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apr 17

Bob Dylan, dopo la protesta le vette del misticismo laico

E’ uscito il terzo volume delle Lyrics di Bob Dylan. Ne ho scritto su TuttoLibri de La Stampa.

DylanTTL220417Ecco, ora le opere complete sono davvero complete. Che lo vogliate ancora menestrello (uff!), o Zelig elettrico, o profeta di chissaché, o bislacco cantante, ora i testi di mister Bob Dylan li abbiamo tutti. Con l’uscita del terzo volume delle sue Lyrics (Feltrinelli, qui tutti i testi dal 1983 al 2012, i primi due tomi coprivano gli anni 1962-68 e 1969-83), si compone la monumentale cosmogonia dylaniana.

Queste, insomma, sono le parole, tutte le parole. Ottimamente tradotte e magistralmente commentate da uno dei più grandi dylanologi viventi, Alessandro Carrera, professore illustre di Letterature e Culture del Mondo all’Università di Houston, Texas, saggista, scrittore e altro ancora. Un’opera preziosa che oggi suona come un involontario risarcimento: mesi e mesi a disquisire se Dylan meritasse il Nobel – e caliamo un velo pietoso sulle strambe accuse di “cafonismo” per il ritardato ritiro del premio – e ora ecco nero su bianco la materia del contendere. Leggere i testi – si dice in giro – conta più del chiacchiericcio salottiero-letterario del “Oh, signora mia, che maleducato quel Dylan!”. Il primo grazie al professor Carrera per il suo lavoro di cesello sul prezioso intarsio dylaniano è dovuto per questo: fornisce argomenti, letture critiche, interpretazioni sapienti capaci di uccidere l’ottuso luogocomunismo dei senzapoesia.

E dunque via, che il viaggio cominci, ricco di deviazioni, di salti, di passaggi di tono. Una poetica ingombrante e ramificata, a volte contraddittoria, eppure, vista nel suo corpus complessivo, di straordinaria, cristallina coerenza. Il terzo volume delle Lyrics copre trent’anni di Dylan, ed è il Dylan adulto, Dylan3quello che si affranca faticosamente dall’ombra del suo mito (avvertenza: se leggo ancora una volta “portavoce della sua generazione” metto mano alla pistola), che lo stropiccia implacabilmente, rinnegandolo e rafforzandolo al tempo stesso. Un Dylan che si lascia alle spalle la formula della “canzone di protesta” (ri-uff!) e persino le svolte religiose fatte di gospel, inni e salmi.

Si parte, ordine cronologico, da Infidels (1983), salutato all’epoca come uno dei periodici “grandi ritorni” di Dylan, e si arriva a Tempest (2012), capolavoro di misticismo laico, dove lo scoramento e il disincanto scivolano in un groviglio di rimpianti: lido mattino /abbiamo pianto per le nostre anime lacerate / a cosa sono valse le nostre lacrime? / a cosa sono valsi quei lunghi anni sprecati?” (Long and wasted years). “Abbiamo pianto in un freddo, geDylan2
Tra questi due estremi, tra queste stazioni di testa e di coda lontane tre decenni, si dispiega il grande affresco di Dylan. Che è un racconto sull’America e sull’Anima, sul Bene e sul Male, la Vita, l’Amore, l’Abbandono, e su come – maldestramente, umani come siamo – maneggiamo tutto questo. Il testo originale a fronte ci dà conto delle assonanze e dei ghirigori semantici, roba per gli anglofoni esperti, e qui un altro grazie al traduttore va per la scelta, ogni volta, del giusto registro: letterale quando serve, capace di illuminare sullo slang dylaniano fatto di allusioni e citazioni, persino in rima quando il testo lo richiede. E preziosissime sono le note di Carrera, rabdomante colto e spericolato che cerca e scava tra significati profondi e rimandi di senso, ammiccamenti, assorbimenti di parole sempre sospese tra la Bibbia e i Poeti (quelli che se avessero vinto il Nobel nessuno avrebbe storto il naso).

Ma Dylan sa attingere anche dalle filastrocche per bambini, dall’enorme serbatoio della Grande Canzone Americana, dai proverbi, dal folk pre-operaio fino alla ricerca del Blues, o meglio, se si consente l’uso di una categoria kantiana, della “bluesità”. Per cui leggere questi testi (non poesie, canzoni!)Dylan1 è intraprendere un viaggio non, banalmente, in “quello che voleva dirci l’artista”, ma in quello che ci ha detto veramente, cantandolo, appoggiando il senso delle parole su metriche che è bello strascicare e tradire mille e mille volte. E sarà un caso, o gusto personale, ma i testi di album come Love and Theft (2001) o Tempest (2012), dove la descrizione e lo sgomento per ciò che si descrive si uniscono in gloria, sono capolavori sinuosi e fluidi. Dal poeta impariamo che le storie del mondo, dalla grande alluvione del Delta del Mississippi del 1927 all’affondamento del Titanic, da Romeo e Giulietta alle vite di piccoli banditi già sconfitti alla prima strofa, sono le storie nostre, che ci riguardano e che in qualche modo ci spettano.
Perché alla fine di tutto – alla fine del libro, della musica e di una carriera durata oltre mezzo secolo e che ancora dura – siamo ancora qui a dirci, stupefatti e storditi di malinconia: “Hai gambe che fanno impazzire gli uomini / Quante cose non abbiamo fatto e invece dovevamo fare” (Scarlet Town).

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