzano alla mattina e decidono – a volte spontaneamente, a volte interrogati – di gettare perle di saggezza a ragazzi che rischiano di guadagnare seicento euro al mese per anni, e forse per sempre. E’ come se uno, scendendo dalla Porsche, ti sgridasse col ditino alzato perché hai la bicicletta sporca di fango. La tiritera scema per cui preferisci stare sul divano invece che lavorare allo stesso prezzo (o meno) è ormai diventata una narrazione-macchietta. Sono leggende marcite in fretta, come quella del rider felice, o del precarissimo che “mi piace perché ho tanto tempo libero”. Propaganda padronale.

Però, siccome le parole sono importanti, ci preme rilevare due perle di saggezza (e di linguaggio, che svela moltissimo) di un famoso imprenditore (e bravissimo, a detta di tutti) che – parole dal sen fuggite – parla davvero chiaro. Testo (e musica!) di Guido Barilla, presidente della Barilla in persona, che segue la corrente del pensiero unico imprenditoriale e poi, voilà, “Rivolgo un appello ai ragazzi”. Ecco, è il momento topico del discorso, l’accorato appello, il consiglio paterno, il Verbo: “Abbiate la forza di rinunciare ai sussidi facili e mettetevi in gioco. Entrate nel mercato del lavoro, c’è bisogno specialmente di voi”.

Vediamo se un po’ di analisi del testo ci aiuta. Come sono i sussidi? “Facili”, ovvio. Buttata lì, senza parere, si dà per scontato il fatto che ti regalano i soldi, è facile. Un presidente, figlio e nipote di presidenti, non perde nemmeno un nanosecondo per pensare che se arrivi lì, a chiedere un sussidio (facile) per mangiare o avere un tetto sulla testa, significa che c’è una difficoltà. No, “è facile”, bon, discorso chiuso.

Altra chicca: “mettetevi in gioco”, che è un po’ una frase alla Paperon dè Paperoni quando andò a cercare l’oro nel Klondike. Bello, eh, mettersi in gioco. Ai tempi de L’isola del tesoro significava imbarcarsi come mozzo su un brigantino, ottimo, molto romantico. Oppure significa: ehi, ho un milione, come lo investo? Capisco. Ma cosa ci sia da mettere in gioco nell’andare a fare turni assurdi per paghe ballerine, incerte, basse, a volte schifose e quasi sempre senza prospettive, non è dato sapere. Del resto, se le paghe fossero decenti (salario minimo, dove sei?) nessun imprenditore se la prenderebbe con i “facili sussudi”, cosa che invece accade se proponi come salario una cifra inferiore ai “facili sussidi”. Bene. Chi non “si mette in gioco” è dunque pigro, o pusillanime, o proprio una specie di fancazzista che vive alle nostre spalle, anche se manda decine di curricula e riceve in cambio offerte offensive. Questo sì, più che le avventure di Stevenson, è ottocentesco. E’ la vecchia storia della povertà come colpa, la disoccupazione come pigrizia, un sottinteso “guarda me che sono nato milionario, che ci vuole?”. E forse, letteratura per letteratura, si consigliano qui altre prose, quelle degli annunci per “mettersi in gioco”, la cui lettura spiega molto e indigna parecchio. Tipo “apprendista con tre anni di esperienza”, o “stagista con sei lauree”, o “part-time di 58 ore settimanali”, tutti ovviamente pagati tre ghiande e un bicchier d’acqua. Dài, andiamo, fidatevi, come non mettersi in gioco?

mer
9
giu 21

Lacrime da ministro. Dalla Fornero alla Bellanova: sono loro a far piangere

PIOVONOPIETREDelle poche cose che abbiamo capito della politica italiana, una è questa: quando vedi un ministro piangere, vuol dire che si mette male (non per il ministro, ovvio). Lacrime famose: quelle di Elsa Fornero (novembre 2011) mentre sforbiciava le pensioni e creava un esercito di esodati, e quelle di Teresa Bellanova (maggio 2020), che annunciava commossa la sua legge-sanatoria per far emergere lo sfruttamento schiavistico e combattere il caporalato nei campi, e non solo.

Commozione. Storia personale. Emozione: “Quelli che sono stati brutalmente sfruttati nelle campagne o anche nelle cosìffatte cooperative dove venivano date persone in prestito per lavorare nelle famiglie, come badanti o come colf, non saranno più invisibili…”. La chiosa era da proclama epocale: “Gli invisibili non saranno più invisibili”. Wow! Bingo!

A risentire quelle parole, a vedere quel video dove l’allora ministra si commuoveva, a leggere le cronache politiche che si commuovevano anche loro in omaggio alla ministra commossa, il bacio della pantofola alla ministra italovivaista così vicina agli sfruttati, bisogna dirlo, sale la carogna. La legge (era l’articolo 110 bis del cosìddetto decreto rilancio) fu preceduta da un intenso tam tam giornalistico, per cui l’allarme sociale era il rischio di non trovare arance e mandarini al supermercato perché “non si trovano raccoglitori”. Insomma, nemmeno gli schiavisti trovavano più schiavi, toccava correre ai ripari.

Bene, a vedere quelle cifre un anno dopo, tremano i polsi. Non solo dall’articolo si tennero fuori due settori ad altissimo tasso di irregolarità (logistica ed edilizia), ma delle 207 mila domande presentate, ad oggi, solo il 12 per cento sono state evase. Insomma, ci sono parecchi invisibili – quasi tutti, quasi il 90 per cento delle domande – che pur chiedendo, bolli e pratiche alla mano, di diventare visibili, stanno ancora lì. Le baracche delle piane degli agrumi stanno ancora lì. Gli irregolari che non riescono ad ottenere un permesso di soggiorno nonostante le code, i documenti, le richieste, le domande, stanno ancora lì. Le badanti ricattate stanno ancora lì. Il flop era annunciato: poche domande, 207 mila, data la difficolta di convincere chi usa manodopera illegale a farla emergere. Ora che è passato un anno e i termini per le domande sono scaduti, 180 mila invisibili di quei 207 mila che hanno fatto domanda per diventare visibili sono ancora invisibili.

Non solo. Ogni giorno emergono casi grandi e piccoli di “somministrazione” (sic) di lavoro illegale, di cooperative che fungono da serbatoio di braccia, di fornitori costretti dai committenti (anche di gran nome, come Dhl, come spiega l’inchiesta della procura di Milano) a evadere contributi e Iva oppure a morire, ma chissenefrega, me arriveranno altri. Il tutto mentre si ricamano trine e merletti sulla fine del blocco dei licenziamenti, perché Confindustria – dice – vuole assumere (con nuovi contratti) e per farlo deve licenziare (i vecchi contratti, più onerosi), e si diffonde sempre più rumoroso il tam tam ideologico contro il Reddito di Cittadinanza, che rende più difficile pagare un barista per dodici ore meno di 700 euro al mese (dove andremo a finire, non si trovano gli stagionali, eccetera, eccetera).

Date retta, quando vedete un ministro piangere, resistete alla commozione e all’empatia, di solito significa che tra poco piangerà qualcun altro, ma sul serio, e non ad uso di telecamera, ma in solitudine, in disperazione. E soprattutto, sempre invisibile.

mer
2
giu 21

Benedetto Salvini, non andare in giro a pregare per conto mio o a mio nome

PIOVONOPIETRESeguo con particolare interesse le avventure di don Matteo, inteso come Salvini, pellegrino in perenne trance mistica, che l’altro giorno, dal Portogallo, ha provveduto a pregare per gli italiani, tribù di cui, ahimè, faccio parte. Con un suo piccolo video twittato per le masse, voleva dirci che ha voluto immergersi nella serenità di quel posto (in realtà nel video si vede un immenso parcheggio deserto, tipo Ikea quando è chiusa), che pensa tanto a noi, e che ci affida alla Madonna di Fatima. Lui, i figli, la compagna, e poi tutti noi, compresi voi che leggete.

Recidivo. L’aveva già fatto con la Madonna di Medjugorje, e poi aveva sventolato il rosario affidandoci al Sacro Cuore di Maria, e poi ancora si era fatto ritrarre con immagini sacre, Madonne, croci, rosari, ed è forse per mia distrazione che non l’ho mai visto con un aspersorio, o vestito da vescovo, starò più attento.

Si dirà che Salvini non era lì, a Fatima, soltanto per immergersi nella serenità, ma anche per parlare con un tale André Ventura, che di mestiere fa il sovranista in Portogallo. Ma questi sono dettagli per feticisti della politica, mentre quello che rimbalza sui media con più tenacia è l’ennesima testimonianza di fede sincera nell’uso strumentale della fede.

Naturalmente (credo che andrò da un notaio, o da un avvocato), diffido chiunque ad “affidarmi” a qualunque tipo di culto o divinità, mi affido da solo, grazie, e se devo scegliere qualcosa di mistico me lo scelgo da me. Quindi pregherei Salvini di non andare di qui e di là a pregare per conto mio, o a mio nome, o anche solo per procurarmi un qualche vantaggio.

Non voglio indagare su come e quando Salvini sia caduto preda delle sue crisi mistiche, ma risulta piuttosto evidente che il fervore della nostra Giovanna d’Arco dei salami sia una ormai conclamata ed evidente mossa politica. Identità, no immigrazione, che significa no Islam, un po’ di Vandea, molto tradizionalismo da osteria, tutte cose abbastanza evidenti, che fanno della devozione salviniana una specie di foglia di fico trasparente. Brutto spettacolo.

Ma venendo alla sostanza, sarebbe interessante sapere quanti consensi è in grado di spostare questa narrazione da chierichetto. Cioè: davvero Salvini pensa che presentarsi col rosario gli aumenti i consensi? Fare il testimonial è una cosa seria, che necessita alcune accortezze. Per esempio suona stonato che prenda un aereo e vada ad affidarci tutti quanti a questa o quella Madonna in giro per l’Europa, se poi la sua foto più famosa è quella in cui sbircia il decolté di una cubista, ebbro di mojito e pieni poteri. E non si parla qui di moralismi o di facili perbenismi, ma proprio di marketing e posizionamenti. L’iperesposizione di Salvini – con il solito suicidio assistito dell’apparire “simpatico” – lo ha reso una macchietta, popolare, sì, ma sempre una caricatura. Motivo per cui ogni volta che compare, con o senza rosario, con o senza video, con o senza alimenti a portata di mano, la prima reazione è l’ilarità. Anche per questo motivo, la destra meloniana guadagna terreno e punta alla leadership della destra. Non che dalle parti di Giorgia manchi la propaganda banalotta dell’identità nostalgica e balilla, ma lei è abbastanza abile da tenerla (per ora?) sottotraccia. Insomma, il fatto che non la vedremo baciare salami basta a molti, a destra, per farne un leader più credibile di don Matteo, da Fatima, o da Medjugorje o da dove altro gli capiterà di affidarci – senza che nessuno glielo abbia chiesto – alle cure di qualche santo.

lun
31
mag 21

Flora, l’intervista di Piergiorgio Pulixi su La Nuova Sardegna

Qui la bella intervista di Piergiorgio Pulixi su La Nuova Sardegna

NuovaSardegna300521

mer
26
mag 21

La tassa per i giovani. Letta ha fatto un autogol mentre batteva il rigore

PIOVONOPIETRENon è mica facile fare un autogol battendo un rigore, però a giudicare dalle reazioni, gli sberleffi, i “no, grazie” che ha raccolto Enrico Letta con la sua proposta sulla tassa di successione da girare ai diciottenni, sembra esserci riuscito. Lo dico a mo’ di premessa solenne: tassare le eredità e le donazioni ai figli sopra i cinque milioni di euro non solo è un’idea giusta e benemerita, ma ci porterebbe un po’ più vicino alla famosa Europa di cui si chiacchiera tanto. La tassa di successione, per quelle cifre, in Germania è del 30 per cento, in Spagna del 34, in Gran Bretagna del 40 e in Francia del 45 per cento. Qui da noi, nel Paese ereditario, è del 4 per cento.

Dunque, l’aumento dal 4 al 20 proposto da Letta (solo per ciò che eccede i 5 milioni di euro) sarebbe ancora un brodino rispetto ad altri paesi nostri vicini che non sono né Cuba né la Corea del Nord, ma posti con solide radici liberali.

E allora, si dirà, dove sta l’autogol? Mah, forse nel comunicare una operazione di giustizia fiscale in un’intervista molto pop, con foto sbarazzine (uff!), oppure nel non averne parlato prima con nessuno, in modo da dare a Draghi l’occasione di tirare una sberla con quel “Non è il momento” che ha gelato tutti. Insomma, nel mondo fatato che mi immaginerei io, una proposta di redistribuzione di ricchezza, dai più ricchi ai più stritolati, la si fa un po’ meglio, magari lanciando un dibattito pubblico, denunciando le distanze dall’Europa, confrontando cifre. E invece, così presentata, la proposta Letta ha scatenato l’ovvio: basta tasse! Non è il momento! Bolscevichi! Attentato alla proprietà privata!, e tutte le cretinate che i finti liberali di Pavlov amano pronunciare quando si chiedono soldi a chi ne ha moltissimi. Impeccabile sintesi: siamo un Paese dove quando proponi di tassare i ricchi si incazzano anche i poveri.

Però, pochi sono andati oltre l’aspetto “prendere” della proposta e pochissimi hanno guardato al “dare”. I beneficiari del ridisegno (ripeto: sacrosanto) sarebbero più o meno la metà dei diciottenni italiani (per modulo Isee), che incasserebbero 10.000 euro di bonus.

Ed ecco la parola magica: bonus. Tutto pare risolvibile con il portentoso medicamento del bonus, tanto per dire che di diritti stabili, a lungo termine, inseriti nella dinamica sociale (tu lavori, io ti pago decentemente, hai diritto a casa, studio, salute, eccetera) non se ne parla nemmeno.

Ecco un bonus, vada buon uomo.

Il tutto – se si pensa ai diciottenni, povere bestie – in un paese dove le tasse universitarie sono tra le più alte d’Europa (aumentate anche con le Università chiuse), e per le borse di studio siamo alle ultime posizioni. Un Bonus di 10.000 euro per andare a vivere da soli è una bellissima cosa, grazie, ma a chi finisce, poi, quindi? A chi affitta stanze singole a 5-600 euro al mese come accade nella ridente città di Milano e in generale nelle sedi universitarie? Non si potrebbe, invece di un bonus, avere salari decenti, non subire anni di precariato, non accettare più stage e altre forme di sfruttamento fantasiosamente travestite? Certo, sarebbe meglio, ma servirebbe più radicalità, una politica capace di coinvolgere i cittadini, servirebbe insomma tornare a fare un discorso di classe, cosa molto demodée, che oggi nessuno sembra intenzionato a fare. Insomma tra il bonus oggi e la gallina domani si propone il bonus, perché con la gallina (una società dove non si diventi adulti a quarant’anni e dove non ci siano lavoratori poveri) sembra di chiedere troppo.

mer
19
mag 21

Tormentone estivo. Gli imprenditori si lamentano per l’assenza di lavapiatti

PIOVONOPIETREPiano piano, torna la normalità, il mondo si riaffaccia dalla nebbia fitta, torna un po’ di luce, e si ricomincia a pensare ad altro. E’ per questo che mi faccio vanto, modestamente, di anticiparvi un tema che resterà sul girarrosto delle notizie (e commenti, corsivi, analisi, espressioni scandalizzate, signora mia dove andremo a finire) per parecchie settimane, forse mesi. E cioè i lamenti, i lai, le accuse, le perorazioni e i sermoni degli imprenditori italiani che “non trovano dipendenti”.

E’ un classico dell’estate, come il calippo e le canzoni brutte, ma insomma preparatevi, perché verrete sommersi da storie tristi tipo il barista che cerca un garzone, ma quello niente, sta al mare a farsi le canne grazie al reddito di cittadinanza e col cazzo (monsieur!) che va a lavare le tazzine alle sei del mattino. Siccome eravamo abituati al fiorire di queste notizie in un nugolo di piccole storie tristi, bisogna anche dire che la trama è sempre la stessa, banale e prevedibile. Scena uno: l’imprenditore lamenta (sul giornale locale, o alla radio, o nel servizio tivù) che da settimane cerca un dipendente, ma non si presenta nessuno. Scena due: si scopre che l’annuncio era stato messo su Facebook, quindi girava in cerchie strettissime, oppure che si offrivano condizioni che l’Alabama dell’Ottocento sembra Hollywood, al confronto. Terzo atto della commedia, la tirata indignata su: a) i giovani che non hanno voglia di lavorare; b) gli danno settecento euro per stare sul divano (sottotesto: io gliene darei meno per farsi un culo a capanna); c) Ai miei tempi… (riempire a piacere).

Dov’è la novità, direte voi. Ecco. La novità è che a fare il coro greco sullo stagionale che non si trova, questa volta non è stato il barista Pinco o l’associazione albergatori di Qui o di Là, ma un presidente di Regione, per la precisione Vincenzo De Luca, che ha saltato i primi due atti della pièce ed è passato subito al terzo: i lavoratori stagionali mancano per colpa del Reddito di Cittadinanza, che tanti lutti e tante privazioni ha causato agli imprenditori italiani. Traduco: il reddito di cittadinanza impedisce di fare dumping sui salari, che è quel meccanismo per cui se un lavoro vale dieci cercherò di dartene otto, e se arriva uno più disperato di te a lui ne darò sei, finché mi arriva il disperato che magari ha figli, e allora a lui ne darò due (John Steimbeck, Furore, 1939).

Non è tutto qui, certo. La situazione di incertezza dovuta all’anno e mezzo da cui usciamo complica le cose. Infatti, c’è chi riesce ad aggrapparsi a welfare, ristori e sostegni, e li perderebbe volentieri per lavorare, ma che succede se tutto richiude all’improvviso? Finirebbe per perdere sia reddito che sostegni, e quindi si capisce la prudenza.

Aggiungerei un dettaglio che non è per niente un dettaglio: dal Piano nazionale di ripresa e resilienza eccetera eccetera è sparito – puff – ogni riferimento al salario minimo legale per i lavoratori. Ce lo chiede l’Europa (una direttiva Ue che la commissione Lavoro del Senato ha accolto e votato a metà marzo), ma nel piano che abbiamo spedito all’Europa non c’è. Era previsto ma non c’è. Chissà, forse adesso che cominciano i lavori stagionali sarebbe servito. Eppure, la narrazione non cambierà: tra chi offre poco per orari assurdi, chi si scorda di fare leggi che tutelino i lavoratori, e i poveri che “stanno sul divano” è più facile prendersela con questi ultimi, e – ovvio – con l’unica legge che rende più difficile pagarli due cipolle e un peperone.

dom
16
mag 21

Flora, l’intervista di Bruna Miorelli per Sabato Libri di Radio Popolare

Qui la bella intervista di Bruna Miorelli a Radio Popolare. Grazie grazie

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mer
12
mag 21

Le autobiografie dei politici. Strategie per ripulirsi e rimuovere i lati oscuri

PIOVONOPIETRENon c’è concime migliore per l’ego dell’autobiografia del leader politico scritta in giovane età, che sarebbe il non plus ultra dell’autopromozione, un monumento a cavallo autocostruito un po’ per celebrazione di sé e un po’ impalcatura per la costruzione di glorie future. In più, ghiotta occasione di riposizionamento, il cui messaggio è: “Ecco come sono veramente”. Davvero bizzarro: gente che ha una vita pubblica piuttosto frenetica, che vive di dichiarazioni, interviste e ospitate in tivù, delle cui idee, posizioni, esternazioni sappiamo tutto, sente il bisogno di raccontarsi per “come è” invece di “come sembra”.

Ora è il momento editoriale di Giorgia Meloni, gratificata di interviste promozionali, soffietti adoranti e domande compiacenti, insomma per il tradizionale bacio della pantofola. Così sappiamo che Giorgia ha avuto problemi col padre, che da piccola era molto chiusa, che la sua grande paura atavica, il suo fantasma, è stato per anni il timore di annegare; brutto fantasma, non male per una che chiedeva di sparare sui barconi degli immigrati facendo annegare altri, ma pazienza.

Allo stesso modo, le sezioni missine diventano, nella ricostruzione riveduta e corretta, ameni e romantici luoghi di svago e di cultura, e nessuno si sogna di fare a Meloni qualche domanda un po’ ruvida, tipo perché non caccia dal suo partito i deficienti che si vestono da nazisti, o i governatori che in campagna elettorale andavano alle cene in onore del duce; oppure perché non condanna mai l’esuberanza dei suoi militanti che fanno il saluto romano, ricordano con nostalgia il Ventennio o inneggiano alla marcia su Roma. Insomma, l’autobiografia lava più bianco, pulisce, annulla gli angoli oscuri e rende tutto lindo e pulito.

Ci aveva provato anche Salvini, certo, con un libro che era un compitino da ripetente di terza media – un’intervista in ginocchio, quella, non una vera autobiografia – edito dalla casa editrice di Casa Pound. Lì avevamo appreso che al piccolo Matteo, all’asilo, avevano rubato il pupazzetto di Zorro, il che deve aver generato un qualche imprinting passivo-aggressivo. Poi ci sono i libri di Matteo Renzi, sempre immaginifici e lungimiranti, dai titoli evocativi (“Un’altra strada”, “La mossa del cavallo”), adatti a spiegare le nuove sfide e le prospettive.  A lungo termine, si direbbe, anche lunghissimo, visto che piazzarsi sotto il due per cento nei sondaggi garantisce, diciamo così, ampi margini di miglioramento, essendo l’estinzione l’unico peggioramento possibile. Mettiamo nel mucchietto anche il libro mai uscito di Roberto Speranza, “Perché guariremo”, scritto e stampato ma mai venduto, dato che cantava vittoria sulla pandemia quando la vittoria non c’era: circola clandestino in poche copie sfuggite al macero, e anche lì il mix di retorica e autocelebrazione è piuttosto (letto ora) esilarante, mentre Rocco Casalino preferiva togliersi molti sassolini dalle scarpe, anche lì con frequenti dettagli strappalacrime.

Dunque non basta ai politici occupare tutti gli spazi, monopolizzare i tg, i talk, l’immaginario collettivo, il discorso pubblico. Viene sempre il momento – pare inevitabile – di porre in mezzo al proprio cammino la pietra miliare dell’autobiografia: confessioni di peccati innocentissimi e distratto sorvolo su errori, cretinate e misfatti reali. Intorno, il plauso dei media osannanti, che finalmente possono gioire del “lato umano” di questo o quel leader che si disvela, imperdibile occasione – un’altra! – per genuflettersi al potere.

mer
5
mag 21

Dalla Lega al Pd. Per i politici italiani la libertà d’espressione è solo la loro

PIOVONOPIETREC’è un divertente allegato alla vicenda Fedez-Salvini-concerto del Primo maggio che vale la pena indagare. Un dettaglio, forse, ma che dice molte cose sul Paese e la sua classe politica. Lasciamo da parte il solito teatrino dell’assurdo, con i leader di qua e di là che si scagliano contro la lottizzazione e la Rai controllata dai partiti, puro cabaret, puro nonsense, come se Wile Coyote comparisse in un talk show per gridare: “Basta con questi tentativi di mangiarsi uno struzzo!”. E va bene, si è già detto; così come si è già detto quasi tutto, sulla faccenda, e forse manca solo la profezia di Fassino: “Fedez si faccia un partito e si presenti alle elezioni”. Ecco, speriamo di no.

Eppure qualcosa è sfuggito alla disamina del caso (clinico), ed è l’accorato appello di Salvini a Fedez: “Sono pronto a un confronto in tivù”, dice a Barbara D’Urso, chiedendo tra le righe di organizzarlo lei. Grande idea: rapper contro baciatore di salami a casa della regina del nazional-populismo televisivo, una specie di epifania del trash. Confido che Fedez si sia fatto una risata. Anche il senatore Pillon chiede un incontro, lanciando una sua bizzarra visione del mondo: “No ai comizi, sì al confronto”. Insomma, la libertà di dire quel che si pensa (che è poi la libertà) barattata con un dibattito; la libertà di dare notizie verificate e impossibili da smentire (le frasi omofobe di alcuni esponenti leghisti) ceduta in cambio del famoso “contraddittorio”. E’ come se nel telegiornale si parlasse, che so, dei manifestanti uccisi in Birmania, e dopo il servizio, si presentasse in studio un generale golpista birmano per il contraddittorio. Un bel dibattito. Un confronto franco e sereno. Uno scambio di idee e di vedute. Mani in alto.

Si intuisce, dietro lo schiocco dello schiaffone preso da Salvini, una sorta di incredulità, il non capacitarsi che un cittadino (un artista, un cantante, uno sportivo, un attore, insomma chiunque) abbia più audience della politica, e che possa non solo permettersi di avere delle opinioni, ma di dirle in pubblico con un certo successo. Al contempo, mentre si fa fuoco e fiamme per il ceffone incassato, si chiede ospitalità a questo o quel contenitore televisivo, cioè quei posti dove già abbiamo visto ogni nefandezza, compreso un Salvini addolorato che recita l’Eterno Riposo per le vittime del Covid (sempre dalla D’Urso). In quel caso, gli ultras cattolici (e nemmeno i laici, peggio mi sento) non ebbero niente da ridire e non chiesero nessun confronto, nessun contraddittorio, nessuna riparazione.

Non è cosa che riguardi solo Salvini, intendiamoci. Alla corte della tivù si presentano tutti, prima o poi, questuanti con il cappello in mano a chiedere qualche grammo di ricostituente per i loro consensi traballanti. E questo avviene perché la politica (da tempo) non ha più parole, ed è costretta a rubare quelle di altri. Quelle della tivù popolare, per dire, o dei comici, o dei cantanti (si vedano le lodi di molta sinistra al discorso di Fedez, un discorso che dovrebbe fare lei, di più e meglio); insomma un affannato rubacchiare linguaggi e parole qui e là, in mancanza di linguaggi e parole autonome, di visioni, di strategie. Fuffa, insomma. Propaganda. E difesa di un privilegio: solo noi possiamo parlare. Salvo poi, quando parla qualcun altro, chiedere a gran voce “il confronto in tivù”, magari perché compaia a discutere “democraticamente” quello che “Se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno”. Segue dibattito. Ma anche – prevalga la pietà – no.

mer
28
apr 21

Salvini e Meloni. Lo scontro a destra che fa guadagnare molti voti (a destra)

PIOVONOPIETREA turbare la ola e lo scroscio di applausi che il governo Draghi si porta appresso dopo la presentazione del Recovery Plan da 248 mila milioni (ogni tanto è giusto ricordare cos’è un miliardo, anche se se ne parla come di noccioline all’happy hour) c’è una divertente guerra sotterranea tra le due destre più estreme del Paese. Mentre regna una finta concordia, guidata dalla speranza che il signor Draghi – fico com’è – ci porti fuori dal disastro annaffiando di soldi la penisola, possiamo goderci il grazioso vaudeville di Giorgia contro Salvini, Salvini contro Giorgia, e tutti e due, chi più chi meno, contro il governo (uno da dentro, l’altra da fuori). No, non intendeva questo, Draghi, quando ha detto di superare “gli interessi di parte”, ma al momento, in attesa dell’assalto alla diligenza che trasporta 248 miliardi, gli interessi di parte sembrano quelli dei due combattenti: la giovane italiana e il baciatore di salami. Meloni gode della posizione privilegiata di essere l’unica opposizione esterna, Salvini cerca di monetizzare il suo ruolo di opposizione interna: la faceva a spada tratta brandendo un mojito quando era ministro dell’Interno, figurarsi se esita a farlo oggi. E’ una guerra di dispetti, scaramucce, sgambetti. Salvini attacca Speranza? Meloni presenta una mozione di sfiducia a Speranza. Salvini attacca il coprifuoco? Meloni di più. Salvini guida falangi di ristoratori incazzati? Meloni pure, con il risultato che manifestazioni di gente che non lavora da un anno e passa, che ha parecchie ragioni per essere nervosa, finiscono per sembrare riunioni di arditi, con i pipicchiotti di Casa Pound e altri nostalgici di Kappler in prima fila. A guardare i sondaggi, Salvini ha perso in poco più di un anno quasi 15 punti percentuali, mentre la Meloni ne ha conquistati un bel po’, dimostrando la tesi dei vasi comunicanti (a destra).

Alla lunga, però, sarà il caso di uscire da questa partita tutta tattica – che avrà la sua gloriosa epifania al momento della scelta dei sindaci delle grandi città – e passare a qualcosa che somigli alla strategia. Dunque si porranno alcune domande che oggi sembrano peregrine, ma che tra qualche mese diventeranno più pressanti. Una tra tutte: ma siamo sicuri che lasciare alla destra tutte le battaglie sulle libertà costituzionali, alla lunga, pagherà? Se uno comincia alle nove del mattino a dire che è mezzogiorno, quando finalmente arriverà mezzogiorno canterà vittoria come se fosse merito suo, ed è proprio questo che Salvini e Meloni aspettano, in modo di intestarsi, un domani, la ripartenza, la fine dell’emergenza, e magari addirittura una decisa ripresa economica (“Io l’avevo detto” livello pro).

E del resto c’è la sgradevole sensazione che le posizioni fieramente chiusuriste della sinistra (pardon) siano più dettate dal fare argine alle intemerate dei due balilla, uno dentro e una fuori dal governo, che a una visione di prospettiva, che per ora è affidata soltanto alla pioggia di miliardi in arrivo sul primo binario. La destra law and order che si finge libertaria è un notevole testacoda, ma è un testacoda speculare a quello di una sinistra (ri-pardon) che non vede – che non sa vedere, e non da oggi – la rabbia di molti italiani, e quando la vede si rifugia dietro un comodo luogocomunismo (i ristoratori incazzati? Tutti evasori fiscali, bon, fine del discorso, facile, no?). Oggi l’emergenza copre come un sudario questa contraddizione, ma dopo, poi, si saprà in qualche modo sanarla? Cioè: si troverà un vaccino?

lun
26
apr 21

Flora, la recensione di Milano Noir

Qui la recensione di Mauro Grossi per Milano Nera

MilanoNera 260421

sab
24
apr 21

Flora, l’intervista su La Gazzetta di Modena

Qui l’intervista di Alice Benatti su La Gazzetta di Modena

Gazz di Mo

ven
23
apr 21

Flora. Intervista lunga lunga su tutto quanto

Sul sito di Flumeri e Giacometti, intervista su Flora, la scrittura, e molte altre cose. Mettetevi comodi

FLUMERI e GIACOMETTI 23 aprile 2021

mer
21
apr 21

Pass vaccinale. Soluzione ben pensata per non essere operativa mai e poi mai

PIOVONOPIETRENon è facile vivere in un Paese eternamente sospeso tra il Medioevo e la fantascienza, tra l’eterno film di Totò e Matrix, dove si sognano sviluppi incredibili e futuristici e intanto ci si dibatte con un presente che arranca. Qualcuno ricorderà l’app Immuni, per fare un esempio, che di questa sindrome dei piedi ben piantati nella palude e del dito che indica le stelle fu una metafora perfetta. La propaganda dei primi mesi di pandemia (tutti i giornali e i media, tutti i politici, tutti) tendevano a colpevolizzare i cittadini perché non installavano questa benedetta app, che ci avrebbe avvertito di contatti ravvicinati con gli infetti. Si agitò il fantasma della privacy (“Vergogna! Date i vostri dati a Facebook e poi vi allarmate per un’app che vi salva la vita!”), si accusarono gli italiani di diffidenza e di scarsa collaborazione, con un copione che la pandemia ha santificato e applicato alla lettera ogni giorno: dare la colpa ai cittadini.

Naturalmente la privacy non c’entrava niente, quel che fece naufragare malamente l’app immuni fu semplicemente il salto troppo lungo (da Totò a Matrix, appunto), con la pretesa che una segnalazione dell’app arrivasse alla Asl in tempo reale, e da quella partissero lancia in resta, in pochi minuti, falangi di tracciatori in grado di individuare, che so, tutti quelli seduti su un tram a una certa ora. Pura fantascienza e, com’era ovvio, non se ne parlò più.

Siccome non si impara mai veramente dalle esperienze negative (che si preferisce dimenticare, piuttosto che usarle per trarne lezione), ecco ora la favola bella del pass vaccinale. Buttato lì quasi per caso, tra le righe, dal Presidente del Consiglio Draghi, il pass vaccinale non si sa esattamente cosa sia, chi lo debba rilasciare, come funzionerà nella pratica. Il sogno, ovvio, sarebbe avere memorizzata sulla tessera sanitaria la propria situazione in relazione al Covid, se l’hai fatto, se sei vaccinato, se hai fatto un tampone di recente. In sostanza, la cosa è piuttosto facile da dire, ma piuttosto difficile da fare: fornire un documento credibile (cioè non falsificabile, emesso da qualche ente con tutti i crismi dell’ufficialità) a cinquanta milioni di italiani, e farlo entro l’estate, in meno di due mesi, è un progetto bellissimo che ha la stessa fattibilità di portare fuori il cane su Saturno.

Senza contare le ricadute sulla vita di ognuno di noi. La nonna vaccinata può viaggiare, il figlio cinquantenne aspetta il vaccino, quindi no, i nipoti sotto i diciott’anni li vaccineranno forse nel 2023, i tamponi molecolari hanno bisogno di prenotazioni, tempo e file, bisogna aspettare l’esito e partire entro 48 ore, sennò bisogna rifarlo. Aggiungete a piacere, magari immaginando una macchina che parte verso il Sud per le vacanze con a bordo, un vaccinato, due no, un ragazzino, un tamponato. Ognuno con il suo documento a portata di mano per i controlli. Senza contare i costi: se fai il tampone vai in vacanza (o al cinema? A un concerto?), altrimenti no, che è – da qualunque parte la su guardi – una discriminazione anche economica, perché il mercato dei tamponi impazza e i prezzi sono molto diversi da città a città (con Milano più cara di tutti, che ve lo dico a fare). Insomma, la soluzione è ben pensata per non essere operativa mai, oppure operativa con qualche milione di eccezioni, che è lo stesso, e ci rimarrà tra le mani la vecchia cara autocertificazione che ci facciamo noi, con le nostre manine, come ai vecchi tempi dell’app Immuni, parlandone da viva.

ven
16
apr 21

Flora, ancora due recensioni dal web

Qui due recensioni di Flora: Roberto Ellero su Ytali e Carla Colledan da Veleni e Antidoti

Ytali 160421 Veleni e antidoti 150421

gio
15
apr 21

La parola “Ossessione”. Piccola lezione (eh?) per il Salone del Libro di Torino

Il Salone del Libro di Torino mi ha fatto adottare per tre lezioni da una classe di studenti, spero che mi trattino bene. Intanto mi ha chiesto di adottare una parola, e io ho scelto “Ossessione”. Agevolo il filmato (da YouTube)

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mer
14
apr 21

Flora, l’intervista a Sky Tg 24 (video)

Qui sotto la bella intervista di Filippo Maria Battaglia per Incipit, la rubrica di libri di Sky Tg 24, video da YouTube

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mer
14
apr 21

Flora. Intervista a Prisma, Radio Popolare (audio)

Qui la chiacchierata con Radiopop e Prisma (grazie a Lorenza Ghidini)

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mer
14
apr 21

Dittatori “utili”. Il filo sottile che separa la ragion di Stato dalla faccia come il c.

PIOVONOPIETREC’è un filo sottile, sottilissimo, praticamente invisibile che separa la Realpolitik dall’ipocrisia, la pratica dai proclami, la ragion di Stato dalla faccia come il culo. Era inevitabile pensarlo vedendo salpare la fregata multiruolo Fremm, nave da guerra partita in sordina, senza la banda, senza cerimonie, su l’ancora e via. Destinazione al-Sisi, cioè l’Egitto, cioè il posto dove è stato ammazzato Giulio Regeni, dove viene tenuto ostaggio Patrick Zaki, e dove i diritti umani contano come il due di coppe quando la briscola è picche. Sì, c’è una beffarda aporia tra le piazze italiane in cui campeggiano gli striscioni gialli che chiedono “verità e giustizia” per un nostro cittadino torturato e ucciso al Cairo e le poderose forniture militari al regime che l’ha ammazzato. Due fregate vendute per 990 milioni, inizialmente destinate alla nostra Marina, a cui tra parentesi erano costate di più (1,2 miliardi). La scia bianca sulle onde ci dice una cosa: di qui le belle parole e di là i fatti. Istruzioni per l’uso (non delle fregate da guerra, ma dell’ipocrisa): allargare le braccia, scuotere la testa e dire “Che ci vuoi fare, è la Realpolitik”. Bella roba, eh!

Non solo l’Egitto, ovviamente. La recente frase di Mario Draghi su Erdogan, dittatore che però “ci serve”, chiarisce senza mezzi termini il problema, anche con la Turchia si fa la stessa cerimonia: occhi al cielo, braccia allargate in un gesto di cauta impotenza, e oplà, il venti per cento delle nostre esportazioni di armi finisce nelle mani del dittatore cattivo che però “ci fa comodo”. Che ci sia mezza Turchia in galera, tra intellettuali, oppositori vari, docenti universitari, scrittori, non deve fare velo sulle convenienze, scegliete voi se vale più la vita di qualche decina di migliaia di oppositori o il fatturato. Dài, non c’è partita, come ci insegnano alcuni geni del commercio: se non gliele vendiamo noi, le armi, gliele vende qualcun altro, e allora tanto vale… In più, paghiamo profumatamente il “dittatore utile” perché fermi qualche milione di migranti.

La sconsolata confessione del Presidente del Consiglio, quel “che ci volete fare” un po’ fatalista e un po’ furbetto sui dittatori che ci circondano e che riempiamo di armamenti sofisticati, ha poi assunto toni grotteschi con la visita in Libia e i ringraziamenti al nostro dirimpettaio mediterraneo per come “salva” i migranti. Cioè per come cattura quelli che riescono a scappare per riportarli nel lager, per rivenderli tra tribù e trafficanti, il tutto (sta diventando un classico) con motovedette gentilmente donate da noi. Non che si possa incolpare solo il governo Draghi: che le tribù libiche e i signori della guerra del deserto nordafricano fossero buoni partner lo si vide già con il ministro Minniti, quando si spiavano i giornalisti in prima linea sul fronte dell’immigrazione, con il ministro Salvini che sequestrava poveracci in mare aperto, e ora, quando si va dire “grazie, bravi!” ai rastrellatori di profughi.

Chissà se è vero che tre indizi fanno una prova, ma in ogni caso restano tre indizi: tre regimi piuttosto impresentabili e feroci che fanno allegramente affari armatissimi con l’Italia. Grazie a noi, insomma, tre regimi piuttosto feroci diventano più forti, più armati, più muscolosi, più arroganti e in definitiva più pericolosi per tutti. Resterà il dubbio, quando ci troveremo circondati da dittature ostili armate fino ai denti (manca poco), su chi premiare con il Nobel alla lungimiranza: i candidati italiani saranno numerosi.

lun
12
apr 21

Flora. Intervista al Corriere della Sera e recensione su Il Piccolo

Qui l’intervista di Alessandro Beretta sul Corriere Milano, e la bella recensione di Paolo Marcolin su Il Piccolo di Trieste (cioè, Guy Debord, Roland Barthes… non staremo esagerando?). Grazie grazie

CorriereMilano100421Il Piccolo 110421

lun
12
apr 21

Flora. Recensioni sul web

Blog, siti, pagine personali. Flora recensita sul web. Ecco qualche pagina…

Libri e Parole 8 aprile 2021 CronacaQui 8 aprile 2021 SoloLibri 11 aprile 2021 TelegraphAvenue 4 aprile 2021

sab
10
apr 21

Flora. L’intervista su Petrarca, Rai Tre (video)

Il servizio di Laura Longo su Petrarca, il magazine culturale di Rai Tre. Grazie grazie (via YouTube)

Floraxyoutube

 

 

gio
8
apr 21

Flora, libro del giorno a Fahrenheit (Radio Tre Rai)

Qui l’intervista a Fahrenheit. Grazie grazie a Loredana Lipperini

Fahrenheit

mer
7
apr 21

Abuso di futuro. Tassiamo i proclami e puniamo il reato di falsa promessa

PIOVONOPIETREIl futuro è sopravvalutato. E’ un concetto che contiene tutto: prospettive, speranze, desideri di cambiamento, annunci roboanti, promesse. Persino lo slogan appeso a balconi e finestre (un anno fa: oggi suona grottesco) era al futuro: “andrà tutto bene” (sic). Andrà quando? Dopo, un domani, o un dopodomani, o chissà. Andrà, vedremo. Così emerge un piccolo sospetto, di quelli che rodono e stanno lì in agguato come un retropensiero: che il futuro, il coniugare ogni verbo di speranza al futuro, sia solo un tentativo per spostare l’attenzione al domani, una speranzosa distrazione alla desolazione dell’oggi.

Non passa giorno – si può dire non passa ora – che non si sentano proclami su quel che succederà. Tutti i lombardi vaccinati entro giugno (questo era Bertolaso), no, tutti quelli di Brescia vaccinati entro luglio (ancora Bertolaso, il mago Do Nascimiento era più credibile), no, tutti gli italiani entro l’estate (Speranza), no, vaccineremo mezzo milione di persone al dì (il generale Figliuolo), no, tutti gli anziani entro aprile, no, il sessanta per cento della popolazione entro settembre. Si sposta l’asticella in su e in giù, e ad ogni proclama sul luminoso futuro segue il contro-proclama a stretto giro: vi ricordate quello che si diceva ieri sul vostro futuro? Beh, non era vero. Doccia scozzese, un po’ bollente, un po’ gelata, ed è passato un altro giorno.

Ora, da qualche settimana, tiene banco la promessa più solenne, quella del generale Figliuolo, che insiste sulla sua previsione (o sarà una speranza?) di 500 mila vaccinazioni al giorno. Se arrivano i vaccini, se la macchina si metterà in moto, se tutti sapranno fare il loro, se… Insomma, si tratta di un futuro, sì, ma con molte incognite, condizioni e varianti, e già in contemporanea (non domani, ma oggi) il futuro annaspa un po’ e i titoli recitano: “Il cambio di passo slitta a maggio”. Voilà, un futuro con l’elastico.

Nel frattempo, viene accolto come un proclama di vittoria il quotidiano arrivo di fiale: oggi scaricato un milione di dosi! Oggi ne arrivano un milione e mezzo! Ma la piccola esultanza dei telegiornali, svapora poi nell’accavallarsi delle cronache, con gli ottantenni ancora in cerca di una puntura, le categorie furbette che tentano il salto della fila, i problemi logistici, le Regioni che barano, i governatori che fanno il gioco delle tre carte, il governo che fa la faccia militaresca dell’efficienza, e noi che aspettiamo ‘sto famoso futuro, sottoforma di iniezione.

Ora l’allarme è chiaro: se oltre a confondere il presente si pasticcia anche con il futuro, ogni proclama e previsione diventerà quel che è: parole al vento, rassicurazioni che non rassicurano nessuno, anzi, che finiscono col creare una diffidenza naturale, un’irritazione endemica. E se si può avere un sogno declinato al futuro, oggi, sarebbe quello di cominciare a sentir parlare al passato. Esempio: “Ehi, voi! Ieri abbiamo vaccinato mezzo milione di persone!”; oppure: “Ecco fatto! Tutti i vecchi e i deboli sono al sicuro!”. Urge una moratoria sui verbi declinati al futuro, una tassa sulle previsioni che somigliano più a un afflato della speranza che a un calcolo reale, forse addirittura serve il reato di falsa promessa sulla salute. “E’ lei che disse ad aprile tutti vaccinati? Ci segua in questura, per favore”. Non succederà, ovvio, e il balletto sul “domani” continuerà, come un enorme esperimento sociale: vediamo quanto futuro ipotetico riusciamo a darvi in cambio di un presente di merda. Domani. Vedremo. Chissà.

dom
4
apr 21

Flora, intervista a Il Messaggero

Qui l’intervista a Francesco Musolino de Il messaggero. Grazie, merci

Ilmessaggero040421

dom
4
apr 21

Flora a Radio 24. Intervista per Il cacciatore di libri

Qui l’intervista con Alessandra Tedesco, una chiacchierata su Flora e dintorni, a Il cacciatore di libri su Radio24. Clicca per ascoltare. Grazie grazie

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ven
2
apr 21

Flora, la recensione di Antonella Lattanzi su Il Corriere della Sera

Qui la bella recensione di Antonella Lattanzi sul Corriere della Sera. Grazie

CorriereLattanzi2aprile21

ven
2
apr 21

Flora, la recensione de Il Venerdì di Repubblica

Qui la recensione di Alberto Riva su Il venerdì di Repubblica

IlVenerdì

mer
31
mar 21

Differenza di “classe”. Don Milani e Marx non ci hanno insegnato nulla

PIOVONOPIETREPer gli amanti dei testacoda, dei paradossi, dei ribaltamenti di senso, eccone uno straordinario: la proprietà dei mezzi di produzione – quell’antico progetto marxista – diventa un argomento attuale, che tocca quasi tutti, che ancora discrimina i cittadini del Paese. Partiamo da qui: il ministro dell’Istruzione Bianchi emanerà apposite circolari eccetera, ma l’orientamento dichiarato, manifesto e riportato da tutti i giornali è questo: si boccia anche con la Dad, la famigerata didattica a distanza. Lasciamo perdere il consueto sciame sismico: attenzione ai ricorsi… il parere dei presidi… rumore di fondo. Stringendo: anche in condizioni estreme, anche in clamorosa emergenza (migliaia di italiani sono andati a scuola per poche settimane), rimane indiscutibile il criterio del voto, della media del sei, insomma del “merito”.

Tutti conoscono l’accezione contemporanea della parola-feticcio “meritocrazia”: una gara di cui si indica solo il punto d’arrivo e non il punto di partenza. In sostanza: si corrono i cento metri, uno in scintillante tenuta da sprinter, e l’altro senza una scarpa, con lo zaino pesante e le mani legate. Trionfa il merito, bravo, promosso.

La didattica a distanza ha moltiplicato quest’effetto, evidenziando senza dubbio che le differenze di classe (wow!) passano oggi (che novità!) per la proprietà dei mezzi di produzione. Un buon tablet, un collegamento in fibra, magari un buon cellulare a portata di mano, un computer che non si incanta come i vecchi grammofoni, una stanza tutta per sé. Quanti studenti italiani hanno oggi queste condizioni di partenza? Una minoranza. Perlopiù il Paese abita in un’altra galassia, quella dove è cara grazia se c’è un computer in ogni famiglia, e quando c’è bisogna fare i turni. E stabiliti i turni, la rete va e viene, magari tocca seguire una lezione in avventuroso collegamento mentre qualcuno studia, o lavora nello stesso spazio (vale anche lo smart-working, ovviamente).

Senza arrivare a Dickens (per quanto…), le condizioni di partenza in questa nobile gara per conquistare il sei e confermare le leggende su un ipotetico “merito”, sono stellarmente distanti. Chi ha di fronte una consolle superaccessoriata con potenza da spostare i satelliti e chi litiga coi parenti per l’uso di un cellulare a vapore del Settecento, corrono entrambi per lo stesso obiettivo. Che è esattamente come fare a gara per chi arriva prima in piazza del Popolo, ma uno parte con la Porsche da via del Corso e l’altro arriva a piedi da Udine, cinque, bocciato.

Ecco perché la proprietà dei mezzi di produzione diventa, come sempre è stato, il vero elemento di distacco tra classi sociali, motore di diseguaglianza. Ma capisco che tirare in ballo il vecchio Marx sia barbogio e démodé, va bene. Si vorrebbe supporre, però, che chi si occupa di scuola in Italia abbia almeno letto qualcosina di Don Milani, magari là dove dice che “Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali tra disuguali”. Se la scuola in presenza attenua, pur in minima parte, certe distanze sociali, la Dad no, semmai le amplifica, le ingigantisce fino al grottesco, fornendo una buona caricatura delle due, tre, quattro Italie che esistono in natura. Ai tempi di Don Milani e di Barbiana si bocciavano proletari coi piedi scalzi, il moccio al naso e le famiglie analfabete, oggi si può bocciare chi non possiede un adeguato standard tecnologico (che significa standard di reddito). Come si vede siamo sempre lì, chissà, forse per un vero salto culturale cade la linea.

lun
29
mar 21

Flora. Intervista a Il Mattino di Napoli

Qui l’intervista di Francesco Mannoni, grazie grazie

Mattinook

sab
27
mar 21

Flora, Recensione e intervista su Tutto Libri de La Stampa

La bella intervista (mi prende anche in giro perché dico “bella intervista”!) di Sara Ricotta Voza su TuttoLibri de La Stampa. Cliccare per leggere

TTL270321

sab
27
mar 21

Flora, recensione su Il Fatto Quotidiano

Qui la recensione di Fabrizio d’Esposito su Il Fatto Quotidiano

IlFatto270321

mer
24
mar 21

Vaccini. Vivere in Lombardia è più pericoloso che fare il bagno con l’orso

PIOVONOPIETRENella top ten delle cose che è meglio evitare, subito sotto “fare il bagno nella vasca dell’orsa assassina”, ma sopra “guidare a fari spenti nella notte”, c’è “abitare in Lombardia”, una cosa che può diventare letale se siete – come tutti – in attesa di un vaccino. Bellissima terra, con laghi e montagne, dove il cielo “è bello quando è bello” (cit) e i cittadini sono abituati a guardare tutti gli altri italiani dall’alto al basso, perché qui c’è l’eccellenza, signora mia. Ecco, questa terra di eccellenze e primati, passata in poco più di duemila anni dalle palafitte a Bertolaso si chiede ora, con una certa apprensione, se a ben vedere non fossero meglio le palafitte. Il caparbio commissario-a-tutto aveva solennemente promesso al momento dell’insediamento (era il 2 febbraio): “Tutti i lombardi vaccinati entro giugno”, cioè dieci milioni di persone. Ricevette grandi applausi. Passa un mese e mezzo e Bertolaso, stentorea la voce e gonfio il petto, ri-dichiara volitivo (18 marzo): “Tutti i bresciani vaccinati entro luglio”, cioè duecentomila persone invece di dieci milioni, ma un mese in più.

Basterebbe questo, in un paese normale (ahah, ndr) per cacciare con ignominia un simile caciarone, che nonostante il surreale dispiego di scempiaggini lamenta oggi (altra intervista, sul Corriere) di non avere abbastanza potere, di non poter spendere un euro, di non firmare niente e (ciliegina!) “Dovrei stare all’ultimo piano di palazzo Lombardia”, non si capisce bene se per fare il Presidente al posto di Fontana o per buttarsi di sotto, da lombardo temo la prima ipotesi.

Per il resto, Bertolaso a parte, la Lombardia vive un grande momento di autocombustione: tutta la sanità lombarda, dai vertici all’ultima Ast, è di nomina politica e al novanta per cento gestita da marescialli, sergenti e caporal-maggiori della Lega, tutti agli ordini di Salvini che ha tuonato per i giornali: “Chi ha sbagliato deve pagare!”, ma poi, invece di andare a costituirsi, ha fatto un po’ di tetris con le nomine, incastrando uno qua e uno là, sempre dei suoi. Le altre forze della destra fanno un po’ tenerezza, con i balilla di Fratelli d’Italia che lamentano di aver poco potere e Forza Italia che ha dovuto sacrificare il più esilarante assessore alla Sanità dai tempi dei Longobardi (il mai dimenticato Giulio Gallera) per sostituirlo con lady Moratti, mossa si dice approvata e caldeggiata da Salvini medesimo. Ora si narra di guerre intestine, ferri corti e sgambetti, con la Moratti che si installa in un altro grattacielo e si comporta da vero Presidente della Regione, mentre Fontana – di fatto commissariato – si rivela per quello che è: un signore buono a tagliar nastri e ad annuire nei convegni di Assolombarda, maldestro persino negli affarucci col cognato e ricco di soldi scudati in Svizzera. Una prece.

Quel che esce da questa eccellenza, più che una soave descrizione manzoniana, sembra un quadro di Bosch, coi vecchietti convocati a cento chilometri di distanza, a volte spediti in due posti contemporaneamente, a volte non avvertiti per niente perché la Regione non riesce a spedire i messaggi di convocazione, cosa che indigna Bertolaso: “Siamo atterrati su Marte e non riusciamo a spedire gli sms”. Bella frase, ma un po’ oscura: “siamo atterrati” chi? I lombardi? La Lega? La Moratti? Se la regione Lombardia avesse organizzato la spedizione su Marte ora saremmo qui incantati a rimirare immagini di qualche palude nel varesotto, con Fontana che dichiara: “Beh, dài, ci siamo andati vicini”.

mer
17
mar 21

Flora, dal 25 marzo in libreria e sulle piattaforme online

Il 25 marzo esce Flora, il nuovo romanzo della serie con Carlo Monterossi. E’ una storia di spazzatura e poesia. Per ora accontentatevi, ne parleremo…

Flora Desnos orizz

mer
17
mar 21

Ai dem. Sicuri che i 16enni vogliano andare a votare per i nostri politici?

PIOVONOPIETRELe ragazze e i ragazzi italiani che hanno dai sedici ai diciott’anni sono un milione e centomila, più o meno, il che significa – su una platea elettorale di 49 milioni di persone – appena il due per cento. Dunque se votassero (difficile) e se votassero tutti insieme per lo stesso partito (impossibile) varrebbero già più di Italia Viva, Più Europa (parlandone da viva), e altre micro-formazioni che allietano il dibattito politico italiano. Tanti, ma non così tanti da sconvolgere gli equilibri esistenti, anche perché, com’è ovvio, il loro voto si spalmerebbe su tutte le forze politiche. Eppure la proposta di Enrico Letta nel suo discorso di investitura a capo del Pd ha mosso decine e decine di commenti, controdeduzioni, critiche, applausi, rimembranze. Qualcuno ha ricordato che la cosa fu proposta a più riprese e da molti, tra cui la Lega e i 5s, e che l’argomento di abbassare l’età del voto torna periodicamente come un jolly pescato dal mazzo: sfina e non impegna. In generale, le reazioni sono di prudente attendismo o di costernata opposizione.

Comprensibile sgomento: in un paese che odia i giovani, come tiene a dimostrare con fatti, parole, opere e omissioni, ecco il dibattito sui giovani, condotto da non più giovani (quasi sempre non più giovani da almeno mezzo secolo), che riflettono pensosi e assorti su quanto un sedicenne possa capire di politica e destreggiarsi nel marasma dell’offerta.

E vai con il valzer: ci vuole più maturità per votare. Ci vuole più preparazione. La scuola non aiuta. Dobbiamo formarli meglio, eccetera eccetera. Cioè, se ho capito bene, i giovani dai sedici ai diciott’anni non meriterebbero il diritto di voto perché gli adulti e gli anziani del Paese, in cinquant’anni, non sono riusciti a formarli come si deve, a fare della scuola un posto dove si costruiscono cittadini, a fermare l’impazzito oscillare tra l’insulto (sono tutti scemi) e il paternalismo (vieni qui che ti formo). Il gatto (adulto, anzi anziano) si mangia la coda, insomma. C’è anche chi teorizza – e non gli viene nemmeno da ridere – che per arrivare a quel traguardo del voto ai più giovani bisogna bocciarli di più alle scuole medie. Chapeau: è il grande ritornello paraculo della “meritocrazia”, in un Paese dove vincono a man bassa quelli nati meritati.

Ignoranti, bulletti, gente che pensa solo al telefonino, da ultimo untori cattivi che ammazzano i nonni con il contagio, con la scuola chiusa da un anno, plasmati sul mercato come se già all’asilo fossero mano d’opera da indirizzare, spediti a far fotocopie in qualche ufficio per “far dialogare la scuola col mondo del lavoro” (ahahah! ndr), casinisti, arruffapopolo, bevono, si fanno le canne.

Insomma, ribalterei il dibattito: non tanto “Siamo sicuri che sia una buona idea far votare i sedicenni?”, ma piuttosto: “Siamo sicuri che i sedicenni vogliano andare a votare per questi partiti?”, per una classe dirigente che in più di un anno non li ha fatti andare a scuola perché non è riuscita a rendere sicuri i mezzi pubblici che ce li portano? Magari a votare gente che è andata in pensione a cinquant’anni mentre loro a cinquant’anni usciranno (forse) dalla precarietà? Quanto all’appello alla “maturità” necessaria per votare, è il classico argomento boomerang, e si potrebbe obbiettare, visto un Paese che periodicamente si aggrappa a questo o quel salvatore della patria, o uomo della provvidenza, o ultima spiaggia, che anche gli adulti che votano, in quanto a maturità, non possono dare tutte queste raffinate e profonde lezioni di vita.

mer
10
mar 21

Vaccino olimpico. La nuova disciplina dei furbetti, ricchi, politici e industriali

PIOVONOPIETREVisto che le Olimpiadi di Tokyo sono in forse, il Cio ha tempo per pensarci e introdurre una nuova specialità olimpica: il salto della fila. E’ una disciplina complicata: servono colpo d’occhio e capacità di fare gruppo; è uno sport di squadra, anzi di categoria, dove vince (una dose di vaccino) chi riesce a sedersi per primo davanti a un medico offrendo il braccio per la medaglia. Saremmo in zona podio, questo è certo. Non passa giorno, infatti, che non spunti qualche categoria, associazione, confraternita, Ordine professionale, setta, tipologia commerciale, che non chieda a gran voce di esser messa in lista prima di altri. Ha inaugurato la specialità il presidente della Campania Vincenzo De Luca, vaccinato il primo giorno “per dare l’esempio” (che avrei dato volentieri anch’io, dannazione). La senatrice Binetti si scalda e invia accorate mail ai colleghi perché si provveda a vaccinare prima i senatori. I giornalisti della Campania hanno chiesto (e ottenuto, sembra) di mettersi in fila subito dopo gli ottantenni, i sindaci premono per avere una corsia preferenziale, e c’è chi si è portato avanti col lavoro, tipo il sindaco di Corleone che si è fatto siringare e poi – beccato – ha annunciato le dimissioni, e via così.

Consci del difficile lavoro sul piano vaccinale e delle polemiche che sempre possono divampare quando si tratta di diritti (la salute) che diventano privilegi (prima io), pubblichiamo una tabella definitiva per gestire precedenze e priorità.

I possessori di Ferrari Roma V8 Turbo DCT – Ambasciatori del made in Italy e propulsori della ripresa, non è possibile che non vengano protetti dal virus il prima possibile i dinamici proprietari di questa opera d’arte contemporanea da 200.000 euro (versione base). Chiedono una corsia preferenziale, consapevoli che in caso di sommossa popolare raggiungere il confine svizzero a bordo di un missile da 600 cavalli non sarà complicato.

I vertici di Confindustria – Un accorato appello viene da Viale dell’Astronomia: come faranno gli imprenditori a guidare la riscossa industriale del Paese senza essere vaccinati prima di altri? La priorità dovrebbe andare di pari passo con l’abolizione del blocco dei licenziamenti, così anche molti lavoratori potranno stare a casa al riparo dal contagio: un gesto di generosità – come consueto – della classe imprenditoriale italiana.

I capicorrente del Pd – Non bastano i vaccini.

I croupier – Categoria trascurata dal fatto in zone arancione chiaro, arancione scuro, rosso e carminio nessuno va a giocare al Casino, i croupier reclamano la precedenza, in modo che la ripartenza delle roulette sia pronta e vivace ad emergenza finita. “E poi – dichiarano in un comunicato – siamo comunque più utili noi delle correnti del Pd”.

I proprietari di barche a vela – Impensabile che proprio mentre Luna Rossa si gioca una prestigiosa coppa, venga trascurata una categoria decisiva come i possessori di natanti dai dodici metri in su. Ferma restando la priorità per tutta la categoria, si caldeggia la precedenza per i proprietari di imbarcazioni che battono bandiera panamense, delle Bermuda o delle Isole Cayman, che non pesano – grazie, eroi – sulla macchina burocratica statale.

Le cassiere dei supermercati – Cazzi loro.

Attilio Fontana – Questo eroe della lotta alla pandemia, che ha affrontato l’emergenza a mani nude, col solo aiuto del cognato, merita senza dubbio un vaccino prima di tutti gli altri. Chiede soltanto di non prenotarlo con il sistema regionale lombardo, che lo rimanderebbe al 2089.

mer
3
mar 21

Tra fedeltà e cabaret. L’inesistente democrazia interna ai partiti: vero Iv?

PIOVONOPIETRESì, capo. Certo, capo. Come no, capo. Uno dei grandi temi della politica italiana – una variante del cabaret – è quello della fedeltà, forse perché si assiste a un campionario intero di capriole, giravolte, riposizionamenti, dispiegamenti tattici. E’ la politica, bellezza, ed ogni testacoda è chiosato dai saggi con quella formuletta astuta secondo cui “solo i cretini non cambiano mai idea”. Frase interessante, che non tiene conto però di un fatto conclamato: anche i cretini possono cambiare idea (e i furbi, ovvio, che la cambiano quando serve).

Caso di scuola, le espulsioni di massa nei 5 stelle, che spingono tutti – più che giustamente – a interrogarsi sulla democrazia interna di una forza politica, sui meccanismi del dissenso, sulla possibilità di dire al capo: “Non sono d’accordo, stai sbagliando” senza essere cacciati a calci. Ma non è l’unico caso.

In questi giorni di polemiche saudite, con un senatore che si intervista da solo per dirsi “bravo”, dopo aver intervistato un feroce dittatore per dirgli “bravo”, la questione della democrazia interna dovrebbe coinvolgere anche un piccolo partito come Italia Viva. Insomma, piacerebbe a molti che qualche voce dissonante si levasse dall’interno, magari flebile, magari incerta, ma abbastanza “schiena dritta” da dissentire dal segretario. Ebbene: niente. Zero. Non una vocina, non una mano che si alzi e dica: “Ma… veramente…”.

Certo, tutti ricordano la famosa frase di Ferruccio De Bortoli in un editoriale sul Corriere (24 settembre 2014), quella su “la fedeltà che fa premio sulla preparazione”. Ma forse, e almeno sulle grandi questioni di principio (non lapidare le adultere, per dirne una; non tagliare la testa alla gente davanti a un pubblico plaudente, per dirne un’altra) ci si aspetterebbe qualcosa di più. Invece tocca sentire proprio dalla ministra delle Pari Opportunità, Elena Bonetti, che l’Arabia Saudita “Ha iniziato un primo percorso nell’allargamento dei diritti”. Cioè, non sarà il Rinascimento, ma su, dài, ci manca poco. Strabiliante.

Quanto ad altri renzianissimi, non solo non dissentono dal capo, dalle sue visite saudite e dai suoi complimenti al regime (”vi invidio il costo del lavoro”), ma lo difendono a spada tratta, con vari argomenti tra cui: siete ossessionati. Lo fanno tutti. Che male c’è. Parliamo di vaccini. Fuffa retorica, insomma, difesa d’ufficio. Eppure tra questi armigeri che corrono a difesa del capo in difficoltà, c’è anche chi non è insensibile al tema. Per esempio Ivan Scalfarotto, che nell’ottobre 2018 firmò una dura interrogazione parlamentare sul caso Kashoggi, sui diritti umani, sui bombardamenti sauditi di civili in Yemen. Scalfarotto, Paita, Giachetti: alcuni dei nomi più in vista del renzismo firmavano allora quelle parole di condanna. Luciano Nobili si spingeva fino al boicottaggio, e tuonava su twitter che non bisognava giocare una finale di Supercoppa a Riad (dicembre 2019).

Poi, due anni dopo, di colpo, silenzio. Muti, allineati e coperti. Ora verrebbe da chiedersi quando hanno cambiato idea, e se l’hanno cambiata davvero, oppure se la fedeltà, oltre che sulle competenze, fa premio anche sui certi valori (i diritti umani: ora sì, ora no, ora sì, ora no). Insomma, dato che si ironizza spesso sulle millemila correnti del Pd, o sulle consultazioni dei 5s, non è peregrino chiedersi se esista anche dentro Italia Viva una democrazia interna, o se veramente hanno tutti cambiato idea, spontaneamente, liberamente, sull’Arabia Saudita e sul suo sanguinario principe.

mar
2
mar 21

Flora, la recensione di Antonella Lattanzi su Il Corriere della Sera

Qui la bella recensione di Antonella Lattanzi su Il Corriere della Sera. Grazie grazie

CorriereLattanzi2aprile21

mer
24
feb 21

Avanti il prossimo. Rider, badanti e Bertolasi: i nuovi lavori in pandemia

PIOVONOPIETRELa luce in fondo al tunnel, se c’è, è un lumino lontano lontano, ma come sempre nelle crisi più acute lo spirito italiano e la proverbiale arte di arrangiarsi prendono il sopravvento, e dunque ecco che nella più grande crisi dal dopoguerra spuntano nuovi lavori, occupazioni prima inesistenti che si impongono sul mercato della mano d’opera. Eccone alcuni.

Il finto rider – A leggere le cronache si direbbe una professione in grande espansione. Sono ormai decine, se non centinaia, i fattorini ricchi e felici intervistati dai giornali, con l’evidente scopo di dimostrare che i rider veri, quelli che si battono contro il cottimo, sono un po’ stronzi. C’è chi consegna pizze in Bentley, chi sventola guadagni da dirigente, e chi il dirigente l’ha fatto davvero (in un’azienda di consegne) che va in tribunale a testimoniare (da rider) che l’azienda è bella e brava, e lui campa come un re. Servono spirito d’iniziativa, qualche amico nei giornali e la faccia come il culo.

Il Bertolaso – Professione diffusa da secoli. C’è sempre, al bar, quello che lo farebbe meglio di voi, meglio di tutti, una specie di mister Wolf prosecco-munito, capace di costruire intorno a sé una piccola leggenda di efficienza e “ghe pensi mi”. E’ tutto bellissimo e edificante finché non vi viene la malaugurata idea di farglielo fare, insomma finché non ci cascate. Così, la professione è in ascesa, ma invisa alla popolazione in certe zone, tipo l’Aquila post-terremoto, o la Lombardia nel marasma sui vaccini. Non è un lavoro difficile – basta fare tanti proclami a vanvera – ed ha il vantaggio di creare altre professioni collegate, ad esempio i chiamatori di Bertolaso, cioè quelli che ci cascano.

Il mediatore di vaccini – Personaggio mascherato, sempre inquadrato di spalle, o con la voce contraffatta, o “che chiede di restare anonimo”, è la prova di due verità incontrovertibili in un colpo solo: l’emergenza sviluppa pescecani, e il mercato vince sempre, specie quello nero. Serve astuzia, diplomazia, un aplomb discreto da venditore di tappeti e, a giudicare dalle interviste rilasciate, la padronanza della lingua italiana non è richiesta. Due le caratteristiche principali: parlare per ore con la stampa riuscendo a non dire mai dove cazzo si procura i vacchini che vende al mercato nero (la prima, difficile) e convincere Zaia (la seconda, più facile).

La badante istituzionale – In questo triste momento storico, i nostri anziani rischiano l’abbandono. E nella solitudine, si sa, si prendono decisioni affrettate, o stupide, o sbagliate, o cretine, o si fanno affari con i cognati. Ecco dunque la figura della badante istituzionale, affiancata al presidente della Lombardia Attilio Fontana, Letizia Moratti, unico caso al mondo di badante più anziana del badato. Non è un lavoro per tutti: serve essere ben cementati da secoli nella classe dirigente e avere ampie conoscenze nel business della sanità privata. Ma alla fine quel che conta è saper fare meglio di Fontana, quindi se avete un gatto andrebbe bene anche lui.

Le petit Macron – Altra professione emergente, il federatore di sfigati, che si mette in testa di prendere quattro-cinque forze politiche private e farne una forza contrista tutta intera, capitanata, nel caso, da lui medesimo: il nuovo Macron. Si tratta di un secondo tentativo di piazzarsi sul mercato del lavoro, visto il precedente tentativo di fare il nuovo Blair. Lavoro dalle prospettive incerte: si consiglia di avere anche altre fonti di reddito, tipo agiografo di regimi dittatoriali.

mer
17
feb 21

Al governo. C’era una volta il tecnico che si elevava sopra le zuffe di partito

PIOVONOPIETREIl mantra distensivo e paraculo del “niente veti” che ha tenuto banco per un paio di settimane prima dell’annuncio della squadra del nuovo governo si sta pian piano sciogliendo come un ghiacciolo a ferragosto. Primo caso, lo sci e le botte da orbi sull’ordinanza che rimanda l’apertura di piste e impianti: il ministro del turismo (Lega) contro quello della Sanità, i renzisti a fare il coro, Forza Italia scontenta dei suoi ministri, il Pd indeciso e attonito, as usual. Il tutto mentre va in scena l’ordalia dei sottosegretari: duecento famigli da piazzare, l’un contro l’altro armati, in un vorticare di correnti, mulinelli, risarcimenti (il Pd e le donne), riequilibri, colpi bassi. Tutto già visto, grazie.

Di già visto, però, c’è anche un altro elemento, se possibile più divertente per noi mangiatori di popcorn che osserviamo a bordo campo: s’avanza il fantasma dell’opposizione interna. Cominciò Salvini – questo grande europeista – ai tempi del Conte Uno: si accorse che stare al calduccio nel governo era comodo, ma che fare il diavolo a quattro come il più agguerrito oppositore pagava in termini di consenso (il finto consenso dei sondaggi), e si sa come finì. Stessa cosa nel Conte Due, con protagonista Renzi: sparare sull’ambulanza pur essendo a bordo garantiva una certa visibilità (che, in mancanza di voti, è quel che brama il leader filo-saudita). In sostanza, stare tutti dentro potrebbe garantire a ognuno l’ebbrezza di stare anche un po’ fuori, tipo che alla mattina lavi i vetri del Palazzo (da dentro) e al pomeriggio li rompi a sassate (da fuori). Divertente. Aggiungete alcune scelte bislacche che certo non calmeranno le acque. Uno per tutti: Renato Brunetta alla Pubblica Amministrazione, dove già sedette nel 2008 insultando chiunque avesse un posto pubblico (i tornelli, i fannulloni, i lavoratori precari definiti “L’Italia peggiore”, e altre amenità). La sua riforma della PA fu un tale glorioso fallimento che oggi si avverte di nuovo il bisogno di una riforma della PA: richiamare Brunetta è come richiamare l’idraulico che già una volta ti allagò la casa.

Insomma, gli applausi scroscianti per il governo Draghi (sindrome Monti) si sono un po’ attutiti dopo la presentazione della squadra: persino gli ultras del colpo di mano speravano meglio.

Interviene a questo punto la narrazione ipergovernista secondo cui “tanto farà tutto Draghi”, e il resto è confuso dettaglio. Un po’ come se nel peggiore bar di Caracas, dove tutti si sputano e si accoltellano, ci fosse una stanzetta riservata – un privé, direbbe Briatore – dove Draghi e i suoi “tecnici” si occupano seriamente delle cose serie. Bella immagine, ma strana concezione della democrazia: i “capaci” (sempre per autodefinizione, ovvio, mica per i risultati) lavorano, e gli altri si picchiano come fabbri, cazzi loro.

Spunta dunque – spunterà – la tentazione di maggioranze variabili: chi c’è c’è, una volta si accontenterà Salvini, un’altra Zingaretti, la terza toccherà ai 5s o a Silvio Buonanima, o a qualcun altro, magari qualche boccone verrà gettato ai cespuglietti, ai renziani, o ai calenderos, o cose così. Un tentativo, nemmeno troppo nascosto, di far passare l’idea che i tecnici sono bravi ed efficienti, mentre la politica dà il suo triste spettacolo di rissosità, che al governo litigano e si tirano sonori ceffoni, mentre il capo del governo – che l’ha messo in piedi – lui si che è bravo, avercene! Bella favoletta, edificante e sontuosamente qualunquista. Che poi funzioni è tutto da vedere.

mer
10
feb 21

La metamorfosi. Oggi uno va a letto sovranista e si sveglia europeista

PIOVONOPIETRELasciamo da parte l’agiografia canaglia, i 768.000 compagni di scuola di Draghi già censiti dai giornali (era il più bravo), le notazioni sportive (calcio, basket, sempre insuperabile, non si hanno notizie su hockey e sci di fondo, ma arriveranno), il casale in campagna, la moglie silenziosa, il rigore morale, eccetera eccetera. Sarebbe facile farci dell’ironia, ma suonerebbe tutto già sentito, perché se c’è una stupidaggine nazionale storica è quella dell’esultanza per la scoperta geografico-politica dell’ultima spiaggia. Era “l’ultima spiaggia” Monti, era “l’ultima spiaggia Renzi”, e si è visto. Ora c’è questa nuova “ultima spiaggia”, Draghi, il che fa supporre che basta, chiuso, spiagge buone non ce n’è più, e l’alternativa è schiantarsi sugli scogli. Invidio l’abbondanza di litorali balneabili, ecco, mettiamola così.

Sistemata la questione entusiasmo, comprensibile e in qualche modo prevista, resta sospesa a mezz’aria la vecchia favola, sempre affascinante, del “governo dei migliori”. Ma per ora, non conoscendo nomi e biografie di questi migliori, si accetta che ci sia un governo del migliore – Draghi – e tutti gli altri più o meno quelli di prima, cioè i peggiori, cacciati in vari modi, sbertucciati per mesi, accusati di ogni schifezza. Avremo dunque quelli che mangiavano i bambini a Rignano insieme a quelli che rivogliono la lira, insieme a quelli che insistono per ricoprirci di soldi se stiamo sul divano a fare un cazzo, che è l’interpretazione del Reddito di Cittadinanza di quelli che non ne hanno bisogno, eccetera eccetera. E anche qui si potrebbero fare notazioni linguistiche interessanti, per esempio perché parole come “ammucchiata” o “accozzaglia”, diventino di colpo “responsabilità nazionale”. Insomma, una riforma la si è già portata a casa, quella del vocabolario, con il Mattarella-Draghi al posto del Devoto-Oli.

E’ tutto un girarci intorno, però, mentre la questione centrale resta un’altra, quella del “commissariamento della democrazia parlamentare” con tutto il contorno di commenti su una classe politica che “ha fallito”, i partiti che “sono morti”, e altre sentenze simili, per cui è ora che arrivi uno bravo e rimetta le cose a posto. Appoggiato però – Comma 22 – dalla stessa classe politica che “ha fallito” e dagli stessi partiti che “sono morti”. Mah.

Allo stesso tempo, per onestà e completezza, va detto che sì, in effetti, non è facile assolvere la politica così come la vediamo oggi. Non per nostalgia, ci mancherebbe, ma le svolte politiche appartenevano un tempo a noiose consuetudini e riti, tipo discussioni interne, votazioni, congressi (qui un po’ esagero), persino discussioni nella base (qui esagero troppo), e comunque scontri tra affinità e divergenze. Oggi – superate quelle vetuste antichità – uno va a letto sovranista amico di Orban e si sveglia europeista fan della von der Leyen, come un Gregor Samsa alla rovescia, che si corica scarafone e si sveglia persona normale.

Si ride di questa assurda metamorfosi, ma non è l’unica. C’è anche la metamorfosi di tutti quelli (tutti, quindi) che amano usare la parola “mai”, una fesseria, perché dire “mai con questo” e “mai con quello” e alla fine doverci andare a vivere per forza, non è una bella figura. Un mimetismo tattico che non incoraggia, diciamo, la rivalutazione delle forze politiche in campo (eufemismo); o meglio insegna a tutti che principi sventolati come sacri, punti fermi, valori non negoziabili, erano alla fine non troppo fermi, non troppo sacri e negoziabilissimi.

mer
3
feb 21

Ultimi ricatti. Scalfarotto re del Belgio. Meb a Fiume e Bellanova a Versailles

PIOVONOPIETRECon i retroscena più veloci dei retroscenisti, la crisi di governo in atto, innescata dal teorico del Rinascimento Saudita, presenta aspetti interessanti in ogni campo, non escluso quello della psichiatria. Il ruolo centrale di un partito che non si è mai presentato alle elezioni, accreditato nei sondaggi del voto dei parenti stretti (non tutti, a giudicare dalle percentuali) e i cui rappresentanti sono stati eletti dal Pd (lui compreso), dimostra l’eterna validità di un assunto ormai centenario. In teatro, a chi disturbava dalla galleria, Petrolini diceva apertis verbis: “Io non ce l’ho con te ma con chi non ti butta di sotto”. Ecco, questo per dire che cedere a un ricatto è il modo migliore, praticamente sicuro, di subire il prossimo ricatto, e poi il prossimo, e poi il prossimo, eccetera eccetera. Ma veniamo al dettaglio degli avvenimenti, che si susseguono a velocità sostenuta.

Ore 8.15 – Renzi chiede il ministero dell’economia, quello della giustizia, trasporti e lavori pubblici; poi Inps, servizi segreti, l’abbonamento a Sky per due anni, quindici punti in più per la Fiorentina e due aeroporti a Firenze, Nord e Sud, con Nardella controllore di volo.

Ore 9.25 – “Irresponsabile chiusura dei partiti avversari”. Così Renzi commenta il titubante no alle sue richieste. In un comizio al Quirinale, ormai trasformato in Leopolda per i suoi show, aggiunge all’elenco 46.000 km quadrati in Mongolia da affidare a Rosato, la comproprietà di Cristiano Ronaldo, una Bentley decapottabile, Fiume italiana con governatore Maria Elena Boschi. Tutto naturalmente per il bene dei nostri figli, per i quali già costruì con le sue mani “mille asili in mille giorni”.

Ore 10.40 – “Sconvolto dai veti”, Matteo Renzi apre alla trattativa e concede qualcosa: i km quadrati di Mongolia per Rosato scendono a 30.000, ma è un cedimento che va bilanciato con due miniere di diamanti in Sudafrica e la reggia di Versailles in comodato d’uso per dieci anni a Teresa Bellanova, perché una che ha fatto la bracciante merita di spassarsela un po’ nel lusso, oltre alla soddisfazione di gettare qualche brioche dal balcone.

Ore 12.45 – Nuova coraggiosa proposta di Italia Viva: Scalfarotto re del Belgio.

Ore 14.50 – Le trattative proseguono a ritmo serrato. Viste le titubanze delle controparti, Renzi decide per il rilancio: il Reddito di Cittadinanza può restare in vigore, ma solo per chi ha donato qualcosa alla fondazione Open. Nell’ambito di un ridisegno della politica estera, pretende invece l’annessione di Nizza e Savoia, la Corsica, la Libia e altre nomine all’Eni, dove ha già piazzato gente che non distingue un idrocarburo da un cucciolo di koala.

Ore 16.20 – Matteo Renzi concentra la battaglia sul ministero dei Lavori Pubblici, perché le infrastrutture sono un bene inestimabile per i nostri figli e nipoti, a cui va costantemente il suo pensiero. Tra i progetti più interessanti, un’avveniristica illuminazione a led per gli ospedali e le scuole dello Yemen, in modo da permettere agli amici sauditi di bombardarle con più agio, senza sprecare preziose bombe italiane la cui fornitura è stata colpevolmente interrotta dal governo Conte.

18.15 – Inaspettato rilancio: Scalfarotto imperatore della Turingia.

20.10 – Riprendono gli incontri al Quirinale, dove Renzi si presenta con un venditore Tecnocasa e prende appunti: bisognerà abbattere dei tramezzi, rifare gli infissi e acquistare nuovi arazzi.

21.00 – Spiace ripetersi, ma tocca farlo: io non ce l’ho con te, ma con chi non ti butta di sotto.

mer
27
gen 21

Propaganda social. L’arte maldestra dei politici di dirsi “bravo” da sé

PIOVONOPIETREBravo! Grazie! Il Nerone di Petrolini (correvano gli anni Trenta) ingrossava gli occhi a palla e fissava il pubblico col mento proteso. “Bravo! Grazie”, se lo diceva da solo, scimmiottando in modo esilarante le pose ieratiche, mascellone compreso, del Puzzone di Palazzo Venezia. Grandissimo comico, ovvio, e chissà che non sia stato lui a inventare la moda, oggi frequentatissima, di dirsi “bravo” da solo. Piccola differenza, lo faceva da un palco malmesso dell’avanspettacolo e non dai social media, come fanno certi politici di oggi, non meno divertenti né meno simpatici di Petrolini. Tipo Carlo Calenda, che sotto un suo post firmato Carlo Calenda, mette un commento twitter firmato con la faccia e il nome di Carlo Calenda che dice: “Grazie, Carlo”. Puro Petrolini.

Non facciamone un caso. Come da copione, l’autocandidato sindaco di Roma incolpa il social media manager, cioè “la ragazza” che gli cura gli account. Insomma, “Grazie Carlo” doveva scriverlo qualcun altro, un Franco76 o una Giovanna 61, o altri account farlocchi deputati ai complimenti al capo, e solo un incidente di tastiera ha fatto in modo che a dire bravo al capo risultasse il capo stesso. Bravo! Grazie!

Bisognerà un giorno parlare anche di questi benedetti social media manager, la cui funzione, più che comunicare il pensiero del Principale, sembra sia fare il Malussène, il capro espiatorio, sacrificabile a ogni stupidaggine del capo. E del resto, l’inciampo mediatico di Calenda (che naturalmente ha reagito insultando i giornalisti che gli facevano notare l’assurdità) ha aperto la stura ad altri casi famosi. Il senatore Pillon che si diceva da solo “Bravo Pillon”, “Coraggio!”, “Vai avanti” e altri incoraggiamenti da Templare; oppure Marianna Madia che si diceva anche lei da sola “Brava Marianna” e via così. Decine di esempi che tirano su il morale, perché ci indicano che il grande Petrolini non è dimenticato, ma lotta e vive insieme a noi, tutti i giorni, su Twitter, Facebook, Instagram e altre reti sociali che certificano l’esistenza in vita di alcuni leader (?) moderni.

Non c’è solo l’autocomplimento, certo. C’è anche il training di gruppo, tipo corso motivazionale per il venditore dell’anno. Così ecco che, mentre infuriavano le voci di una spaccatura in Italia Viva, molti deputati e senatori renziani hanno postato la stessa foto, alla stessa ora, con più o meno lo stesso testo. Una foto di gruppo con la pattuglia parlamentare di IV sorridente e festante (anche un po’ brilla, se è consentito), a sottolineare la granitica unità del gruppo. Bene, giusto, lo spogliatoio unito attorno al mister. Ma poi, ecco l’incidente, perché il diavolo è nei dettagli. La senatrice Donatella Conzatti, giunta fino a Italia Viva dopo breve tragitto (veniva da Forza Italia), posta quella stessa foto con un volto cancellato. Mistero. Suspense. Chi sarà l’epurato dalla foto, cancellato col pennarello, tagliato via come Trotzky dai dagherrotipi con Lenin durante gli anni bui del photoshop staliniano? E’ Vito De Filippo, nel frattempo tornato nel Pd, e quindi depennato con uno scarabocchio sul volto. Instagram 2021 come Mosca 1936, si parva licet, diciamo. Niente di male, abbiamo altri problemi, com’è noto, quindi risparmio la moraletta sull’uso e abuso di propaganda che sfiora l’autogol e il ridicolo. Certo non mi spingerei fino al limite estremo “dimmi come usi i social e ti dirò chi sei”, perché ne uscirebbe un quadretto assai desolante e non c’è bisogno di ulteriore depressione. Bravo! Grazie!

mer
20
gen 21

Fake news. Quella finta storia del rider ricco felice: La Stampa dà i numeri

PIOVONOPIETREDacci oggi il nostro veleno ideologico quotidiano, ovvero come piegare la realtà ai propri desideri e vivere felici. Chiedo scusa se dopo il solenne Giorno del Pallottoliere (ieri al Senato) mi occupo di piccole pieghe della vita reale, ma corre l’obbligo, e capirete perché. Tutto comincia la scorsa settimana, con una rubrica di Antonella Boralevi, illustre scrittrice, sull’illustre quotidiano La Stampa. Titolo: “Da commercialista a rider felice”. Storia edificante: si parla del signor Emiliano, 35 anni, che aveva uno studio di commercialista, ma “il Covid gliel’ha fatto chiudere” (sic). Lui non si è perso d’animo e ha cominciato a fare il rider, a consegnare pizze e pranzi e cene, pedalando in bicicletta per “100 km al giorno” (sic) e guadagna 2.000 euro netti al mese e in certi mesi addirittura 4.000. “Uno stipendio da manager. Ed è felice” (sic). Segue virulenta intemerata sulla dignità del lavoro, il rispetto di sé, la vergogna del Reddito di Cittadinanza elargito a due milioni e passa di persone che – manigoldi – stanno a casa a far niente, mentre potrebbero anche loro guadagnare “come un manager” consegnando pizze. Insomma una notizia, seguita dalla moraletta, la solita vecchia solfa sulla colpa dei poveri, che sono poveri e assistiti perché non muovono il culo pedalando per 100 km al dì. Troppo bello per essere vero.

E infatti non è vero.

Il rider felice non si chiama Emiliano (ma Emanuele), non ha 35 anni (37), non ha mai avuto uno studio di commercialista, fa il rider dal 2018 (quindi prima del Covid), non in bicicletta (moto), non guadagna né 2.000 né 4.000 euro al mese, ma arriva a 1.600 se lavora nove ore al giorno tutti i giorni della settimana, tutte le settimane dell’anno. Ciliegina sulla torta, viene fuori che questo Emiliano/Emanuele è un grande sostenitore del cottimo, già organizzatore di un sindacato giallo messo su di concerto con qualche azienda del settore, favorevole al contratto truffa sottoscritto solo da un minuscolo sindacato di destra che tutti i rider del regno schifano e denunciano come abusivo.

Tutto benissimo: la storiella edificante che la signora Boralevi usa per insultare chi è costretto a chiedere un aiuto allo Stato è un tale concentrato di menzogne, imprecisioni e assurdità perfettamente ricamate da rasentare il falso ideologico. Qualcuno – en passant – fa notare che al regime di paghe attuale per incassare 4.000 euro netti consegnando pasti bisognerebbe correre dalle 18 alle 20 ore al giorno, sette giorni si sette, ma pazienza, basta imparare a dormire pedalando.

Naturalmente non è l’incidente giornalistico della signora Boralevi che ci preoccupa, anche se ha provocato parecchie contusioni alla realtà, alla verità e al buonsenso. La parte illuminante della storia è invece il sottotesto, antico ma mai morto: i poveri (sette milioni e passa, nel Paese) non hanno dignità né rispetto di sé, mentre il signor Emiliano/Emanuele, la cui storia (inventata) sembra alla signora Boralevi “non di ‘colore’, ma di speranza” (sic), ci dà una lezione di vita. Insomma, un esempio per tutti quegli sciagurati che stanno sul divano a far niente incassando un lauto (?) assegno mentre potrebbero fare la Milano-Sanremo carichi di pizze tutti i giorni, vivere felici, e perdipiù mostrare con il loro luminoso esempio che i poveri d’Italia, Covid o non Covid, sono gente senza dignità. Una buona dose di veleno ideologico, insomma, un po’ di sale soavemente liberista sulle ferite aperte di chi non ce la fa e chiede aiuto invece di pedalare. Che stronzi, eh?

mer
13
gen 21

Carpiati alla Meloni, dai fascismi a Donald Trump difende l’indifendibile

PIOVONOPIETRENon si leggeva un così intenso romanzo epistolare dai tempi de I dolori del Giovane Werther (Johann Wolfgang Goethe). Roba vecchia, démodé. Meno male che adesso tutto si ammoderna e si attualizza con il carteggio “Lettere a La Stampa” (Giorgia Meloni), scambio di missive (articolo-risposta, risposta alla risposta, risposta alla risposta alla risposta) tra la segretaria di Fratelli d’Italia e il direttore del quotidiano torinese Massimo Giannini. Lui a dire che quella di Fratelli d’Italia è una destra che andrebbe un po’ ripulita, specie alla luce delle ambiguità sul tentato golpe trumpista, lei a battersi come un leone per negare. Lui a dire che la sora Meloni e il baciatore di salami Salvini giocano a fare gli “sciamani d’Italia” (come quel cretino che ha invaso il Campidoglio Usa vestito come se stesse per recarsi a Pontida), lei indignata per il paragone. Ciliegina sulla torta, un tweet della signora Meloni sui fatti di Washington, così ambiguo, ma così ambiguo, da rasentare la perfezione del paraculismo. Testuale: “Mi auguro che le violenze cessino subito come chiesto dal presidente Trump”. Che è un po’ come dire: “Mi auguro che si spenga l’incendio nel bosco come chiesto dal piromane che l’ha appiccato”.

Un carpiato, insomma, succo concentrato di malafede. Che diventa ancor più esilarante quando si ricorda alla Meloni l’assessora umbra Clara Pastorelli, che si fa una foto agghindata come lo sciamano di Capitol Hill. Uh, che reazione: “La signora indossa un cappotto e un colbacco!”, dice la Meloni. Questa è la sua arguta difesa, come ammettere che l’assessora umbra non è riuscita a procurarsi un cappello con le corna e si è adattata, problemi di trovarobato, insomma.

Il carteggio, va detto, è sui fatti americani e alla fin fine si incentra su questa domanda: è possibile che un partito che mira a governare il Paese continui a schierarsi con un (ex, tra poco) presidente americano che incita all’insurrezione, appoggia le milizie filonaziste, blandisce e corteggia certe sette di squinternati pericolosi tipo Qanon, sostiene gente che indossa magliette che inneggiano all’Olocausto? Quesito interessante.

Ma si tratta solo di un pezzettino della questione, perché anche in Italiai dubbi su Fratelli d’Italia sono numerosi. Proprio nei giorni del carteggio, per dirne una, un’altra assessora di FdI (Regione Veneto, assessore all’istruzione, andiamo bene, Ndr), Elena Donezzan, intona Faccetta nera ai microfoni della radio di Confindustria, in un programma dove (sentito con queste orecchie) il conduttore riceve telefonate dalle ascoltatrici per capire chi offre di più per fargli un pompino (giuro). Il caso Donezzan si aggiunge ad altre decine, forse centinaia. C’è quello vestito da nazista, quello con la foto del duce, il consigliere comunale che fa il saluto romano, l’attuale “governatore” delle Marche che va a cene celebrative della marcia su Roma, col Puzzone stampato sul menu. La difesa è sempre stata ridicola: si va da “Ragazzate” a “Una mela marcia”, a “Strumentalizzazioni”. Insomma, si minimizza la prevalenza della nostalgia fascista all’interno di un partito che – ricordiamolo a Crosetto e alla sora Meloni – ha nel simbolo la fiamma del Msi, oltre a detenere il poco invidiabile record di arrestati per ‘Ndrangheta. Ora aspettiamo altre lettere, missive, carteggi e corrispondenze per negare, minimizzare, parlare d’altro o buttare la palla in tribuna. Insomma, nuovi capitoli de I dolori della giovane Giorgia, romanzo epistolare. Un po’ noioso, a dirla tutta.

dom
10
gen 21

Buone letture. I racconti satirici sovietici di Michail Michajlovič Zoščenko

Per la serie “consigli non richiesti”, ecco la recensione dei Racconti sentimentali e satirici che Michail Zoščenko ha scritto e pubblicato in patria tra il ’22 e il ’37, prima che Stalin e il suo cane da guardia Zdanov si accorgessero di lui. Si ride un bel po’. Recensione comparsa su TuttoLibri de La Stampa il 9 gennaio

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mer
6
gen 21

Gli studenti, dimenticati da tutti, forse perché non incidono sul Pil

PIOVONOPIETRE“Trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere”. Bello, eh? Piero Calamandrei, un padre della Patria. Giusto. Bravo. Ma quando? Si era detto, per le superiori, per esempio, il 7 gennaio, con densità del cinquanta per cento, a rotazione. Poi alcune regioni… Poi qualche partito… Poi di nuovo le regioni… Insomma facciamo l’11, o forse dopo, vediamo. Che poi dipende pure da dove abiti, quale tattica di sopravvivenza ha scelto il presidente della tua regione usando chiusure e aperture come pedine dei suoi scacchi, dagli equilibri romani di qualche palazzo o palazzetto, o segreteria, da qualche corrente, eccetera eccetera. Insomma, ‘sto fatto dei sudditi e dei cittadini sì, è bello, ma magari lo rinviamo un po’, perché qui non funzionano gli autobus.

Pare infatti accertato che il problema non sia la scuola, nel senso delle lezioni in presenza (bassa percentuale di contagi, secondo l’Iss), ma il modo di portarci studenti e insegnanti che affollano – maledetti – i mezzi pubblici. E’ un problema ben noto, almeno dal primo lockdown, che rimane intatto, intonso, irrisolto. Eh, che ci vuoi fare, il problema sono i mezzi pubblici.  Dieci mesi dopo: Eh, che ci vuoi fare, il problema sono i mezzi pubblici. Cioè ministri, “governatori”, sindaci della settima potenza mondiale (?) in dieci mesi non sono riusciti ad architettare un modo serio e sicuro per portare la gente a scuola. Mi appello alla clemenza della Corte.

Ma poi, al di là delle tattiche e delle strategie, delle aperture annunciate e rinviate, del gioco a rimpiattino tra potere centrale e potere locale, la cosa che emerge è un pensiero di fondo, sotterraneo e, se così si può dire, trasversale, inconfessato ed evidente, un retropensiero tenace: lo studente non produce reddito, non aiuta il sacro Pil, quindi nella scala delle priorità finisce ultimo. Il divario tra narrazione e realtà è, in questo caso, clamoroso, una voragine. Da un lato il coro unanime “ragazzi studiate!”, e quando protestano o fanno un corteo “Non hanno voglia di studiare!”. E poi, nei fatti, eccoli chiusi dietro collegamenti precari, con mezzi tecnici spesso inaffidabili, quando ce li hanno, nuovo (ma prevedibilissimo) discrimine di classe che si condensa nel gap tecnologico immenso tra ricchi e poveri. Ma anche di più: sospesi in un limbo di invisibilità, circonfusi da un’aura di sospetto e di colpa imminente: “Vuoi far morire il nonno solo per seguire una lezione? Che egoismo!”.

Non si può dire quali effetti avrà questa sospensione della vita sociale e culturale di qualche generazione: per valutare le ricadute psicologiche ci vorrà tempo. Qualche conteggio più tecnico, invece si potrà fare presto, perché il calcolo della dispersione scolastica è abbastanza semplice di anno in anno. L’Italia sta messa bene, grazie, ai primi posti in Europa, la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che ha mollato prima del diploma è del 13,5 per cento (Eurostat, 2019), e aumenterà senza dubbio. Significa decine di migliaia di italiani ogni anno destinati a lavori a bassa specializzazione, spediti ad affollare i piani bassi del mercato del lavoro, culturalmente deboli, insomma, una massa di manovra piuttosto utile. Quando saranno non più studenti, ma garzoni, precari di ogni tipo, lavoratori interinali, a intermittenza o a chiamata, allora potranno affollare i mezzi pubblici senza problemi e senza clamori per andare a lavorare. Ditelo a Calamandrei, bella quella cosa dei cittadini e dei sudditi, ma non è il momento, eh!

mer
30
dic 20

Buon esempio. Ho deciso: faccio anch’io il testimonial del vaccino

PIOVONOPIETRELo dico subito: anch’io voglio dare l’esempio, come il Re della Campania (basta chiamarli “governatori”!) Vincenzo De Luca. Tendere virilmente l’avambraccio a favore di ago, guardare dritto in camera e dire: “Fate come me, vaccinatevi!”. Va bene, accetto anche il “chi ti credi di essere”, giusto, ma vi assicuro che per i miei condomini, il barista, la signora della lavanderia e il panettiere, sarei un buon esempio da seguire: “Presto, vacciniamoci tutti come ha fatto quello del secondo piano!”. Forse sopravvaluto la mia popolarità nel quartiere, d’accordo, e visto che si parla dell’alta missione di dare l’esempio, cambierò esempio.

Elvis Presley, Marylin Monroe e altri eroi del Novecento si fecero vaccinare in diretta, proprio per dare un esempio. E uno può capire un giovanotto degli anni ’50 che dice: “Faccio come Elvis!”, che è un po’ diverso dal guaglione napoletano che esulta: “Faccio come De Luca”. Insomma, la faccenda ci porta dritti alla questione del “testimonial” che si pone ogni giorno in ogni agenzia pubblicitaria in cui si decida di associare un prodotto a un volto: e se poi sta sulle balle a tutti? Ecco, De Luca a parte, visto il tasso di popolarità della classe politica nel suo complesso, la cosa potrebbe risultare rischiosa, consiglierei di scegliere altri testimonial (che so, gli astronauti, i tapparellisti, i centrocampisti del Crotone), che abbiano almeno qualche minima considerazione in più presso la popolazione.

Eppure, chiunque dia l’esempio, c’è qualcosa che stride. Cioè: si dà l’esempio per invitare chi non ha il coraggio, per stimolare gli scettici, per indicare una strada. E qui arriviamo al punto: non sarà un po’ (molto) sopravvalutata questa mirabolante falange No Vax che si sbandiera tanto? Da quel che si legge in giro abbiamo una componente cyber-dadaista (la siringa che ti inietta il chip, che ti controlla direttamente da Pechino coi soldi di Soros, il 5G, eccetera, insomma stregoneria hi-tech); poi una componente scettico-dietrologica (è tutto un trucco per arricchire le case farmaceutiche, con varianti geopolitiche a piacere); e infine una parte di comprensibile prudenza, che si sistemerà con i tempi (cioè, appena si capirà che i primi mille vaccinati non si trasformano in meduse e non muoiono sul colpo). Una percentuale minima della popolazione, insomma, mentre la stragrandissima maggioranza, pur di levarsi dalle palle gel, mascherine, lockdown, limitazioni, solitudini e isolamenti, tenderà volentieri l’avambraccio senza bisogno di tanti esempi (e in ogni caso dovrà aspettare mesi, data la sacrosanta scaletta delle priorità).

Visto da questa angolazione, il gesto di generosità di De Luca e di tutti gli aspiranti “esempi vaccinali viventi” suona un po’ come: “Fermi tutti! Mi sacrifico! Do l’esempio! Mangio io la prima fetta di torta al cioccolato!” (grazie al cazzo, ndr). Insomma, può venire il dubbio che questo cortocircuito tra nemici così residuali da sembrare immaginari, i No Vax, e l’esercito dei “datori di esempio” sia un po’ sospetto, che dia molta visibilità ai primi (che contano come il due di coppe) e procuri facile popolarità ai secondi. Mentre un esempio di buon esempio (chiedo scusa) per tutta la popolazione sarebbe che so, il ragionier Gino che una mattina prima di andare in ufficio passa alla sua Asl dopo regolare prenotazione, fa la sua puntura, ci mette un’oretta, come se fosse una cosa assolutamente normale, veloce, dignitosa, facile, gratuita e civile che protegge lui e gli altri. Fine dell’esempio.

mer
23
dic 20

Natale a Rignano. Si tratta su tutto, dai canditi a come si aprono i regali

PIOVONOPIETREChe sono tempi bui lo abbiamo già detto, vero? Che non sarà il solito Natale lo abbiamo letto da qualche parte, giusto? Bene, metà del lavoro è fatto. Ora passiamo a trattare l’argomento “Feste-in-pochi-e-in-zona-rossa”, con piccoli accorgimenti e trucchi per passare in armonia i giorni più santi dell’anno, quelli in cui si celebra la gloria del bambinello. No, non quello là che pensate voi, un altro bambinello, quello di Rignano.

Le settimane della vigilia sono state agitate e ricche di discussioni. Si faceva l’albero, e lui minacciava di fare il presepe, in subordine, ok, fare l’albero ma che non sembri un cedimento! Vuole scegliere le luci, poi appendere almeno una pallina ma non si può mettere il puntale finché non c’è la Bellanova. Alla fine, dopo estenuanti tira e molla, si è fatto l’albero, lui ha messo una pallina gialla sul terzo ramo dal basso e ha rilasciato gioiose dichiarazioni in cui “Senza di me sarebbe stato un Natale senz’albero!”.

Questo il pregresso. Ma veniamo al magico giorno della festa.

Il gioco dell’oco. Non c’è gusto a fare la tombola in quattro o cinque, e anche il Mercante in Fiera perde molto del suo fascino senza il nonno rincoglionito a cui bisogna dire le cose tre volte. Quindi, un consiglio: il gioco dell’oco. Funziona sempre. Tabellone, dadi, sapienti tattiche e qualche variante nelle regole: un giocatore parte con due punti e mezzo, tira i dadi, spariglia, minaccia, piange, supera, arretra, arringa le folle, rilascia sette interviste al giorno sulle sue impareggiabili strategie, e alla fine resta… con due punti e mezzo. Non è successo niente, ma ci siamo divertiti. Lui un po’ meno, ma dice che ha vinto. Tutti allegri.

Il panettone. Altro snodo cruciale del Natale, la cerimonia del panettone. Ma attenzione, c’è un commensale deciso a sollevare qualche problema. Non vuole i canditi, come ha dichiarato al Corrieredue settimane fa. Non vuole l’uvetta come ha rivelato in un retroscena già all’inizio del mese. Contesta che il panettone sia tagliato a fette triangolari. Valuta nuove maggioranze tra i commensali per aprire il pandoro, ripetendo che non fa tutto questo casino per avere una fetta di panettone in più. Ma poi, a pensarci, chi metterebbe lo zucchero a velo sul pandoro? Vuole che la stesura sia collegiale. Allora torna al panettone, vuole tagliarlo lui, in subordine far aprire lo spumante a Rosato. Qualche consiglio agli altri commensali: è Natale, non litigate, dategli una fettina più grossa e vedrete che si placa. Di spumante, bevetene parecchio, ne avrete bisogno.

I regali. Ci avviciniamo al dramma. L’apertura di pacchi e pacchettini è un momento che rivela molto della natura umana, da come si esprimono gioia e sorpresa, a come si mascherano le delusioni. Le famiglie più sagge sanno che azzeccare il regalo per il ragazzo difficile è fondamentale, e qui potete sbizzarrirvi, giocare sui bei tempi andati (un bel modellino di aereo presidenziale), o puntare sulle sue abilità alla Playstation, con nuovi games fantasy, tipo “Rottamator”, un eroe sparatutto che finisce a spararsi in un piede. Un consiglio per farlo felice: il modellino Lego della Farnesina da montare, che ci tiene tanto. Per i carrarmatini del Risiko bisogna aspettare che si liberi un posto alla Nato, portate pazienza.

Nel frattempo si è fatta sera, siamo un po’ storditi e stanchi. Ci meritiamo un po’ di relax, magari la tivù, un telegiornale. Dove compare un tizio che dice che è stato un Natale bellissimo. Per merito suo. Dovremmo ringraziarlo.

mer
16
dic 20

Primule e Covid. E’ come comprare l’astuccio di velluto prima dell’anello

PIOVONOPIETREPiccola doverosa premessa: non ho nulla – ma proprio nulla – contro le primule, tutte le oltre cinquecento specie di piante primulacee che rallegrano i prati nelle nostre primavere. E non ho nulla – anzi – nemmeno contro l’architetto Stefano Boeri che con tanto entusiasmo ci ha spiegato il perché e il percome della scelta di questo allegro fiorellino, con riferimenti colti (il Verrocchio, Pasolini, Sergio Endrigo perché “ci vuole un fiore”). Eppure questa bella edificante operazione di comunicazione & vaccinazione che prevede la collocazione di 1.500 padiglioni montabili nelle nostre piazze, risveglia certi anticorpi italiani allenati da anni e anni di soldi buttati, bellurie inutili, tentativi di rendere glam una necessità, e addirittura di farsi fighi – smart, fashion, friendly – per uscire dall’emergenza con una piroetta elegante, à l’italienne.

Lanciata dal commissario Arcuri, abbracciata con entusiasmo da Boeri, plaudita di qui e di là, l’idea è circolata bene, anche senza allegati: tempi e costi non si conoscono. L’architetto Boeri ha lavorato pro-bono, molti altri lo faranno, ma insomma: materiali, impianti elettrici, legni, viti, impianti di energia solare qualcosa costeranno.

Tenterò dunque di mettere a tacere i miei anticorpi italiani, quelli che mi ricordano il pupazzo Ciao dei mondiali del ’90, notti magiche, quando buttavamo i soldi dalla finestra in opere inutili (e alcune mai finite). Oppure – feticismo per lombardi – i 23 milioni spesi in tablet da Roberto Maroni per votare elettronicamente a un referendum-fuffa sull’autonomia lombarda. “Dopo serviranno alle scuole”, si disse. E le scuole si accorsero di avere in mano migliaia di fermacarte di due chili totalmente inutili. Ecco, diciamo che terrò a bada le mie madeleine ultraitaliane. Epperò…

 

Siccome vivo qui e non in una foresta del Borneo, capisco perfettamente l’esigenza di una grande campagna di informazione, sprone alla vaccinazione di massa, persino entusiasmo nello sforzo collettivo. Per cui immaginavo cinema vuoti, teatri, caserme, palazzetti dello sport, comandi dei vigili, oltre naturalmente alle asl, ospedali, studi medici, trasformati in posti per vaccinare la gente. E se apri un ambulatorio in un quartiere e poi lo lasci aperto dopo il Covid, pubblico, gratuito come articolo 32 della Costituzione comanda, non è che qualcuno si offende. E magari obbligare una clinica privata a destinare qualche spazio al pubblico per iniettare vaccini costa meno di un padiglione primulato.

Ma non è nemmeno questo – l’ottimizzazione delle risorse pubbliche – che stride, che irrita. C’è qualcosa di più profondo, che potremmo chiamare “sindrome da Expo” e che i milanesi conoscono bene. E’ quella vernicetta luccicante che si usa mettere per coprire le magagne. Bella e glamour, molto moderna e apprezzata: “Ne ha scritto il New York Times!” (me’ cojoni, ndr), che somiglia molto alla costruzione a tavolino, dall’alto, di un entusiasmo collettivo, e non riesce quasi mai. E’ come comprare l’astuccio in velluto prima dell’anello, o pensare al portachiavi prima di comprare la macchina. Trattasi, insomma, di propaganda, almeno finché non saremo sicuri che si troveranno i 3.000 medici e i 12.000 infermieri per far funzionale gli avveniristici padiglioni. E soprattutto che ci saranno tutti i vaccini da iniettare alla popolazione. Fino ad allora – fino alle garrule file attorno alle primule – la faccenda sa di bella confezione, gradevole fiocchetto, presentazione elegante. Il regalo, invece, chissà. Auguri.

mer
9
dic 20

Risse a palazzo. 209 miliardi di motivi per spararsi in un piede. Seguono clown

PIOVONOPIETRECamminare su una corda tesa tra due montagne, sfidare il vento tenendo l’equilibrio, bilanciare i pesi, avanzare a piccoli passi prudenti. E poi, quando meno te lo aspetti, estrarre una pistola e spararsi in un piede. Ecco, in sintesi, la questione politica che va in scena oggi, a cura degli antigovernativi che stanno al governo, mentre le opposizioni un po’ ci sperano e non credono ai loro occhi per l’occasione.

Non succederà, dicono gli esperti. Prevarrà il buonsenso. Arriverà qualche adepto della setta di Silvio a dare una mano, oppure Renzi dimostrerà ancora una volta di essere solo chiacchiere e distintivo, oppure i 5 stelle affetti da masochismo compulsivo si ridurranno di numero… Insomma, i bookmaker ci credono poco, ma tra gli scenari possibili c’è anche quello “fine di mondo”: una bella campagna elettorale in piena pandemia, la povertà che avanza, i licenziamenti che ripartono in tromba, i nervi a brandelli e 209 miliardi sul tavolo che fanno gola a molti.

Scenario interessante, e dopo entrano i clown.

Certo, è umano preferire il certo all’incerto. E vuoi mettere la rassicurante ripetitività immutabile di qualche mese di liti parossistiche, affermazioni assurde, campagne debilitanti, slogan, simboli, stracci che volano? Cose a cui siamo abituati, che hanno il caro sapore di casa. Uno, poverino, che dovrebbe tornare a baciare salami, agitare rosari e consumarsi il pollice a furia di selfie; l’altra che si sbraccerebbe come da un banco del pesce con il suo repertorio di patria e famiglia, attenta a nascondere i suoi arrestati per ‘Ndrangheta e altre faccenduole, oltre ai soliti camerati “boia-chi-molla” che spuntano come funghi ad ogni appuntamento elettorale. Poi ci sarebbe la compagine del cosiddetto centro-sinistra, con il Pd eternamente in mezzo al guado, un po’ lib, un po’ lab e un po’ vattelapesca; i 5 stelle che si menano come fabbri tra governisti e movimentisti in perenne odore di scissione; los renzistas (anche quelli “in sonno” nel Pd) che cercano di capire cosa gli convenga, ammesso che superino la soglia e riescano a entrare nel gioco. Aggiungete le varianti del caso, le tifoserie schierate, le giravolte estreme che già sappiamo – “Chiudere tutto!”, no, “Aprire tutto!”, a seconda dei sondaggi del giorno – il profluvio di puttanate sui social, ed ecco un quadretto del deplorevole spettacolo di arte varia che ci aspetterebbe. Unica consolazione: le care vecchie risse tra capataz dei partiti sostituirebbero temporaneamente gli incontri di wrestling tra virologi, un piccolo sollievo. Meglio, finché si può, non pensarci, e la speranza è che il voto di oggi allontani uno scenario tanto grottesco.

Solo una nota in margine. E’ prassi in questi casi dire che “la gente non capirebbe”, altro rassicurante topos delle fibrillazioni pre-crisi, frase sempre buona alla bisogna. Ma questa volta non è vero: la gente capirebbe, e forse ha già capito benissimo, che i mal di pancia forti arrivano insieme ai soldi, tanti soldi, abbastanza soldi da cambiare un Paese. E che sulla gestione di quei soldi si ridisegna non solo l’Italia (cioè, speriamo) ma anche il futuro degli equilibri politici e dei pesi che attualmente li garantiscono. I veti incrociati, i piccoli partitini del due per cento sempre più simili a lobby personali, gli aghi della bilancia, le furbizie da prima, seconda, terza Repubblica, verranno messe alla prova nel voto di oggi, e si potranno vedere in filigrana tutti i 209 miliardi di motivi per cui c’è chi sega il ramo su cui sta seduto.

mer
2
dic 20

Patrimoniale. Tassare i più ricchi? A trovarli, oggi come dieci anni fa

PIOVONOPIETREE’ già sparito dai giornali – puff – il dibattito sulla patrimoniale, considerato una specie di attentato al ceto medio, pur colpendo le ricchezze superiori a mezzo milione (lo 0,2 per cento, cioè mille euro fino al milione di ricchezza netta). Bon, basta, finito, pussa via. La proposta ha tenuto banco appena un paio di giorni, accolta dal solito scandalo su: a) il comunismo che arriva; b) lo Stato espropriatore; c) dove andremo a finire, signora mia.

In sostanza, in un paese dove la povertà galoppa e dove qualcuno propone di trattenere dei soldi agli statali a milleduecento euro al mese perché “sono privilegiati col posto fisso”, ci sono crisi di asfissia e svenimenti perché si oserebbe chiedere mille euro a chi sta (molto) meglio.

Va detta subito una cosa: la patrimoniale italiana contiene una sua contraddizione interna, cioè a contribuire sarebbero quelli che già pagano regolarmente le tasse, quelli che il fisco conosce bene, mentre ne resterebbero esclusi, come sempre, i nullatenenti con la Porsche, gli evasori professionisti, gli occultatori di capitali. E qui ci aggredisce un ricordo antico, una vera madeleine di cui ricorre in questi giorni l’anniversario. Correva il 4 dicembre 2011 (preistoria, eh?) e Mario Monti teneva una tesa conferenza stampa di insediamento, durante la quale illustrava il suo programma lacrime e sangue. A un certo punto la questione che non ti aspetti: “Come farete per tassare i grandi capitali?”. Opporca miseria, che domande. Monti rispose con le sue circonvoluzioni che tenteremo di tradurre: “Non è possibile, oggi, prendere in considerazione, nel concetto di patrimonio da un punto di vista conoscitivo delle posizioni individuali…”. Traduzione: ad oggi non sappiamo come individuarli, ‘sti grandi capitali, mannaggia. Poi continuava: “Avremmo potuto dire: dichiariamo che mettiamo da subito all’opera dei meccanismi conoscitivi nuovi che ci consentiranno tra due anni di avere un’imposta come quella francese sulle grandi fortune”. Traduzione: abbiamo pensato di avviare un’indagine per sapere chi sono – nome e cognome – questi detentori di grandi patrimoni e forse tra due anni lo sapremmo. Bello. Ma poi: “Cosa avremmo ottenuto in questa situazione di grave emergenza? Forse tra due anni ci sarebbe stato un po’ di gettito, ma oggi ci sarebbe stata un po’ di fuga”. Traduco di nuovo: potremmo cercarli, ‘sti ricchi che non pagano, ma quelli scapperebbero.

Punto. Fine della madeleine.

Sono passati nove anni e ancora siamo qui con il problema di non conoscere, o conoscere pochino, i detentori delle grandi fortune nazionali, che sì, bisognerebbe tassare, ma quelli scappano, che disdetta, eh! Uno si immagina una task force determinata e decisa tipo l’Fbi in Mississippi Burning (magari con Gene Hackman, perché no?), pancia a terra a cercare i grandi patrimoni italiani, e invece niente. Non si fece nel 2011 – sennò scappavano – e non si fece dopo, e anzi negli anni che seguirono fu tutta una gara a farsi le residenze fiscali all’estero. Dunque, a posto così, se ci sarà una piccola patrimoniale (dubito) sui ricchi veri la pagheranno – mugugnando – i ricchi già noti, e gli altri… salvi come al solito, allineati e coperti: non sappiamo chi sono, come da tradizione nazionale. Stop, fine del dibattito, si parli d’altro, please. I posti a tavola a Natale, i vecchi in autoreclusione nella cameretta dei nipoti con panettone allo Xanax passato sotto la porta, le piste da sci, il cenone. Ricchi? Ma che ricchi, su, non fatevi idee balzane.

mer
25
nov 20

Ricchi da Covid, 34 miliardi in mano a 40 italiani. E’ il virus, che bellezza!

PIOVONOPIETREMi piacciono moltissimo gli appelli alla compattezza e all’unità del Paese, che dovrebbe attutire i colpi della crisi da virus. Ne prendo appunto ogni volta su un taccuino, sottolineando qui e là, specie quando il monito viene dai piani più nobili della Repubblica. Disse Mattarella il 2 giugno: “C’è qualcosa che viene prima della politica e che segna il suo limite. Qualcosa che non è disponibile per nessuna maggioranza e per nessuna opposizione: l’unità morale, la condivisione di un unico destino, il sentirsi responsabili l’uno dell’altro”. Bellissime parole, sottoscritte all’unanimità da tutti – ma proprio tutti – i commentatori.

Passati quasi sei mesi, col Natale alle porte, il dibattito sull’apertura delle piste da sci che surclassa quello sulla riapertura delle scuole (che non vendono skipass, non fatturano in polenta e stanze d’albergo, quindi chissenefrega), sarebbe forse il momento di fare il punto sulla “condivisione dell’unico destino”. E così ci vengono in aiuto due ricerche, da cui grondano numeri e dati. Una è quella del Censis, che si può riassumere con pochi punti fissi: 7,6 milioni di famiglie il cui tenore di vita è seriamente peggiorato causa pandemia, 600 mila persone entrate in quel cono d’ombra che sta sotto la soglia di povertà, 9 milioni di persone che hanno dovuto chiedere aiuto (a famigliari e/o banche). L’altra ricerca viene da PwC e Ubs (le banche svizzere), e ci dice che i miliardari (in dollari) italiani erano 36 l’anno scorso, e che quest’anno sono 40, hurrà. La loro ricchezza complessiva ammontava nel 2019 a 125,6 miliardi di dollari e poi, in quattro mesi (dall’aprile al luglio 2020) è balzata a 165 miliardi di dollari, con un incremento del 31 per cento e oltre quaranta miliardi di dollari in più. In euro, al cambio attuale, fa 33,7 miliardi. E siccome i numeri sono beffardi e cinici, ecco che il totale fa più o meno quanto si è tagliato alla Sanità pubblica in dieci anni, che è poi la stessa cifra che arriverebbe indebitandosi con il Mes (circa 36 miliardi).

Non serve sovrapporre le due ricerche per capire che i vasi comunicanti della distribuzione della ricchezza non comunicano per niente, e alla luce di questi numeri le belle parole di Mattarella strappano un sorriso.

Vengono in mente, chissà perché, le continue metafore e similitudini con cui si paragona l’attuale crisi pandemica a una guerra: le trincee degli ospedali, gli eroi sul campo (medici e infermieri), i sacrifici della popolazione, l’incertezza su mosse e contromosse, la seconda terribile offensiva del nemico. E si dimentica volentieri, in questa continua, sbandierata analogia tra Covid e conflitto armato, che chi si arricchisce durante una guerra è più “pescecane” che “dinamico imprenditore”. Però – sorpresona! – di colpo, davanti alle cifre dell’impennata dei super ricchi italiani, la metafora del “Covid come la guerra”, solitamente molto gettonata, si scolora, si attenua, sparisce del tutto. Sarà una guerra, d’accordo, ma quelli che pagano sono i 600 mila scaraventati nella loro nuova condizione di molto-poveri, o oltre sette milioni di famiglie che stringono la cinghia e i denti. Pagano i tanti soldati, insomma, mentre i pochi generali festeggiano le loro rimpolpate ricchezze. Forse con i 34 miliardi piovuti in tasca ai 40 miliardari italiani si potrebbero attenuare problemi e sofferenze di qualche milione di persone. Come “condivisione di un unico destino” non sarebbe male, anzi, sarebbe un’ottima “unità morale” che, ovviamente, non vedremo.

mer
18
nov 20

Pandemia e vip, la cura del virus è diventata un vero status symbol

PIOVONOPIETREOgni tanto fa bene rileggere i classici, ripercorrere testi antichi, ritrovare righe dense e dimenticate, tipo queste: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. (Autori Vari, Costituzione della Repubblica Italiana, 1947). Magari, rileggendo quella antica letteratura di fantascienza comodi comodi sul divano, si può attendere la pattuglia volante del San Raffaele di Milano, visita, radiografia, esami del sangue e saturazione: appena 450 euro, un affarone. Prima però, una visita online, al telefono o su Skype per i più aggiornati tecnologicamente: 90 euro. Questo per dirvi se avete il Covid. Per curarlo, poi parliamone (Questa casa è sua? Ha miniere in Messico? Soldi da parte?).

Segue polemica, ovviamente (non ci viene risparmiato nulla), perché è seccante che la pandemia diventi un business, ma soprattutto è seccante (eufemismo) constatare la differenza tra il trattamento che riceve chi sborsa oltre 500 euro e chi invece imbocca il tunnel burocratico-sanitario di telefonate al medico, indicazioni sommarie (tachipirina, non cortisone!), attese snervanti, code per i tamponi, autoreclusioni per attendere l’esito.

Il risultato è che in una situazione delicata e pericolosa per tutti, la forbice delle diseguaglianze si allarga ancora. Come sempre la Lombardia fa scuola, il San Raffaele resta epicentro della cosmogonia formigoniana, il professor Zangrillo, che lì opera, invita a non affollare i pronto soccorso e curarsi a casa. Insomma, è l’oste che consiglia il vino.

Contemporaneamente, chi volesse, nella ridente città di Milano, procurarsi una dose di vaccino antinfluenzale, farà parecchia fatica rimbalzando come una pallina da flipper tra medico di base (Eh? Uh? Cosa?) e Ast, sportelli e code, anche avendone diritto in quanto categoria a rischio. Con una telefonata e 123 euro, invece, ecco la visita privata con vaccino incluso: tempi di attesa per l’appuntamento, cinque giorni. C’è anche la tariffa “smart”, solo 70 euro, ma i giorni di attesa diventano 15. Tempo (vostro), in cambio di soldi (sempre vostri). Finirà con una rivoluzione nell’empireo costoso degli status symbol: non più l’orologio, il telefono, la macchina, la casa al mare, ma il tampone in tempo reale, il vaccino sicuro, la visita domiciliare di un medico, addirittura di un’équipe, meglio di ostriche e champagne.

Ora, scandalizzarsi per tutto questo pare un po’ ingenuo: come durante il proibizionismo, il whisky si trova lo stesso, solo un po’ più caro. E del resto tra la medicina sul territorio e la terapia intensiva c’è questa grande terra di nessuno, un po’ incolta, un po’ incerta, faticosa da attraversare, dove il privato si getta come un cercatore d’oro. E questo è lo stato delle cose.

Ora sappiamo che più o meno in primavera (faccio una media tra le previsioni) ci sarà il problema (speriamo) del vaccino anti-Covid, e viene da chiedersi se le cose funzioneranno allo stesso modo. Cioè se dovremo rincorrere la nostra iniezione di tranquillità, rincorrerla, telefonare a raffica, chiedere agli amici – oppure pagare, corsia preferenziale per cittadini solventi.

Insomma, quando (e se) arriverà il famoso vaccino (uno dei), si potrà controllare in modo rapido – tipo tampone di Zaia – se l’articolo 32 della Costituzione ha ancora un senso, oppure se avremo le solite cronache di vip, milionari e calciatori che esibiscono lo status symbol dell’immunità acquisita, pagando s’intende.

ven
13
nov 20

Il tavolo, un racconto in regalo con Stampa e Repubblica

Domani (sabato 14) esce, in allegato a La Stampa e La Repubblica, Il tavolo, già contenuto in un’antologia Sellerio (Vacanze in giallo, 2014) e poi da solo in e-book.

Qui l’intervista di Michela Tamburrino su La Stampa

Intervista La Stampa 131120 Il tavolo edizione GEDI

mer
11
nov 20

Cialtroni da Covid. La nuova strada è quella di colpevolizzare i cittadini

PIOVONOPIETREE’ nelle crisi, nelle emergenze, nell’abbraccio della paura che mostriamo il meglio e il peggio di noi, e questo vale, naturalmente, per il Paese che abitiamo. Quel che ne esce a prima vista è un impasto glorioso di fessi col botto e gente che fa il suo mestiere, a volte contro ogni incapacità altrui, come i medici di Alzano Lombardo che alla fine del febbraio scorso rompevano i vetri degli estintori d’emergenza per prendere almeno una mascherina, quelle che la Regione Lombardia non aveva, non mandava, ne comprava milioni farlocche (per non dire dei camici). Chissà, forse il maledetto virus potrebbe servire a qualcosa se lo si usasse per operare sul campo, di fronte agli eventi, a una scrematura decisa e massiccia di una classe dirigente incapace che può galleggiare nell’indifferenza delle cose malfatte quando tutto è tranquillo, ma diventa un pericolo quando la crisi morde.

Così non passa giorno che non ci si metta, metaforicamente e non, le mani nei capelli. Il commissario alla Sanità calabrese (ex) Saverio Cotticelli che cade dalle nuvole, balbetta, si imperla, si agita, e poi si difende (in tivù) dicendo che “non ero io” e “forse sono stato drogato”, è caso così ridicolo e clamoroso da farne una specie di paradigma. Ma già altri fenomeni prendono la scena, mischiando incapacità e inconsistenza con mesmerismo, magia, superstizione. Fino al segretario del sindacato di Polizia Siap che indossa (e preme perché ne vengano acquistati a migliaia) una specie di amuleto israeliano che – a sentire lui – purifica l’aria una volta indossato come collana. Un aggeggio che “genera cationi (eh? Ndr) che inibiscono qualsiasi virus”. Insomma, tipo una collana d’aglio. Cascano le braccia.

Potrei continuare con i casi umani, gli improbabili, gli improvvisatori, i cialtroni, i guastatori a intermittenza, i “piccoli Salvini crescono”.

Ma il rischio è che i casi clamorosi – che non sono i più gravi, ma i più assurdamente evidenti – finiscano per addensare su di sé ironie, condanne e reprimende, e che questo distragga un po’ dagli errori enormi commessi e che ancora si commettono. Esempio: pochissima eco ha avuto sulla stampa il grido d’allarme che viene dall’ospedale di Monza, dove si contano oltre trecento sanitari contagiati. Qui non c’entrano i ragazzini che fanno ressa sul bus o i “signora mia, quanta gente c’era al parco” (colpevolizzazione del cittadino livello Pro), ma, evidentemente, protocolli inesistenti o non rispettati. Nonostante questo, l’assalto alle coscienze continua, lo scaricabarile, un classico della dinamica Stato-Regioni, non riguarda solo la politica, ma soprattutto la politica e il cittadino. Basta guardare la nuova campagna di “sensibilizzazione” (ahah, Ndr) della Regione Lombardia, spiritosamente battezzata “The covid dilemma”: una giovane ragazza in primo piano e una domanda: “Indossare la mascherina o indossare il respiratore?”, con tanto di chiosa: “La scelta è tua”. Incredibile. La regione che ha avuto più morti, quella dei pronto soccorso chiusi e riaperti senza sanificazione (Alzano), dei camici del cognato, delle mascherine farlocche, dei vaccini antinfleunzali pagati come caviale, dei cadaveri portati via dall’esercito, delle pressioni confindustriali per non chiudere la val Seriana, dice alla ragazzina che la scelta tra vivere e morire è sua. Come se in guerra, in presenza di generali incapaci e felloni come quelli che siedono alla Regione Lombardia, si desse la colpa ai cittadini bombardati: la scelta è vostra, che volete da noi?

mer
4
nov 20

Tracciamenti. Le vie dello screening sono infinite, dai tamponi ai sierologici

PIOVONOPIETREIl paziente indichi i contatti degli ultimi giorni. C’è un momento DDR che prima o poi si presenterà a molti, ed è quando devi mettere giù una lista, cioè denunciare in qualche modo che hai rischiato di contagiare qualcuno. Piccolo tremore: con la sola imposizione della penna su un foglio puoi chiudere in casa per diversi giorni molta gente. La famiglia, ovvio. I colleghi di lavoro. Eventuali amici e/o fidanzati e/o amanti. Le frequentazioni casuali di conoscenti, varie ed eventuali. Poi comincia il gioco dell’oca: attesa del tampone, fermo due turni, attesa dei risultati del tampone, fermo un turno, quarantena precauzionale, vai indietro di due caselle, volontaria, obbligatoria. Domande banali che diventano dilemmi etici (aspetto esito tampone, posso andare a prendere il pane?). Telefonate allarmate (quasi sempre allarmate di finire nella lista). Telefonate interessate, che partono per chiedere “come stai?” e invece vogliono sapere i dettagli, le pratiche, i tempi, se esistono scorciatoie, con tutte le varianti regionali (Pubblico? Privato? Dove? Quanto costa?).

Se il tampone è negativo (wow!) si riparte dal via, nella speranza di non finire nella lista di qualcuno e di ricominciare il gioco da capo. Sarà così per mesi, se va bene. Una lotta inesausta e quotidiana con la nostra nuova inedita precarietà totale, la buroktatsija bislacca, la ruvida poesia dei tracciamenti, ognuno col suo percorso.

Già bruciata l’escalation dello screening: erano una sciccheria per pochi i sierologici pungidito, quasi subito diventati di massa; così che era quasi un upgrade sociale fare il tampone, quello veloce, otto minuti di attesa nervosa. Molto complicate le istruzioni del gioco, perché le vie dello screening sono infinite. Ci pensa l’azienda, con dei suoi misteriosi canali privati, no, ci pensa il dottore, no ci pensa il farmacista, che ti rimanda dal dottore, che ti rimbalza, no, ti fa una richiesta, informa la Ast, o Asl, o come si chiama la sanità nel posto dove vivi. Ed eccoti nel tunnel, benvenuto. Devi aspettare. Non uscire. Fai la tua lista. Calcola i giorni. E tutto questo se insieme all’attesa, alle telefonate, alle mail, al controllo compulsivo di fascicoli sanitari, siti, password, codici fiscali, non si aggiungono febbre, o tosse, o sa dio cosa, cioè si parla qui del migliore dei casi: l’asintomatico che incappa nella rete, seduto sulla lama che separa seccatura e fifa vera.

Dopo una vita a sentire il ritornello padronale per cui bisognava diventare flessibili, più flessibili, non basta!, più flessibili ancora, eccoci tutti elastici e modulabili dai protocolli sanitari, la vita governata dal virus, dalla paura e dal caso, ma sì, il famoso “destino” dei romanzi: “Egli parlò per dieci minuti con l’elettrauto e rimase confinato per due settimane”. “Ella prese l’ascensore con il ragioniere dell’ufficio sinistri e ora cucina torte da quindici giorni”. La sfiga.

Nessuno scenario sul “dopo” è seriamente prevedibile, ma certo di questo nostro vivere sospesi senza calendario, senza scadenze definitive – tutto può slittare, saltare, annullarsi da un momento all’altro – porteremo alla fine qualche traccia. Forse sarà il caro vecchio memento mori che rende tutto più relativo e induce a una certa indulgenza zen, o forse (più probabile) una nuova modalità di intermittenza, nel lavoro, nel tempo libero, negli affetti e insomma nella vita, che potrebbe essere un prezioso e involontario (e odioso) allenamento per le precarietà che verranno, che saranno feroci.

mer
28
ott 20

Pandemia. Il virus sta diventando classista: bisogna tutelare i più deboli

PIOVONOPIETREAlla fine, girandola come si vuole, guardandola da più angolazioni, la situazione è questa: centinaia di migliaia di ragazzi non possono andare a scuola perché i trasporti pubblici che servono (tra le altre cose) a portarceli, fanno schifo e compassione, ovunque, senza eccezioni. Il bilancio di ciò che hanno fatto (e soprattutto non fatto) le amministrazioni regionali in sette mesi di quasi-tregua dell’epidemia è lì da vedere: desolante. Il tentativo di addossare soltanto alla famosa “movida” (in tutte le sue varianti) la responsabilità della seconda ondata non ha funzionato. Le immagini che ci vengono da treni locali, autobus urbani e metropolitane, invece, rendono bene l’idea: nessuno sano di mente può pensare che ci si infetti di più in un cinema semivuoto il giovedì sera (non dico dei teatri perché mi si stringe il cuore) che sul 31 barrato il venerdì mattina. Lo spettacolo è ancora più grottesco se si passa qualche minuto accanto ai binari di una grande stazione: la differenza tra chi scende da un Freccia Rossa – distanziato e garantito – e chi scende da un regionale – carro bestiame – è così evidente, dickensiana, da strabiliare.

E ovunque si volga lo sguardo ciò che salta agli occhi come uno squalo nella vasca da bagno è questo: le diseguaglianze volano, si moltiplicano, allargano la loro forbice, salvano chi sta in alto nella scala sociale e schiacciano chi sta in basso. La terapia intensiva sarà pure una livella, per citare Totò, ma prima di arrivarci di livellato non c’è niente. E’ una cosa che quelli dei piani di sotto, con l’ascensore sociale che non funziona, sentono ogni giorno sulla loro pelle. Gente che magari aspetta un tampone da giorni e legge costantemente di un mondo superiore dove ci si tampona ogni venti minuti allegramente tra vip, calciatori, star televisive. La serie A, insomma, sfugge all’affannata burokrazjia sanitaria mentre, la serie B e le altre serie minori arrancano al telefono con il medico di base, l’asl, la coda in macchina con bambino che tossisce, la mamma che non può andare al lavoro.

I sostenitori felloni di quell’imbroglio ideologico chiamato “meritocrazia” dovranno spiegarci come si fa a fare la gara del “merito” tra un ragazzo iperconnesso, attrezzato, munito nella sua stanza di numerosi device, e il suo omologo proletario, che si litiga il tablet con l’altro fratello, magari in un bilocale dove anche papà, o mamma, cercano di lavorare in smart-working. Situazione dolorosa per la perdita di socialità negli anni più esplosivi della vita, per tutti; ma per il secondo ragazzino anche il rischio serio di mollare il colpo, di rinunciare, di abbandonare la scuola per essere risucchiato nella palude della bassa specializzazione, della mano d’opera a basso costo.

Tracciare, curare, combattere il virus, insomma, è impresa titanica, e si sa. Ma c’è un’altra cura urgente da attuare subito: evitare che il virus diventi definitivamente e irrimediabilmente classista, cosa che già è oltre i limiti di guardia. La scommessa vera sarebbe quella di ampliare la sfera dei diritti: un tablet per ogni studente, un posto tranquillo sull’autobus, un reddito garantito almeno per campare, un accesso universale, rapido, gratuito per il vaccino, se e quando arriverà. Questa è la partita che deve giocare la politica. Se non lo fa, se nemmeno ci prova, se ci ritroveremo domani non solo in situazione di maggior povertà, ma anche in situazione di maggiore ingiustizia, significa che la politica non basta più, che il virus di classe ha vinto.

mer
14
ott 20

Non solo Calenda. Da Nonna Papera a Tom Cruise, tutti i candidati a Roma

PIOVONOPIETREGli esami non finiscono mai, ma anche le rotture di palle non scherzano. Così, appena usciti dal tunnel delle elezioni regionali, eccoci entrare in quello delle elezioni comunali, con lo psicodramma di Roma in primo piano, dove per ora ballano il twist solo gli autocandidati, Carlo Calenda in primis. Il tentativo è quello di mettere i partiti davanti al fatto compiuto: o sostenete me o vi faccio perdere, che è un po’ lo schema che non ha funzionato in Puglia con Scalfarotto, Italia Viva e Azione uniti nella lotta e arrivati finalmente in doppia cifra (purtroppo con una virgola in mezzo, 1,7 per cento, come si dice, manco i parenti). Insomma, il calendismo malattia infantile dello scalfarottismo (semicit), con tutto il contorno che sappiamo da sempre: primarie sì, primarie no (Calenda non vuole: o lui o la guerra), candidati deboli o sconosciuti, tranne Monica Cirinnà, il cui nome è stato quasi immediatamente oscurato sui media dalla discesa in campo dei calenderos. Si immagina l’entusiasmo dei romani di fronte a un ipotetico ballottaggio Calenda-Giletti, ma vediamo il bicchiere mezzo pieno: ci sono sempre il Tevere e l’Aniene in cui buttarsi. Per ora si tratta di mero clamore mediatico, ma va detto che l’accavallarsi delle due candidature (una fai-da-te, l’altra appena ventilata ma non smentita dall’interessato) oscura ingiustamente altri ottimi candidati al Campidoglio. Vediamone velocemente i profili.

Dinamite Bla. Personaggio minore dei fumetti Disney, ben radicato sul territorio, che difende sparando a chiunque si avvicini, pone la sua candidatura da indipendente, né di destra né di sinistra, con il segreto obiettivo di mettere in difficoltà il Pd. In ticket con Ciccio di Nonna Papera potrebbe avere qualche soddisfazione e persino arrivare al ballottaggio.

Tom Cruise. Per vederlo sfilare in macchina, in moto, in missile, in deltaplano, in monopattino, in carrozza a cavalli mentre gira Mission Impossible 37, i romani hanno sfidato assembramenti e gomitate. Punta tutto sulla viabilità: è l’unico essere vivente ad essere riuscito a compiere un tragitto urbano di più di due chilometri senza stare in coda, e questo è un elemento del programma che i cittadini apprezzano molto. La candidatura metterebbe un po’ in difficoltà il Pd, che non trova un candidato in grado di percorrere il Muro Torto a 270 all’ora caricando una Glock 9 millimetri.

Vittorio Sgarbi. Sindaco di alcuni paesi e cittadine italiane nel corso degli anni (Sutri, Salemi, Sanseverino Marche) cerca lavoro vicino a casa. E’ sostenuto da un’agguerrita compagine il cui esponente di punta è Vittorio Sgarbi, a cui Vittorio Sgarbi dà spesso ragione, il più delle volte urlando.

Rossella O’Hara. Gradita alla destra per la sua impostazione di difesa strenua delle tradizioni, non dispiacerebbe a Confindustria, data la sua teoria della piena occupazione favorita dallo schiavismo. In questo caso ci sarebbero forse problemi con la componente meloniana dello schieramento, che potrebbero però risolversi nel ticket con una personalità più forte e decisa: si cercano febbrilmente lontani parenti di Mussolini (nipoti, pronipoti, biscugini di nono grado) che tengano viva la tradizione democratica di Fratelli d’Italia.

I Sopranos. Italianissimi, attenti alle tradizioni famigliari e con esperienze all’estero (New Jersey) potrebbero continuare la tradizione ingiustamente interrotta dei Buzzi e dei Carminati, ma questa volta con un respiro più internazionale e migliore organizzazione nel ramo cooperative

mer
7
ott 20

Lombardia. Mission impossible: trovare un vaccino anti-influenzale

PIOVONOPIETREE’ l’ora delle missioni impossibili, delle avventure estreme, delle battaglie disperate. Tipo trovare un vaccino anti-influenzale nella regione più ricca d’Italia, la Lombardia, quella che ha avuto quasi 17.000 morti per Covid, quella delle mancate zone rosse, delle Rsa, quella dei camici del cognato e della moglie di Attilio Fontana, the president, quella dell’assessore al Welfare (ahahah) Giulio Gallera. Premunirsi, insomma, fare in modo che due lineette di febbre e il naso che cola non ti regalino la paranoia della peste in corso, ma vengano riconosciute come malanno di stagione, ed evitate con una semplice profilassi che da mesi tutti ci consigliano. La tivù, la radio, i giornali, i dottori, gli infermieri, i medici di base, le mamme, le nonne, ripetono indefessi che quest’anno il vaccino contro l’influenza bisogna farlo. Giusto. Bene.

Ma il vaccino non c’è.

Chi volesse sperimentare l’Odissea Lombarda può partire dal proprio medico di base, che risponde allargando le braccia e consiglia di provare in farmacia, dove ti guardano come la mucca che guarda passare il treno: Eh? Cosa? Ripassi, telefoni, chieda in giro. Una settimana fa l’assessore Gallera aveva avvertito che la Regione Lombardia non potrà occuparsi del “cittadino generico”. Tradotto in italiano: lombardi, cazzi vostri.

Anche per i cittadini “non generici”, però, le cose non vanno benissimo. La Regione Lombardia – dove tutti i boss della sanità sono nominati dalla politica e sono quasi tutti della Lega – non ha dosi sufficienti nemmeno per i cittadini “non ordinari”, che sarebbero gli operatori della sanità, gli over 60, i bambini da zero a sei anni: i calcoli dicono che si tratta di cinque milioni di persone e i vaccini disponibili non arrivano alla metà, poco più di due milioni. La storia delle gare per assicurarsi i vaccini è un rosario mesto e dolente di fallimenti: alcune annullate, altre andate deserte, qualcuna incredibilmente declinata dalla stessa Regione, che voleva comprare vaccini (in marzo) al prezzo di 4,5 euro l’uno e, vista l’offerta di 5,9 euro ha preferito fermarsi. Eh, no, troppo cari! Come volevasi dimostrare: nell’ultima gara (la nona), il prezzo era salito a 10 euro, quasi il doppio, ma nemmeno la promessa del pagamento anticipato ha funzionato. In più, l’esimia Regione di mister Fontana, ha escluso dalle possibili forniture i lavoratori del settore pubblico (si arrangino) e gli operatori della sanità privata, che fino all’anno scorso erano compresi nelle forniture e quest’anno no: si arrangino pure loro.

Ridursi a indire gare di fornitura a metà ottobre è semplicemente folle: una prova di inadeguatezza politica macroscopica. A pensarci bene, Fontana & Gallera, la premiata ditta, dopo averne fatte più che Carlo in Francia, detenere il record di decessi (la metà di tutta Italia), pasticciare con gli interessi privati e famigliari, dire “va tutto bene” quando andava malissimo e “siamo stati bravi” quando facevano schifo e compassione, una cosa dovevano fare. Una sola. Una sola fottuta cosa: procurare per tempo e in abbondanza i vaccini antinfluenzali. Non l’hanno fatto.

Nel frattempo, campeggiano sulle home page dei maggiori operatori privati lombardi i severi ammonimenti: “Vaccino antinfluenzale, perché è importante farlo”, e si può prenotare, pagando s’intende: 50 euro (l’anno scorso costava tra i 12 e i 14). Così anche chi avrebbe diritto al pubblico correrà dal privato, persino ringraziando. Fine della storia dal fantastico mondo di Fontana & Gallera.

mer
30
set 20

The Donald. Perdite, evasione e debiti: uno sfigato “assistito” alla Casa Bianca

PIOVONOPIETREVorrei ringraziare il presidente degli Stati Uniti Donald Trump – un Briatore che ce l’ha fatta – per la sua indefessa e costante fucilazione di luoghi comuni molto vivi anche qui da noi. Ora che si gioca la rielezione e che pare un po’ in affanno (eufemismo) dopo le rivelazioni del New York Times sulle sue tasse (sulle sue non tasse, diciamo), Donald pare un po’ più fragile, il che lo rende se possibile un po’ più pericoloso, tra milizie bianche armate fino ai denti, tipini fini come quel Bannon a fargli da spalleggiatore, i matti di Qanon e tutto il campionario di fesserie psico-sovraniste che si porta appresso. Perché le carte che il New York Times ha scovato, e che rimbalzano su tutti i giornali del mondo, dicono in soldoni di scegliere tra due cose: o Donald Trump è un imprenditore totalmente incapace che accumula perdite e fallimenti, una specie di Re Mida al contrario che colleziona debiti; oppure è un evasore fiscale che, nonostante le torri con il suo nome, l’arredamento Casamonica style, i resort dove si gioca a golf e altre mille faccende danarose, paga meno tasse di un bidello di Crotone o di un precario a partita iva che si arrabatta tra mille lavoretti.

Lasciamo la campagna elettorale americana, il Circo Barnum dove può vincere anche chi ha meno voti, agli esperti di caucus e primarie nell’Iowa, quelli che stanno svegli di notte per vedere i confronti in tivù manco fosse il pugilato epico del tempo che fu (tipo il duello con Biden di questa notte). Più divertente, invece, osservare come alcune narrazioni, che hanno spazio anche qui da noi, rischino di andare in pezzi. La prima: i ricchi che non rubano perché non ne hanno bisogno. Antica vulgata in gran voga pure qui negli anni del berlusconismo, si scontra periodicamente contro la realtà quando viene beccato un ricco dai comportamenti non proprio specchiati. Come sia in qualche modo attecchita questa leggenda nonostante i molti casi di miliardari furbi, non si sa bene, ma è un fatto che la ricchezza venga sempre considerata un alibi forte su due sponde. La prima: è ricco, non ha bisogno di fregare nessuno. La seconda: c’è sempre pronta la contro-accusa che parla di “invidia sociale” (traduco: ce l’hai con lui perché vorresti essere lui, e ti piacerebbe scaricare 70.000 dollari di parrucchiere dalle tasse).

Al limite, quando le due cose non funzionano, ci si può sempre rivolgere alle sirene dell’iperliberismo, quelle che sostengono che le tasse sono un furto, che lo Stato è una specie di rapinatore della gente perbene, cose che ogni tanto si vedono e si leggono anche qui. Ma sta di fatto: a leggere delle carte fiscali di mister Donald sembra che i soldi in entrata vengano quasi solo dal suo programma tivù, The Apprentice, dove giocava a fare il tycoon vincente, mentre tutte le altre cifre ci descrivono un mediocre perdente, che chiude i casinò ad Atlantic City, che segna perdite in ogni sua attività, che ha debiti per 400 milioni di dollari (il che lo rende ricattabile), che contribuisce al fisco americano con 750 euro all’anno, quasi dieci volte meno di un poveraccio qualunque. A farla breve, con buona pace dei trumpisti italiani, alla Casa Bianca dell’America Great Again si canta il più alto inno al tanto deprecato assistenzialismo, dove l’assistito non è lo sfigato proletario che “preferisce stare sul divano”, ma il grande, vincente, geniale imprenditore in costante perdita, in lotta col fisco, pieno di debiti, che casualmente è anche presidente della prima potenza mondiale.

mer
23
set 20

Analisi del post-voto. Il baciatore di salami ha visto giorni migliori

PIOVONOPIETREAssediato da Zaia ad est e dal neofascismo meloniano al sud, Matteo Salvini non se la passa bene come dice nelle conferenze stampa. Ora non è più nemmeno sicuro di essere il Gran Capo della destra, e si spera che il primo risultato del nuovo Risiko politico sia la (sempre tardiva) abolizione dei suoi decreti (in)sicurezza. Se ci mettete anche che in Lombardia il suo Attilio Fontana ne ha fatte più di Carlo in Francia, e che ha i commercialisti sotto interrogatorio, beh, diciamo che il baciatore di salami ha visto giorni migliori. Le mancate spallate leghiste hanno un nome e un cognome, il suo, e dopo il noto suicidio del Papeete dovrebbe sapere che le sconfitte si pagano. Per esempio, agire sotto costante pressione di uno che ha il trenta, il quaranta per cento, che vincerà tutto lui, che sarà presto il nuovo padrone del mondo come spesso si è pensato di Salvini nei mesi scorsi, induce una tentennante prudenza di cui davvero non c’è bisogno. Un Salvini fermo alle sue percentuali, il suo 15-20 per cento (in parlamento ha il 17) fa un po’ meno paura e un po’ meno pressione, e si spera che di questo si accorgano anche i media che ci hanno propinato la salvineide perenne. Di mettere in discussione il Capo ancora non se ne parla, ma sarebbe bello se qualcuno ci pensasse.

La ferita dei 5s è forse numericamente più grave, anche se al momento meno strategica. Con altri due anni al governo, godono di essere una forza parlamentare sovradimensionata rispetto all’effettivo peso nel Paese, insomma volendo hanno tempo per darsi una svegliata da una posizione di vantaggio. Anche lì, nonostante la bella favola delle piattaforme elettroniche, mettere in discussione la leadership – una cosa salutare dopo le sconfitte – non è facile.

Altro caso di rappresentanza parlamentare sovrastimata è Italia parlandone da Viva: anche se gioisce per la Toscana, pare che il progetto sia un po’ in affanno (eufemismo), e anche dove si è provata la Santa Alleanza con Los Calenderos – una gran voglia di riesumare il PLI – è stato un macello. L’1,7 di Scalfarotto in Puglia, con ministri e segretari di partito accorsi a dar manforte la dice tutta. Eppure è il 4,5 in Toscana che dovrebbe allarmare i renzisti. La roccaforte, il fortino… insomma, per chi vagheggiava di “doppia cifra” non dev’essere bello accorgersi che in mezzo c’è una virgola. Anche qui, però, ci si chiede cosa potrebbe cambiare, probabilmente nulla, perché in un partito personale nato nel culto del Capo nessuno metterà in discussione il gruppo dirigente.

Si registra – anche giustamente – il peana corale per Zingaretti e il suo Pd, ma anche qui a cercarla qualche ombra si trova. La strategia dell’opossum (fingersi morto mentre tutti gli altri strillano) ha funzionato, ma ora non è più attuabile. Ora bisogna passare all’attacco e, in un certo senso, all’incasso, e non sarà semplice. Tanto per raffreddare gli entusiasmi, va ricordato il triste caso delle Marche, dove una sinistra pasticcona e inconcludente (si pensi al terremoto) è stata sconfitta da uno che andava alle cene in onore del Duce, e della marcia su Roma (“Giorno memorabile e indelebile”, c’era scritto sul menu insieme ad altre amenità del Ventennio). Ecco, questo per dire, a sinistra, che sarebbe meglio non rilassarsi troppo e cominciare a ripristinare qualcosa di simile a un lavoro culturale sul territorio, come si dice, cioè a difendere alcuni valori non negoziabili. Per non trovarci magari – dopo Salvini – la destra estrema burbanzosa e vincente.

mer
16
set 20

In classe. Il vero assembramento è quello delle cazzate (dei politici)

PIOVONOPIETRECome tutti sapete a meno che non foste a fare l’happy hour su Saturno (anche se ora va più di moda Venere) hanno riaperto le scuole, un evento per cui dai più prestigiosi giornali italiani, alle televisioni, al sito web di Vergate sul Membro o Salcazzodove Scalo sono state scritte milioni di pagine per dire che sarà un disastro, che mancano i maestri, i prof,  i maestri di sostegno, insomma come tutti gli anni scolastici che Dio manda in terra, però di più. Non mancano le nostalgie: ah, i bei tempi in cui ti crollavano soltanto i soffitti sulla testa! Ognuno ha la sua motivazione per combattere strenuamente la battaglia del perfetto funzionamento della scuola pubblica, e tutte queste motivazioni hanno come primo e unico obiettivo la gioia dei nostri ragazzi: fare un rimpasto, cacciare Conte per gestire 200 miliardi, mettere Draghi, no, Cottarelli, no, Belfagor e via così, tutte cose che ai bambini delle elementari premono tantissimo, compresa la Boschi al posto dell’Azzolina (alcuni non ci dormono di notte).

Per non parlare dei politici di ogni colore, che non hanno mai esternato così abbondantemente sulla scuola (cioè, quando votavano i tagli non è che ne parlavano tanto); fino al paradosso di lady Gelmini, la grande tagliatrice, che strilla di “inadeguatezza e superficialità”: tipo il piromane che incendia il bosco e poi critica i pompieri. Divertente contrappasso quello della fotografia della scuola di Genova con i bambini in ginocchio per terra (sui ceci? ndr) che scrivono appoggiati alle sedie perché non hanno i banchi. Orrore e commozione, tanto che il presidente della Liguria Toti denuncia lo scandalo, i titoloni sono tutti per quei poveri bimbi in ginocchio. Poi leggendo il pezzo si scopre altro, che non è vero, che i banchi vecchi ci sono, che quelli nuovi arrivano domani (oggi per chi legge) e che insomma, si tratta di un falso ideologico bello e buono, ma non importa, vale tutto: se c’è un distanziamento che non viene applicato è quello delle cazzate, è un vero assembramento.

Naturalmente la propaganda fa il suo lavoro, e sarebbe cretino fare il controcanto inverso: va tutto benissimo! Che figata!, atteggiamento fesso tanto quanto e soprattutto falso: non va per niente tutto bene, com’è ovvio.

Non resta, per una volta, che affidarsi alla testa delle persone che ancora ce l’hanno, quelle che mandano i figli a scuola con un po’ di ragionevole apprensione, i prof, i bidelli, le maestre, i presidi che si fanno un culo quadro per tappare tutte le falle dell’emergenza, quelli che ci mettono dell’impegno, magari sapendo che un ragazzino con la febbre può scombinare per settimane i piani di intere famiglie, come del resto avviene negli uffici e in tutti i posti di lavoro che abbiano un minimo controllo. E mettiamoci anche i ragazzi, che si sentiranno quella solfa infinite volte, state staccati, non fare cazzate, state attenti, ma per i media all’occorrenza buoni da colpevolizzare se si ammala il nonno. E’ uno di quei casi in cui propaganda e realtà si fronteggiano in modo diretto, perché tra studenti, docenti, personale, e tutto l’indotto scuola, parliamo di oltre dieci milioni di persone, e quindi di tutto il Paese. La gente saprà che si sta fronteggiando in qualche modo un’emergenza e farà la sua tara con le cronache di Narnia del disastro sia annunciato che sperato. La buona notizia è che il paese reale potrebbe essere un po’ meglio del paese surreale che leggiamo ogni giorno. La cattiva notizia è che non ci vuole molto, davvero.

mer
9
set 20

Colleferro. E’ troppo alto il tasso di “fascistità” e di violenza nell’aria

PIOVONOPIETRENon c’era bisogno dei recenti fatti di cronaca, come l’omicidio di Colleferro, per capire che nel Paese è in atto, e a piede libero, una certa tendenza alla “fascistità”. Mi scuso per la brutta parola, ma siccome quando si parla di “fascismo” tutti saltano su come tappi a dire che non è allarmante, che sono casi isolati, eccetera eccetera, allora mi appello a quest’altra categoria dello spirito. Che sarebbe – i due fratelli di Colleferro e gli altri due accusati di omicidio lo dimostrano bene – più una predisposizione al fascismo, diciamo un’inclinazione armoniosa di accoglienza: ammazzare di botte la gente, del resto è una specialità della casa da almeno un secolo.

Si è letta sull’argomento molta sociologia improvvisata, come sempre in questi casi, e anche qualche tentativo di minimizzare: il bullismo, le arti marziali… Insomma, anche se stavolta sarà più difficile, sta sempre in agguato l’avvoltoio che dirà: “Ragazzate”. Il fatto che a Colleferro e dintorni li conoscessero tutti, e tutti sapessero del loro alto tasso di violenza e “fascistità”, non migliora le cose, anzi, sta a testimoniare che ampie dosi di quel virus, anche organizzate, sono vive e operative nel tessuto sociale, qui e là, in tutto il paese. In qualche modo conosciute, in qualche modo tollerate, emergono poi a cose fatte, dopo il pestaggio, dopo il morto.

Eppure, l’argomento è frettolosamente circumnavigato, ogni volta l’attenzione si sposta su altri fattori, questa volta la polemica è virata sulle palestre e le arti marziali, altre volte sul disagio sociale, altre ancora sul bullismo, o lo spaccio. Insomma, c’è un gran lavorìo dei titolisti per allontanare dalle tragedie come quella di Colleferro (e se ne contano ormai parecchie) anche solo il sospetto di elementi di fascismo applicato. Poi, quando leggi le cronache, gli ambienti, le frequentazioni, i loro video sui social, i parenti che dicono “tanto ha solo ammazzato un immigrato”, ti accorgi che invece il tasso di “fascistità” è alto, anche quando non si tratta di fascismo conclamato tipo saluti romani e svastiche tatuate. Un’adesione fisica, insomma, quasi pre-ideologica, che si esprime a cazzotti e intimidazioni, che rappresenta, per le formazioni della destra ultras (e meno ultras), un notevole terreno di caccia.

Non è solo la cronaca nera, a rilevare varie pulsioni fasciste e molta “fascistità” già matura e pronta da cogliere. La manifestazione negazionista di Roma, per esempio, ha generato sui media un misto di condanna e sarcasmo, ma tutti incentrati sulla stupidità dei presenti. Il finto prete che parla del demonio, la signora preoccupata che la avvelenino coi vaccini, il complottismo esasperato e esilarante del “ci controllano col 5g”. Pochi hanno invece fatto notare che la manifestazione è stata convocata da Forza Nuova, formazione fascista, e che sul palco ha parlato il leader Giuliano Castellino, già condannato a cinque anni e sei mesi (primo grado) per aggressione. Insomma, grande biasimo e grande sarcasmo per i mattacchioni e gli svitati che danno la colpa del Covid a Bill Gates, ma poco scandalo sul fatto che un fascista già condannato per un pestaggio possa in qualche modo organizzare un raduno in piazza.

E’ come se questo conclamato e visibile aumento del tasso di “fascistità” nell’aria venisse un po’ volutamente ignorato, aggirato, sottaciuto o messo in ombra, un po’ come se creasse imbarazzo, o fastidio, invece di essere trattato per quello che è: una (un’altra!) emergenza nazionale.

gio
3
set 20

Ceci n’est pas une chanson d’amour, due recensioni francesi (Libération e Lire, magazine littéraire)

Il 20 agosto è uscito in Francia “Ceci n’est pas une chanson d’amour” (Éditions de l’aube), con l’ottima traduzione di Paolo Bellomo e Agathe Lauriot dit Prévost.

Qui la recensioni di Liberation (merci à Claire Davarrieux) e di Lire, le magazine littéraire (merc1 à Éric Libiot)

liberation030920                               Lire le magazine littéreaire 020920

mer
2
set 20

Forza Nuova, la marcia tragicomica “Contro la dittatura sanitaria”

PIOVONOPIETRENon è detto che si debba sempre parlare di cose serie o importanti. Andiamo, ogni tanto si può anche – per divertimento e leggerezza, per cazzeggio – parlare di stupidaggini, di solenni cretinate, di puttanate clamorose: insomma della manifestazione del 5 settembre indetta dai fascisti di Forza Nuova. Titolo: “Contro la dittatura sanitaria, finanziaria e giudiziaria”. Beh, dài, niente male.

Divertito dalla notizia che ci sia qualcuno che sostiene che viviamo sotto una dittatura sanitaria (e altro), mi sono sentito in colpa di non saperne nulla, né della dittatura, né della manifestazione. Così, con notevole sprezzo del ridicolo, ho indossato una speciale tuta anti-cazzate (vi avverto, serve il modello potenziato) e mi sono immerso per qualche minuto nei siti, nelle home page, negli account di sostenitori e organizzatori, traendone momenti di agghiacciato divertimento. Intanto le premesse: la famosa dittatura che si vuole combattere è un diabolico marchigegno di oppressione che va da Soros (ovvio, dài!) a Mario Monti (eh?), fino a Bill Gates, all’Oms, al presidente del consiglio Conte, e spiace che gli organizzatori abbiamo dimenticato Will Coyote e i difensori dell’Atalanta. Questa terribile dittatura “che priva i bambini del loro sorriso e della loro naturalezza” – oltre a danneggiare il turismo – sarà naturalmente sconfitta da Forza Nuova, dai gilet arancioni – quelli del generale Pappalardo che ha scritto un romanzo dettatogli da un alieno del pianeta Ummo – con lo straordinario appoggio di Vittorio Sgarbi. “Sarà – cito testualmente –una rivoluzione che inizierà a Roma e che a mani nude conquisterà il mondo intero” (me cojoni, ndr).

Non è facile sapere esattamente chi ci sarà, perché questi qui che vogliono “conquistare il mondo a mani nude” hanno fatto un po’ di casino, mettendo tra i partecipanti gente che non ci andrà manco dipinta, tipo (ancora i nomi figurano in elenco sui loro siti) il pilota Hamilton, il giocatore del Liverpool Lovren, il tennista Djokovic e altri vip. Poi hanno corretto il tiro dicendo che li hanno solo inviati, tipo che al tuo compleanno dici che ci saranno Bob Dylan e Jennifer Lopez, ma non è mica vero, te lo sei inventato con un post su Facebook. Mitomania canaglia. Però pare certo l’appoggio dell’Arcivescovo Viganò, di cui siti e account riportano una lettera assai preoccupata perché la dittatura di cui sopra vuole “demolire la famiglia”. L’Arcivescovo a quanto pare, risponde a un accorato appello (altra lettera) di tale Giuliano Castellino, capataz di Forza Nuova, già condannato a cinque anni e passa per aggressione a un giornalista de L’Espresso. Bella gente.

Particolarmente esilarante l’elenco di associazioni, gruppi, club e leghe che si accodano all’iniziativa, gente che si chiama “L’elmo di Scipio”, o “Rialzati Italia”, o “Salviamo i bambini dalla dittatura sanitaria”, o “Carlo Taormina”, che forse è proprio lui. Accorati gli interventi di Manuel, “ragazzo di Ostia cuore impavido” (cit) e del “famoso Ciccio Della Magna, di Marcia su Roma” (giuro). In sostanza ci sarà la crema della società e i comunicati non lesinano sull’enfasi: se andrai alla manifestazione “L’Italia futura ti ringrazierà, i tuoi figli ti ringrazieranno, i tuoi nipoti, i tuoi amici, i tuoi genitori, i tuoi nonni ti ringrazieranno”. Insomma, un sacco di ringraziamenti. Mi aggiungo con il mio grazie: non ridevo così tanto da quando il generale Pappalardo andava ad arrestare Mattarella con un mandato di cattura realizzato coi trasferelli.

gio
27
ago 20

Los Liberistas, ovvero: come piangere sempre e ottenere soldi (dallo Stato)

PIOVONOPIETREL’estate sta finendo eccetera eccetera, potete cantare la canzoncina famosa senza remore, perché quel che ci aspetta è un autunno infinito, invece, e l’inverno chissà, speriamo bene. Quel che si sa, non c’è bisogno di essere un indovino, è che si assisterà al solito derby cattivo e senza esclusione di colpi tra le due compagini più rappresentative della scena politica: Los Liberistas contro lo Stato. Chi segue le cronache politiche sa di cosa si parla: da un lato un pianto continuo e inesausto per dire che i tanti soldi in arrivo dovrebbero andare a loro, industriali e imprese, che cercano finanziamenti pubblici per “il libero mercato” (ahah), e dall’altro un sistema di welfare e assistenza che consenta a tutti i cittadini – anche a quelli espulsi dal sistema produttivo – di campare la famiglia. Colpi bassi, trucchi dialettici da seconda media, sgambetti e paradossi: la solita solfa che diventa addirittura ridicola quando si svolge sui social a colpi di tweet o di post su Facebook. La narrazione aggressiva di Los Liberistas è nota: le tasse sono un furto (qualcuno lo mette nella bio del profilo), e vanno a finire tutte a quei “maledetti statali” che naturalmente “non fanno niente tutto il giorno” e hanno la terribile colpa, in subordine, di prendere lo stipendio anche quando c’è il Covid. Al contrario dei poveri Los Liberistas che sono costretti a mettere i dipendenti in cassa integrazione (cioè a far pagare gli stipendi a noi tutti), e almeno in un terzo dei casi fare i furbetti (2,7 miliardi fregati, sempre a noi).

Va detto che non tutti Los Liberistas sono uguali: ci sono gli estremisti e i moderati, ma il pensiero di fondo è sempre quello: meno Stato e più mercato, salvo poi presentarsi dallo Stato con il cappello in mano quando il mercato non va come vorrebbero. Dannazione. Così le cronache economiche diventano un rosario di lamenti e contumelie: ecco le scuole private addolorate dal fatto che dai rubinetti pubblici non sgorghino più finanziamenti come un tempo. Oppure ecco gli operatori della sanità privata (ma sì, angeli, eroi, salvatori, ecc. ecc) che lavorano con un contratto scaduto da dodici anni: arriveranno gli aumenti, sì, ma coperti al 50 per cento da fondi regionali, cioè pubblici, cioè sempre noi. Naturalmente se si parlasse di devolvere il 50 per cento dei profitti allo Stato si griderebbe ai Soviet, ma si sa com’è, nel rapporto tra pubblico e privato Los Liberistas intendono il flusso soltanto in entrata. Intanto, i numeri sull’evasione fiscale (120 miliardi, stima assai prudenziale) fanno tremare i polsi.

Il derby ha fasi di stanca e momenti di gioco brillante, per esempio quando gli economisti in forza a Los Liberistas (quasi tutti) si scagliano contro provvedimenti di welfare e sostegno ai cittadini più poveri. Apriti cielo: no al salario minimo, no al reddito di cittadinanza (“li pagano per stare sul divano”), no ai blocchi dei licenziamenti, per arrivare sempre lì, alla conclusione che se tu lasci fare al mercato tutto si sistemerà per il meglio. Si è visto, infatti.

Siamo solo al precampionato, la partita vera comincerà in autunno, cioè tra pochi minuti, quando dieci milioni di lavoratori del settore privato faranno gentilmente notare che i loro contratti sono scaduti. E’ probabile che si incazzeranno un bel po’, e Los Liberistas dovranno sfoderare tutta la loro capacità produttiva per realizzare la loro più grande opera: costruire un enorme cappello e presentarsi, con quello in mano, al cospetto dell’odiato Stato, quel cattivone.

mer
19
ago 20

Discoteche. I gestori dichiarano solo 18 mila euro all’anno: cifre da Caritas

PIOVONOPIETREC’è sempre da diffidare quando si sente la formuletta facile che recita: “Trasformare un problema in un’opportunità”. Di solito si intende che la sfiga resta per molti, quasi per tutti (il problema), e pochi, pochissimi, colgono la palla al balzo per guadagnarci (la famosa opportunità). Insomma, mi scuso in anticipo se userò questa formuletta in modo un po’ libero, ma insomma, i tempi sono quelli che sono e quindi sì, potremmo tentare davvero di trasformare un problema in opportunità.

Caso di scuola: gli aiuti che lo Stato, giustamente, elargisce ai settori in difficoltà, sia ai lavoratori (la cassa integrazione e gli altri ammortizzatori) e alle aziende. Distribuiti a pioggia e senza troppi controlli nei primi mesi dell’emergenza Covid, sono diventati una coperta – corta, come sempre – che ognuno tira di qua e di là, sempre dalla sua parte, ovvio. Così la sora Meloni poteva tuonare “Mille euro a tutti”, dal bracciante a Briatore, e i capataz di Confindustria implorare di darli tutti a loro. Sono ben note le condizioni di partenza: una situazione drammatica mai vista, con il paese chiuso, molte produzioni ferme, i lavoratori chiusi in casa, eccetera eccetera. Un errore, non aver messo limiti e paletti adeguati alla distribuzione di soldi, vero, e un’unica scusante abbastanza potente: la fretta e – appunto – l’emergenza. Poi si è scoperto che almeno il trenta per cento delle aziende ha fatto lavorare i dipendenti lo stesso, pagandoli con soldi nostri (la cassa integrazione invece dello stipendio), il che è stato quantificato come un furto di circa 2,7 miliardi, non un dettaglio, insomma. Questo il problema. Veniamo all’opportunità.

Il decreto di chiusura delle discoteche offre un buon esempio per la discussione. Attentato al libero mercato, dicono i gestori, con Salvini che si accoda, forse memore dei balletti con le cubiste del Papeete, e lady Santanché che si fa riprendere mentre danza, si ribella, dice che la sua, di discoteca, non chiuderà. Tutto bellissimo. Poi vai a cercare qualche dettaglio ed eccolo qui. Proprietari e gestori di discoteche, a leggere gli studi di settore (quando ancora c’erano) e le dichiarazioni dei redditi degli anni successivi, non superano in media i 18.000 euro di reddito annui, un giro d’affari che sembrerebbe miserabile anche per una piccola salumeria. I titoli dei giornali se la prendono sempre con i gioiellieri che guadagnano meno delle loro commesse – un classico -, ma a giudicare dai dati del Ministero dell’Economia (basta cercare “discoteche dichiarazioni dei redditi”) si direbbe che chi possiede una sala da ballo col bar, le luci abbaglianti, il dj, le cubiste e altre cose utili al divertimento, passi le sue giornate in fila alla Caritas, guidi una vecchia Panda del ’99 e mantenga la famiglia con meno di 1.200 euro al mese. Francamente, anche con molta buona volontà, è difficile da credere.

Ecco dunque l’opportunità: perché non cogliere l’occasione degli aiuti (sacrosanti, ripeto) per fare un serio controllo in alcuni (anche tutti) i settori economici? Intanto, ovvio, commisurare gli aiuti alle dichiarazioni dei redditi, dato che sarebbe pazzesco rimborsare oltre i guadagni dichiarati. E poi approfittare dei controlli per verificare le condizioni di lavoro: quali contratti? Quali inquadramenti professionali? Quanti lavoratori in nero? Possiamo vedere il cedolino di fine mese dei buttafuori o delle cubiste? I contratti dei dj? Coraggio, Inps, Inail, Ministero del lavoro! Trasformiamo un problema in un’opportunità!

mer
12
ago 20

Bonus Inps, la sindrome di Stoccolma di chi difende i farabutti dei 600 euro

PIOVONOPIETREBreve premessa: se ti metti in fila alla Caritas per avere un filone di pane e a casa hai il frigo pieno, la dispensa che straborda, lo champagne in fresco e il filetto alla Woronoff che ti aspetta, sei un pezzo di merda.

Detto questo, ecco la vostra rubrichina, questa volta (mi scuso) per fatto personale.

Il 17 aprile scorso, quando tutti stavamo chiusi in casa come l’abate Faria nella sua cella, mi scrisse un mio amico bancario. Riporto le sue parole testualmente: “Sono sconcertato. In questi giorni sto vedendo arrivare sui conti dei miei clienti il bonifico da 600€. che lo Stato riconosce ai professionisti in difficoltà per il Covid. Oltre la metà dei beneficiari ha un saldo di conto corrente e un deposito titoli valorizzati in un minimo di 50mila euro fino a punte da 3-400mila euro. Colleghi di altre filiali mi segnalano percettori con saldi oltre gli 800mila euro”.

Anch’io sono sconcertato (eufemismo). Riporto le sue parole, su twitter, ovviamente coprendo la fonte, che potrebbe passare dei guai. Apriti cielo: le reazioni sono di vari tipi. Uno: ho inventato tutto, sono un mitomane che dice “un mio amico”, che è come dire “mio cuggino”. Due: come si permette il mio amico di guardare i conti correnti dei clienti? (ndr: è il suo mestiere). Tre: la legge non mette limiti, quindi hanno ragione loro. Se la legge ti permette di ammazzare a sassate un gattino fai bene a farlo. Quattro: sono il solito comunista-nostalgico (di cosa? Boh) che odia i ricchi. Cinque, sono invidioso di quelli che hanno tanti soldi sul conto, perché io sono un pezzente e loro invece ce l’hanno fatta, nella vita.

La cosa va avanti per qualche giorno. Mi chiama un bravo inviato di Piazzapulita, il programma di Formigli: posso metterlo in contatto con il mio amico? Rispondo di sì, ma raccomando il mio amico di chiedere garanzie di anonimato, perché anche se la legge non vieta di far licenziare un tuo amico, esiste pur sempre un’etica personale.

Il 24 aprile va in onda l’intervista al mio amico bancario, non ripreso in faccia e con la voce contraffatta, cosa che mi fa sempre ridere perché mi ricorda i genitori di Woody Allen in Prendi i soldi e scappa con gli occhiali, il naso finto e i baffi. Il mio amico – travisato come un bandito pur essendo una bravissima persona – non solo ripete le cose che ha detto a me, ma mostra qualche estratto conto (con i nomi rigorosamente cancellati, ovvio) dove si può leggere: saldo 600.000 euro, più 600 di bunus Inps. Il giorno dopo, silenzio: nessuno dice che era il cuggino di Formigli, o che l’inviato di Piazzapulita è un pezzente invidioso di chi ha un conto corrente grasso come un maiale.

Ed eccoci a noi: non siamo più chiusi in casa come Formigoni ai domiciliari, e la cosa si ripresenta paro paro con i cinque deputati – maggioranza leghista – (13.000 euro al mese) che hanno chiesto (e 3 ottenuto) il bunus Inps. Leggo le reazioni di oggi e quelle di ieri: praticamente identiche, ma con qualche variante: è stato il commercialista, no, la moglie, no, il socio, no, maestra, il gatto mi ha mangiato i compiti. Tutto qui. Aggiungo solo due cosette. La prima: quelli che si indignano con chi denuncia invece che coi i farabutti denunciati non sono miliardari, ma quasi sempre sfigati, però con la sindrome di Stoccolma. La seconda: tra gli insulti più ricorrenti che ricevetti ai tempi ce n’era uno divertente: giacobino. Interessante: nella bizzarra estate del 2020 c’è ancora chi odia i giacobini e fa il tifo per Luigi XVI, forse gli piacciono le brioches.

sab
8
ago 20

La “Crapa pelada” del duce e la Peppa che amò Caravaggio

Crapa Pelada pagina

Cosa diavolo può legare il Caravaggio, la cristallina idiozia della censura fascista, la serie americana più cool di sempre, la Milano del ‘600 (pre peste), il jazz? Seguire il filo, risalire alle fonti, alle origini, alle leggende, fino al salto sulla sedia quando uno, vedendo Breaking Bad, la serie di Vince Gilligan, una delle più famose e popolari su Netflix, pilastro contemporaneo della fiction mondiale, sente quella musica, la riconosce (e come non riconoscerla?). Maddai, possibile?

La canticchia Gale, per la precisione, chimico specializzato che “cucina” cristalli di metanfetamine, e la canticchia con il sottofondo dell’originale – un disco – mentre si prepara la cena. Il disco sta ancora girando che lo ammazzano malamente (terza stagione, episodio 13).

Ma che musica? Ecco, giusto, prima le fonti.

Crapa pelada l’ha fa i turtei

Ghe ne dà minga ai so’ fradei

I so’ fradei fan la fritada

Ghe ne dan minga a crapa pelada

Filastrocca scemetta, per bambini, una solfa, una tiritera divertente. Chi lo direbbe che è una cosa che parte dal Caravaggio, arriva a Rabagliati, viene combattuta dal fascismo, trionfa alla Liberazione e sbarca nella super-fiction americana?

Non facciamola lunga: piccola storia di una grande canzone.

Prima la leggenda, la genesi. Il Caravaggio, era ancora “soltanto” Michelangelo Merisi, viveva a Milano, più o meno il 1590. Testa calda, lo sappiamo, ma capace di innamorarsi. “Lei” si chiama Peppa Muccia, prostituta, lui la rapisce (ah, l’amore!), i fratelli di lei (tre, dice la leggenda) non possono perdonare, recuperano la ragazza, danno una sonora mazzolata al pittore e a lei, punizione umiliante, rasano i capelli a zero. Ecco “Crapa pelada” viene da lì, tradizione orale, storia di dispetti e di ripicche: lei fa i tortelli ma ai fratelli non li dà, li darebbe solo al suo amore, che però chissà dov’è (ve lo dico io: a Roma, dove di lì a qualche anno diventerà “Il Caravaggio”).

Un passaparola di generazioni. Per trovarla in forma di canzone – e che canzone! – bisogna aspettare secoli, il 1936, quando Giovanni (Tata) Giacobetti, cantante, contrabbassista, futuro fondatore del Quartetto Cetra, si ricorda della filastrocca popolare, la riscrive insieme a Gorni Kramer (Francesco Kramer Gorni, inarrivabile maestro di fisarmonica, precursore del jazz in Italia, re del varietà).

La musica viene da uno standard americano, precisamente da It Don’t Mean a Thing, che Duke Ellington scrive nel 1932, tutto è saltellante e sincopato, le parole in dialetto lombardo rimbalzano su quella tessitura che è un piacere, c’è ironia, forse sarcasmo, jazz, swing, accidenti!

Funziona. La canta Alberto Rabagliati. Funziona pure troppo. E poi la stupidità della censura fa il resto.

Basta leggere il Radiocorriere di quegli anni si capisce perché: “Musica negroide”, espressamente vietata dal ’37, ma sottotraccia si suona ancora, la Resistenza è anche un po’ swing. E dopotutto cosa regala Milton a Fulvia in “Una questione privata” di Fenoglio? Over the rainbow

C’è di peggio (non ridete) il jazz è anche “musica afro-demo-pluto-giudo-masso-epilettoide”. Insomma, contrabbassi e orchestrine al posto di chitarre e mandolini? Non scherziamo, dove andremo a finire? Non c’è molto da ridere, se pensate che Giorgia Meloni se la prende con Imagine di John Lennon… Il lupo, il vizio, ecc. ecc.

Dunque la canzone non si sente, non passa all’Eiar, la radio, ma la canticchia mezza Italia, divertita, di nascosto, l’infantile Crapa pelada ritmata con curvature vocalese nel ritornello, così americana, esotica, divertente; nei locali da ballo la si canta alla fine, quando un po’ di gente se n’è andata, anche le guardie: carboneria jazz degli anni Trenta.

Il fatto è che nel 1936, in Italia, quando la canzone conquista tutti, “Crapa Pelada” è uno solo. Lui, il mascellone volitivo, il duce dell’Impero, la macchietta solenne del fascismo, l’assassino di Palazzo Venezia. Ridere del potere, ammiccare, fischiettare, alludere, sono tutte cose che i regimi temono come la peste nera. Canticchiare Crapa pelada ti può costare la galera: un grande successo semiclandestino.

La storia delle censure fasciste alle canzonette è vasta e in certi casi anche esilarante. Quando Italo Balbo si schianta in aereo, per dire, diventerà un problema anche cantare “Maramao perché sei morto” (Consiglio-Panzeri, 1939, esecuzione del Trio Lescano), con quel verso meraviglioso e italianissimo, “Pan e vin non ti mancava”, e quindi che cazzo andavi a schiantarti nei cieli di Tobruk? Malumori nel regime, canzonette divertenti, fischiettate come segnali, una resistenza piccola, passiva, fatta di minimi gesti, segni di riconoscimento, bastava una strofa e si sapeva come la pensavi.

Poi, il regime finiva come si sa, “Crapa pelada”, quello vero, pure, e nel 1945 il Quartetto Cetra ne incideva – sembra un festeggiamento – una versione portentosa, prima melodica e poi (mi scuso) swinghissima, vorticosa, che diceva sì, certo, usiamo lo swing per cantare filastrocche assurde, cretinate, frittate e tortelli, ma anche per dire che si può, finalmente. Si liberava tutto, si liberava anche una canzone. Grande successo.

Che Crapa pelada sia poi finita nella raffinatissima colonna sonora di Breaking Bad, e quindi definitivamente consegnata al culto pop dei nostri anni, può essere un caso, ma ne fa in qualche modo uno standard del jazz mondiale, con milioni di visualizzazioni, una cosa che non morirà, andrà avanti ancora, da quando tre fratelli di Milano diedero una manica di botte al Caravaggio.

mer
5
ago 20

Revisionismi. Botte, olio di ricino, SS: benvenuti al (fu) Museo del fascismo

PIOVONOPIETREHa fatto bene, benissimo, Virginia Raggi, sindaca di Roma, a bloccare sul nascere l’ipotesi di un museo del fascismo. Ha fatto bene chi aveva presentato la mozione (tre consiglieri dei 5 stelle), a ritirarla. Con l’aria che tira, coi i neofascisti che occupano palazzi (Casa Pound), che difendono gli stragisti della stazione di Bologna (il senatore Ruspandini, di Fratelli d’Italia), che si vestono da nazisti (Gabrio Vaccarin, eletto a Nimis, Udine, con Fratelli d’Italia), che vanno a cene in ricordo del duce (il candidato governatore delle Marche Acquaroli, sempre Fratelli d’Italia), si rischia l’effetto celebrazione. O una pagliacciata tipo Predappio. O un’oscenità tipo il mausoleo del criminale Graziani ad Affile. Insomma, no, grazie.

Ma come sarebbe veramente un museo del fascismo? Ecco, in esclusiva, il percorso della visita.

Stanza uno. Il visitatore entra in un grande salone dove viene bastonato da alcuni arditi che dicono di farlo per la Patria. Uno speciale software riconosce gli intellettuali che devono bere, per continuare la visita, due bottiglie di olio di ricino. Entusiasmo in Fratelli d’Italia.

Stanza due. Un po’ contuso, il visitatore entra nella seconda stanza, dove gli viene sottoposto un questionario: ti piace il museo? Chi risponde “no” perde il lavoro, viene licenziato o arrestato sul posto. C’è anche una domanda specifica: “Ti chiami Matteotti?”. Nessuno ha il coraggio di rispondere “sì”. Addetti di Fratelli d’Italia controllano i documenti per scovare chi ha mentito.

Stanza tre. I fasti dell’Impero. Il visitatore viene costretto a donare al museo la sua fede nuziale e tutti gli oggetti d’oro che indossa per finanziare l’allestimento sulla presa di Addis Abeba. Si tratta di una donazione spontanea, chi non aderisce viene riaccompagnato alla stanza uno.

Stanza quattro. Nuovo questionario, con una sola domanda: “Sei ebreo?”. Chi risponde “no” può continuare la visita, chi risponde “sì” viene accompagnato alla stazione per un viaggio in Germania, o direttamente alle Fosse Ardeatine.

Stanza cinque. Stanza “esperienziale”. I visitatori sono invitati a spezzare le reni alla Grecia. Dopo ingenti perdite e una considerevole figura di merda, gli addetti di Fratelli d’Italia telefonano ai tedeschi chiedendo aiuto.

Stanza sei. Siamo a metà del percorso, i visitatori cominciano a capire cosa fu il fascismo. Vengono equipaggiati con scarpe di cartone e fucili del secolo prima e mandati in Russia a fare 14.000 chilometri a piedi nella neve.

Stanza sette. Stanza interattiva, gioco di ruolo. I visitatori devono guidare interi reparti di SS a sterminare la popolazione inerme di villaggi e paesi. Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, e altre decine e decine di posti. Chi aiuta a uccidere donne e bambini ha uno sconto al bookshop.

Stanza otto. Il visitatore, ormai un po’ provato e con i nervi a fior di pelle, non ne può più, vuole farla finita in fretta. Viene invitato dagli addetti di Fratelli d’Italia a vestirsi da tedesco e scappare verso la Svizzera. Auguri!

Stanza nove. Sezione “visitare l’Italia”, piazza Fontana, Milano.

Stanza dieci. Sezione “visitare l’Italia”, piazza della Loggia, Brescia.

Stanza undici. Sezione “visitare l’Italia”, stazione di Bologna.

 

A questo punto i visitatori sopravvissuti hanno capito cosa fu il fascismo, e cos’è ancora oggi, escono dalla visita guidata decisamente scossi. Alcuni intellettuali vicini a Fratelli d’Italia spiegano che però, dalla biglietteria al guardaroba, il museo del fascismo ha fatto anche cose buone.

mer
29
lug 20

Non solo Covid. Il negazionismo è il virus più pericoloso di tutti

PIOVONOPIETREIl convegno che si svolse a Milano nel 1630 finì malissimo. Il titolo, “La peste non esiste” era suggestivo e carico di sottintesi, si sosteneva tra le altre cose che l’epidemia fosse una favola messa in giro dai poteri forti perché un radical-chic come il Manzoni potesse, duecento anni dopo, scrivere un libro di successo. I soliti intellettuali staccati dalla realtà, ovvio, mentre la gente del popolo veniva chiusa in casa e poteva appena portare a pisciare il cane, due onesti lavoratori lombardi come Renzo e Lucia non riuscivano a sposarsi per oltre cinquecento pagine, all’Inps si giravano i pollici e gli imprenditori chiedevano sussidi. L’Innominato non metteva la mascherina, un gesto di ribellione.

Ora, per fortuna, è tutto diverso: al convegno organizzato in Senato da Vittorio Sgarbi il livello era decisamente più alto, infatti è intervenuto il famoso virologo Andrea Bocelli con un argomento che ha convinto tutti: “Io conosco un sacco di gente, ma non ho conosciuto nessuno che sia andato in terapia intensiva, quindi perché questa gravità?”. Giusto, implacabile, non fa una piega, mi ha convinto: anch’io non ho mai conosciuto nessuno colpito da un fulmine, quindi mi pare palese che i fulmini non esistono, saranno un’invenzione di Bill Gates, o di Saviano, o delle Ong, tutta gente senza cuore che chiude in casa milioni di persone per impedire a Salvini di girare l’Italia baciando salami e capocolli. I solti comunisti, insomma, gli stessi che hanno diffuso la foto dei camion militari che portano via i morti da Bergamo.

Non mi pronuncio sul valore scientifico del convegno, che mi sembra altissimo anche grazie a Bocelli, ma leggo che un certo Angelo Giorgianni ha parlato del Covid come di “un’ingegneria genetica per un colpo di Stato globale”. Interessante. E poi c’era un nutrizionista del Centro di Educazione al Dimagrimento, il dottor Franco Trinca, che se l’è presa con “il vaccino di Bill Gates”, che sarebbe “eugenetica nazista” e “Chissà cosa ci mettono dentro”, forse cose che fanno ingrassare, maledizione.

Va bene, mi avete convinto, mi iscrivo ai negazionisti, dopotutto non conosco nessuno che sia morto nella tragedia del Vajont, quindi sono propenso ad accettare il fatto che la cosa non sia mai successa, forse anche quella un’invenzione di Bill Gates e dei radical-chic, come del resto il bombardamento di Dresda (conoscete qualcuno che sia morto a Dresda? No, vero? Visto?).

Ora non c’è bisogno di essere fini psicologi per capire che la gente mente volentieri a se stessa per allontanare ombre e paure. È lo stesso meccanismo per cui il marito che trova un uomo nell’armadio pensa che sia il falegname che lo sta riparando, giusto? Dunque c’è il rischio che il pensiero negazionista cresca e prosperi, con due azioni parallele: negare la realtà da un lato e, se proprio bisogna accettarla, dare la colpa a qualcun altro. Ultimamente ai migranti, che sarebbero i nuovi untori (dopo i cinesi), e qui ci viene in aiuto un’altra virologa illustre, Annalisa Chirico, che garantisce quasi da sola, a mani nude, l’impianto ideologico-culturale di Salvini, compito titanico.

Pensa cosa fa la gente pur di non parlare di Attilio Fontana e dei camici del cognato, anche se credo che le finalità del prestigioso convegno fossero altre e più nobili: dare finalmente un po’ di visibilità all’organizzatore Vittorio Sgarbi, che in effetti ne ha poca, poverino, e in qualche modo deve farsi notare, visto il suo noto aplomb elegante, misurato e mai scomposto che i media trascurano.

mer
22
lug 20

Stati Uniti, da impero a Circo Barnum, la realtà ha ormai superato la fantasia

PIOVONOPIETREAmmetto di non aver studiato a lungo, ma mi pare di aver capito che l’unica abilità riconosciuta di Kim Kardashan sia usare in modo creativo il cospicuo sedere, oltre ad avere un marito, tale Kanye West, di professione rapper, candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Del quale – all’inizio distrattamente, ma sempre più avvinto secondo dopo secondo – ho visto un comizio elettorale in cui promette (tra altre cose, non tutte comprensibili) un milione di dollari a chi concepisce un figlio. Niente male: se aggiungesse uno yacht e una tenuta agricola in Arkansas sarebbe un buon incentivo alla natalità (ci metterei anche un mitra M16, non di peluche). Troppo facile prendersela con mister West, e va detto che la storia americana è piena di questi candidati “indipendenti”, pittoreschi, caricaturali. I più anziani e i più rockettari, ricorderanno le numerose candidature di Jellow Biafra, cantante dei Dead Kennedy’s (eccellente gruppo punk californiano) che aveva nel suo programma campi da golf nelle prigioni federali e nuove divise per la polizia: da clown. Un dadaista, insomma.

Ora c’è un piccolo problema: che le distanze tra lo sberleffo situazionista e quelli che ci credono veramente si sono assottigliate fino a scomparire, e questo anche per merito di un presidente in carica, Donald Trump, che ogni giorno pone il mondo davanti al dilemma classico: è matto o finge di? Insomma, con quale diritto sghignazziamo davanti a un rapper se a capo del mondo, con la valigetta dell’attacco nucleare, c’è uno che dallo studio ovale fa pubblicità ai fagioli di cui la figlia è testimonial? O che teorizza le iniezioni di candeggina contro il Covid? O che… il povero Donald è costretto a inventarsene una al giorno, un po’ come qui (in sedicesimo) sono costretti a fare alcuni bei tomi sovranisti che tifano per lui.

Per farla breve – e scusandomi con gli osservatori degli States che si sforzano di raccontarci quell’universo parallelo – bisognerebbe capire come diavolo è successo che l’America sia passata da colosso politico-militar-culturale che “ci ha colonizzato l’inconscio” (cit: Wim Wenders) a una specie di immenso circo con la donna barbuta, il cane che conta fino a otto, il presidente che vuole comprare la Groenlandia, un posto di matti armati fino ai denti.

Sempre casualmente, come per il comizio di Kanye West, si può inciampare nel sito di Turning Point Usa, formazione studentesca di sostegno a Trump, e anche in quel caso bisogna affrontare qualche secondo di spiazzamento: è uno scherzo o dicono sul serio? A parte le solite fregnacce ultra-liberiste (per esempio la maglietta “Le tasse sono un furto”, che potrebbero attecchire anche qui presso i nostri liberisti alle vongole), ci sono cose assai interessanti, come il censimento (nomi, cognomi, foto) dei docenti universitari di tendenze liberal, vere liste di proscrizione e il divertente slogan “Il capitalismo aiuta i poveri”.

C’era un confine, una volta, tra la caricatura e la realtà, e ora pare che il confine sia scomparso, che follia ideologica e grottesco non siano più distinguibili. “Gesù mi ha detto di comprare un fucile mitragliatore” non è più una battuta alla Woody Allen, è quello che dicono (peggio: pensano!) in molti, la metamorfosi del paradosso in realtà è sempre spaventosa, e la percezione diffusa che si ha dell’America oggi è quella di una specie di manicomio a cielo aperto, dove quando si annuncia una pandemia globale la gente si mette in fila per comprarsi un mitra. Fa ridere, ma mica tanto.

mer
15
lug 20

Denatalità. I giovani non fanno figli o espatriano: colpa del precariato

PIOVONOPIETREE’ passata un po’ sottotraccia, un po’ nascosta, un po’ spazzata sotto il tappeto, la notizia che siamo meno, sempre meno. Noi italiani, si intende.

Nel 2019 abbiamo fatto 19mila bambini in meno dell’anno precedente, toccando così, dice l’Istat, il punto più basso dall’unità d’Italia. Una curva in discesa, perché i bambini hanno questo vizio di abbassare l’età media, e se non arrivano loro l’età media si alza un bel po’, e poi la prevalenza dell’anziano fa in modo che la popolazione fertile sia sempre meno numerosa, e allora si fanno meno bambini e via così.

Non è solo a causa della carenza strutturale di nuovi italiani col pannolino che ci stiamo assottigliando. Bisogna aggiungere al bilancio i 126mila italiani che nel 2019 hanno fatto ciao ciao con la manina trasferendosi all’estero, e poi, a questi, sommare 56mila stranieri residenti in Italia (altri italiani, quindi) che hanno deciso di cambiare aria, magari verso paesi dove non vengono diuturnamente insultati e minacciati da un pittoresco baciatore di salami e dai suoi tifosi. Esilarante in proposito il titolo di Libero: “Anche gli stranieri ci snobbano”. C’è da capirli, avranno letto certi titoli di Libero.

Cabaret sovranista a parte, il saldo dei cittadini che pagava tasse e contributi qui e che ora paga tasse e contributi in altri paesi è di 25mila in più nel 2019 sul 2018), che già era stato un anno record. In una logica trumpiana cara ad alcuni pupazzi della destra bisognerebbe fare un muro ai confini, non per impedire l’ingresso agli immigrati brutti sporchi e cattivi, ma per non fare uscire gli italiani.

Ah, già. Prima gli italiani, certo. Il dibattito (un po’ stitico, si diceva) si avvita un po’, e i massimi pensatori si arrovellano per cercare di spiegare come mai facciamo meno figli, dannazione. Ma è un dibattito antico e noioso, mentre la domanda dovrebbe essere ribaltata: perché diavolo due italiani normali, medi, onesti, che vivono del proprio lavoro (meglio, dei loro mille lavoretti appiccicati con lo scotch, solubili e precari, revocabili) dovrebbero fare un bambino? In generale, uno sceglie imprese più facili, tipo scalare l’Everest con le infradito. Il problema è anche che questa faccenda dei bambini che mancano all’appello per mancato concepimento diventano qui e là, periodicamente, nel modo carsico della politica italiana, oggetto di propaganda, e ancora ricordiamo l’esilarante “mille asili in mille giorni” di quello là, parlandone da vivo.

Poi tutti incrociano grafici, disegnano tabelle, e a nessuno che venga in mente di sovrapporre la curva del calo demografico alla curva della sicurezza del posto di lavoro, insomma agli effetti delle leggi che in questi ultimi dieci anni (e più) hanno reso il lavoratore una variabile dipendente sacrificabile e comprimibile a piacere, mentre i profitti sono sacri e intoccabili. Bizzarro strabismo davanti a una verità incontestabile: se fai un figlio devi essere sicuro di dargli da mangiare, di farlo studiare e di assicurargli una vita almeno decente, tutte cose su cui una coppia intorno ai trent’anni, oggi, fa sempre più fatica a scommettere. La logica del “tutti licenziabili, hurrà!, così assumeranno altri!”, dicono le tabelle, non funziona e fa danni. Però, strano a dirsi, l’analisi si ferma quasi sempre all’elenco dei numeri e ai sospiri preoccupati, che è un po’ come stupirsi dell’allagamento dopo aver aperto tutti i rubinetti e sigillato gli scarichi. Poi, con l’acqua alle ginocchia, tutti a stupirsi: non fate più figli. Ehi! Voi! Come mai?

mer
8
lug 20

Fascismo. E’ l’acqua in cui sguazzano la sora Meloni e i suoi Fratelli d’Italia

PIOVONOPIETREAltro giro, altra corsa, altro esponente di Fratelli d’Italia che inneggia al Ventennio, altre polemiche, altre gustose minimizzazioni, altri articoli sui giornali, sui siti, altri appelli, pensosi corsivi e sacrosante prese per il culo. La questione Meloni-nostalgici fascisti si configura ormai come la storiella del criceto e della ruota: non passa giorno che non ci sia un caso di apologia del fascismo ad opera di qualche fratellino d’Italia (o lista collegata), e la competizione più entusiasmante all’interno del partito è aperta: si vedrà a fine campionato se la corrente maggioritaria sarà quella di chi si veste da SS o quella degli arrestati per ‘ndrangheta, una bella gara.

Si è detto in lungo e in largo del consigliere comunale di Nimis (Udine) vestito da nazista, tal Gabrio Vaccarin, che nessuno aveva mai sentito nominare finché non hanno cominciato a girare foto in cui compare impettito davanti a un ritratto di Hitler, agghindato come per dirigere un campo di sterminio, croce di ferro inclusa.

Meno scalpore, per distrazione dei media, ha fatto il manifesto elettorale di tal Gimmi Cangiano, candidato in Campania per la sora Meloni, che non solo ha messo lo slogan “Me ne frego” sui suoi cartelloni elettorali, ma ci ha pure scritto sotto: “La più alta espressione di libertà”. Non fa una piega, quanto a espressione di libertà. Certo, poteva scegliere altri slogan, per esempio “Cago sul marciapiede”, che anche quella, ammetterete, è un’alta espressione di libertà, come anche “Taglio le gomme alle macchine in sosta”, o “Butto in mare l’olio esausto della mia fabbrichetta”, che sottolinea l’insofferenza del cittadino martoriato dalla burocrazia e dalle costrizioni della legge.

Mi fermo qui con gli esempi perché per correttezza giornalistica dovrei elencare anche le difese puntuali e articolate che ogni volta gli esponenti di FdI devono inventarsi per giustificare o minimizzare: una volta “non è iscritto”, un’altra volta “è una ragazzata”, oppure “è stata una leggerezza” o ancora “era carnevale”. Insomma, per dirla con la lingua loro, otto milioni di piroette per allontanare da sé i sospetti di fascismo, preoccupazione un po’ inutile visto che tre indizi fanno una prova, dieci indizi fanno una certezza e dopo cento indizi dovrebbero intervenire i partigiani del Cln con lo schioppo. Ma sia: per farsi perdonare ed allontanare i sospetti, la Meloni candida alla presidenza della regione Marche un suo deputato, tal Francesco Acquaroli, noto alle cronache soprattutto per una cena celebrativa della marcia su Roma (Acquasanta Terme, 28 ottobre 2019). Sul menu, accanto al timballo e allo spallino di vitello al tartufo campeggiavano nell’ordine: un fascio littorio, un’aquila con la scritta “Per l’onore dell’Italia”, il motto “Dio, patria e famiglia”, una foto del duce volitivo e machissimo con la frase “Camminare, costruire e se necessario combattere e vincere”. Si vede che non era necessario, perché persero malamente e il celebrato Mascellone camminava sì, ma verso la Svizzera vestito da soldato tedesco, bella figura.

Fa bene Gad Lerner (su questo giornale) a chiedere alla sora Meloni di dissociarsi una volta per tutte dalla retorica fascista dei suoi eletti e dei suoi militanti, ma dubito che succederà: quella retorica, un po’ grottesca e molto ignorante, risibile e feroce, è l’acqua in cui nuota Fratelli d’Italia, gli slogan fascisti e i vestiti da gerarchi sono il plancton di cui si nutre, e non si è mai visto un pesce svuotarsi l’acquario da solo. Bisognerebbe aiutarlo come l’altra volta, settantantacinque anni fa.

mer
1
lug 20

L’irresistibile Giachetti, il Voltaire de noantri che va in difesa di Salvini

PIOVONOPIETREScrivetela su un foglietto e tenetela nel taschino della giacca, o in uno scomparto della borsa, nello zaino, in una tasca dei jeans. Poi tiratela fuori alla bisogna e leggetela ad alta voce: “Non sono d’accordo con quello che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”, firmato Voltaire. Fico, eh? Diciamolo, bella frase: fa colto, spaccia chi la pronuncia per persona di buone letture, anche se è convinto che Voltaire sia un difensore del Paris Saint Germain e non un filosofo letterato del diciottesimo secolo. Siamo, insomma, davanti a una citazione liofilizzata, facile da ricordare, perfetta e pronta all’uso ogni volta che qualcuno fischia Salvini nelle piazze italiane (succede spesso). Meno male che Voltaire è morto (nel 1778, quasi due secoli e mezzo fa), altrimenti Salvini dovrebbe girargli qualche prebenda (magari non tutti i famosi 49 milioni, ma una percentuale sì).

Avviso doveroso: non si vuole qui parlare – che noia – del mangiatore compulsivo di ciliegie, dell’uomo-selfie (anche ai funerali), insomma, del più cinico e risibile arruffapopolo in circolazione, bensì di quella sindrome ultra-tafazzista dei presunti avversari che lo difendono sventolando una frase di Voltaire per sembrare ragionevoli e moderati. La quale frase, tenetevi forte, non è per niente di Voltaire, ma viene da un saggio del 1906 la cui autrice, Evelyn Beatrice Hall, si è più volte scusata per averla attribuita al filosofo, uno sgarbo sempiterno al vecchio parruccone Voltaire il quale è più o meno passato alla storia per una frase che non ha detto e nemmeno pensato, ma che viene usata regolarmente per difendere l’indifendibile e segnatamente per bacchettare chiunque contesti Salvini.

Le “Brigate Voltaire”, insomma, non dormono mai: se si fischia qualcuno (purché di destra), ecco alzarsi puntualissimo il pipicchiotto voltairiano sedicente di sinistra che la ricorda tra virgolette. Ultimo, dopo la cacciata di Salvini da Mondragone, l’irresistibile Roberto Giachetti, che ci ha fatto la grazia di non citare direttamente l’aforisma farlocco del grande letterato, ma ne esprime con parole sue il concetto: “Non esiste al mondo che in un paese democratico ad un esponente politico (per di più il segretario del maggiore partito italiano) venga impedito di fare un’iniziativa politica”. Gioco, partita, incontro: ci aspettiamo a stretto giro un digiuno giachettiano, uno sciopero della fame dei suoi.

Che poi, quella di Salvini a Mondragone non era “un’iniziativa politica”, era una provocazione bella e buona. Andare a parlare in un posto segnato da un’emergenza sanitaria pericolosa, incendiato da una situazione esplosiva, con una comunità di stranieri (bulgari questa volta) sfruttati all’inverosimile ed eversivamente additati come untori non è un’iniziativa politica, è correre verso l’incendio portando taniche di benzina (ci stupisce l’autorizzazione del Viminale, semmai). Se invece si volesse fare a Mondragone un’iniziativa politica seria, si potrebbe andare a chiedere di vedere i contratti di lavoro dei famosi bulgari, i loro contratti d’affitto, le posizioni Inps e Inail, e magari pure incrociare i dati per capire se quelli che fanno lavorare i braccianti bulgari nei campi a un euro e mezzo l’ora non siano per caso gli stessi che gli affittano un posto letto a prezzi da costiera Amalfitana. Ecco, quella sì, sarebbe un’iniziativa politica. Purtroppo non la farà Voltaire, che è morto, e nemmeno Giachetti, che è vivo e lotta insieme a lui (a Salvini, non a Voltaire).

mer
24
giu 20

Salvini confonde la popolarità (da macchietta) con la politica

PIOVONOPIETREAlla fine, il primo a farsi la foto sul ponte di Genova redivivo è stato lui, Salvini Matteo, cioè lo stesso che nemmeno alla cerimonia di lutto e dolore per i morti nel crollo aveva resistito alla tentazione dei selfie sorridenti con i fans. Non conosco la borsa valori delle photo opportunity, quindi non so dire in quale percentuale una foto sul ponte di Genova possa riparare i danni dello show veronese delle ciliegie, compulsivamente ingurgitate ascoltando un discorso su neonati deceduti all’ospedale. Boh, gli strateghi dell’immagine salviniana avranno fatto i loro conti. Una cosa è certa: esiste, al posto della politica, una rappresentazione mediatica, un calcolo semantico (spesso sbagliato), un gioco molto simile alla guerra delle copertine che si fanno i giornali di gossip. Insomma, divertente, ma ormai è noto che quando la gente chiede “Ahah! Hai visto Salvini?”, non si aspetta un discorso politico, ma la mattana del giorno, il numero, lo sketch, la battuta, il balletto. Cosa ci dirà Salvini lo sappiamo già, e sappiamo pure che si tratta di ricette variabili a seconda del momento e dell’opportunità. Chiudiamo tutto, apriamo tutto, meno tasse, più soldi, più debito, meno debito, tutto facile e immediato. Inutile insistere oltre, sono cose che si sanno.

Più interessante è invece il meccanismo per cui un leader politico, o in generale una figura pubblica, tende a impersonare, e addirittura a superare, la sua caricatura, esasperando proprio i tratti grotteschi che gli si rimprovera. Salvini, dal Papeete in poi, ha deciso di creare una specie di iper-Salvini, cioè di diventare una macchietta di se stesso pensando che questo pagasse in termini di popolarità, che lui confonde con la politica. Si dirà che la colpa è dei media: se si pubblicassero foto di Salvini quando Salvini parla di politica lo vedremmo una volta al mese, mentre ormai la notizia è la foto di Salvini che si fa una foto da solo. E vabbè, non è certo una cosa nuova questa di confondere popolarità e politica, ma la differenza con l’oggi è che un tempo si cercava di coniugare popolarità e credibilità, cosa oggi considerata facoltativa. Per cui abbiamo paginate intere su un ex generale dei carabinieri vestito di arancione che abbina al ribellismo reazionario dichiarate frequentazioni con gli alieni, per esempio. E gli si dà spazio lo stesso, in lungo e in largo, invece di chiamare l’ambulanza.

Oppure abbiamo l’autocaricatura per eccellenza, il modello imprenditoriale che consiglia e indirizza, quando non si mette a sbraitare: “Questi qui sono gente matti”, all’indirizzo del governo. Flavio Briatore, ascoltato spesso come un guru dell’economia con la sublime motivazione che sa far funzionare un bar, lascia stupefatti per la sua aderenza alla propria stessa macchietta. E’ uno che dice “tachipirinha”, confondendo medicine e long drinks, che si lamenta delle piste ciclabili perché gli rallentano il macchinone da milionario, insomma, è un cinepanettone ambulante, periodicamente convocato a discettare delle sorti del Paese, una specie di Sgarbi dei privé. Questo potrebbe spiegare la crisi della commedia all’italiana, che fu una delle nostre enormi ricchezze passate. Quegli arcitaliani, quei magnifici caratteristi, sono tra noi. La realtà che si fa farsa è assai difficile da rappresentare se già esiste in natura in così perfetta forma. La cosa strabiliante è che si confonda – e che lo facciano i media assetati di clic e di ascolti – tutto ciò con la politica, come fare mediocre cabaret oratoriale e credersi Shakespeare.

mer
17
giu 20

Confindustria. Liberisti (coi soldi nostri) e vittimismi “all’arrembaggio”

PIOVONOPIETRESe grattate via la polvere, lo struggente dibattito se Conte si farà un suo partito, le baruffe interne ai 5s, le valigette venezuelane disegnate coi trasferelli, lo spettacolino quotidiano delle destre melon-salviniane, insomma, se togliete il rumore di fondo, la melodia risalterà abbastanza chiara. Quello di cui si parla, malamente perlopiù, è il disegno che si può dare al Paese, nei prossimi anni e forse decenni, facendo nuovi debiti, certo, ma per una volta, si direbbe, non per tappare i buchi, ma per rilanciare.

Dunque, a dispetto di quelli che destra e sinistra non esistono più, e le ideologie sono morte, eccetera eccetera, c’è uno scontro in atto tra visioni del mondo – o almeno della gestione economica di una società complessa, che è la stessa cosa – contrapposte e differenti. Il quotidiano punzecchiamento di Confindustria al governo Conte, un pressing duro e dai toni non proprio diplomatici (“La politica che fa più danni del Covid”), tradisce un certo nervosismo. Tanti soldi in arrivo, il timore di non avere un governo automaticamente amico, come sempre avvenuto in passato, suggerisce agli industriali una strategia aggressiva, ma anche un po’ passiva, insomma, il tradizionale vittimismo seguito dal grido “all’arrembaggio”.

Il nemico è sempre quello, il fantasma dell’”ingresso dello Stato nell’economia”, per cui una volta (illo tempore) si deploravano Alfasud e panettoni, e oggi si fanno altri esempi. Come dice il capo Bonomi, Ilva e Alitalia sono la dimostrazione dei disastri della gestione pubblica. Dimentica forse che l’Ilva fu salvata dai disastri di un privato, che ora la gestisce una multinazionale privata che chiede prebende e sconti un giorno sì e l’altro pure. Quanto ad Alitalia, di capitani coraggiosi, e generosi imprenditori, e impavidi investitori poi atterrati coi piedi per terra si è perso il conto. E si è perso il conto anche dei sedicenti leader e capi di governo dell’epoca che esultavano per aver dato un’azienda sana ai privati e aver accollato i debiti a tutti noi. Una prece.

Ma sia: per condurre la sua battaglia, il fronte liberista (coi soldi nostri) usa due argomenti forti: la burocrazia e l’assistenzialismo, due cose brutte e ripugnanti al solo pronunciarle, tanto che nei talk politici alla parola “burocrazia” escono tutti con le mani alzate e si arrendono. E’ un buon argomento, insomma, popolare. Ma raramente si pensa, poi, che molta burocrazia vuol dire controlli, procedure, fare le cose secondo certe regole, e la pretesa di “cancellare la burocrazia”, come si sente dire ogni tanto, copre il desiderio, nemmeno nascosto, di far fuori le regole. Tutto più snello, tutto più veloce, tutto naturalmente meno trasparente e più infiltrabile da interessi zozzi.

La guerra del fronte padronale all’assistenzialismo, poi, è poderosa. Per mesi abbiamo assistito al bombardamento sul reddito di cittadinanza, sui casi di cronaca, sui furbetti, su quelli che stanno sul divano, eccetera eccetera. Il sottotesto (macché, il testo!) è che si spende per assistere le fasce più deboli invece di dare quei soldi a loro – loro la luminosa imprenditoria – che le farebbero lavorare. Una tesi che ha buona stampa, come si dice, cioè l’appoggio quasi monolitico dell’informazione. E così quando l’Inps comunica di aver scovato più di duemila aziende che facevano pasticci con la cassa integrazione, e migliaia di assunzioni predatate di parenti e amici per prendere soldi in modo truffaldino, la notizia è stata sepolta, lontanissima dalle prime pagine.