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19
ago 16

Chi è, cosa fa e dove pensa: una malattia chiamata “dylanite”

Fatto190816A 75 anni suonati, c’è questo signor Bob Dylan che si diverte a scarnificare Frank Sinatra (gli ultimi due dischi, Shadows in the night e Fallen angels), e canta ancora dal vivo con maramalda disinvoltura. E va bene. Ma soprattutto alimenta senza sosta l’ossessione dei dylaniani. Temibile setta dal dogma inconfutabile: Dylan è Dylan, e chi non capisce questa semplice regola peggio per lui.

Ed eccoci alla dylanite, patologia (letteraria? musicale? Boh…) che indaga su Dylan, studia, cerca, interpreta, collega, mette insieme i pezzi di un puzzle che pare (per fortuna) incomponibile.

Ultimo contributo alla scienza, tutt’altro che esatta, della dylanologia è un saggio di Marco Zoppas, Ballando con Mr. D – nessuno suona il blues come Bob Dylan (BookTime, 2016), pamphlet colto, ricco di citazioni, denso di studi e anche – soprattutto – amabilmente dietrologico. Ne esce un Dylan tutt’altro che pacifista, una specie di profeta dell’ipercapitalismo americano e soprattutto “il più grande cantore della Guerra Fredda” (testuale).

Lo dico a scanso di equivoci: il saggio di Zoppas è uno spasso. Ricco di spunti, angolazioni inedite, interpretazioni audaci, aneddoti che si vorrebbero illuminanti. E dà conto di alcuni paradossi: possibile che Maggie’s Farm (canzone del ’65) si preconizzasse addirittura la reazione di Israele al piano nucleare iraniano? Non si starà esagerando con l’esegesi?

Nel saggio di Zoppas c’è anche di più, ovvio, e gli studiosi di dylanologia non se lo faranno scappare, ma il suo primo merito è di dimostrare ancora una volta che di Dylan non si butta niente, e ognuno può dire e pensare quello che vuole (persino che una canzone di amore e abbandono come It ain’t me baby sia un’invettiva anticomunista contro i radical-chic… mah!), sapendo che l’oggetto di tanti studi non confermerà, non smentirà, farà quello che ha sempre fatto, convinto come ha detto più volte che (forse) sarà capito tra un secolo.

Chi cerca meno interpretazioni socio-politiche (quelle che hanno fatto esultare Il Foglio: hurrà!DylanFatto190816 Dylan non è di sinistra! Oddio, siamo ancora lì…) e un approccio più cultural-antropologico-letterario al signor Dylan può puntare su un altro saggio critico, di un luminare della materia, Alessandro Carrera, traduttore “ufficiale” dei testi di Dylan, del suo simil-romanzo (Tarantula, 1966), della biografia (Chronicles, Feltrinelli 2005) e di altre notevoli opere. Insomma, Carrera, che insegna cultura e letteratura italiana e del mondo a Houston, Texas, pubblica un pamphlet di rara bellezza (Bob Dylan, Doppiozero) che è una specie di ricerca intima tra sé (il prof è assai simpatico) e Bob Dylan. Chi è? Che fa? Che dice? E soprattutto cosa dicono e pensano i suoi maniaci esegeti?

Una cavalcata mirabolante di riflessioni, citazioni, interpretazioni che vanno dalla Bibbia all’amor cortese, dall’eguaglianza alla giustizia, all’America e a tutto il resto. Un ottovolante di curve improvvise e geniali (che c’entra un cantante americano del XX secolo con il trattato De Amore di Andrea Cappellano, secolo XII, quasi mille anni prima? Eh, appunto!). Ironico e divertente, autoironico nel confrontarsi con la dylanite, intesa questa volta come malattia, ossessione e gaudio dei dylanisti.

Che poi, come ovvio, si dividono sulle svolte dell’opera omnia. E qui, per aiutarli a non perdersi, ecco il compendio ragionato e discusso, libro prezioso e anche lui fonte di infiniti dettagli e aneddoti e rivelazioni: Bob Dylan disco per disco, di Bream Jon (edizioni Il Castello). Così, chi vuole, può sapere dove si trovava Dylan ad ogni album. E non si intende il luogo fisico, ma emotivo ed esistenziale, insomma in quale pezzo del suo tragitto. Era felice? Incazzato? Era nella fase cristiano-messianica? Innamorato? Fresco sposo? Era incattivito o morbido? Eccetera, eccetera. Il tutto attraverso dialoghi tra esperti, musicisti, critici, amici, complici, tecnici, eccetera, che discettano su ogni disco del Nostro, anno dopo anno, svolta dopo svolta, e ne esce la storia della Great American Song, niente di meno.

Alla fine, l’ossessione continua, la saggistica su Dylan è più ampia della discografia di Dylan, e pochi come il vecchio ragazzo del Minnesota la sanno stimolare. Il fatto, come sanno i dylaniani e gli altri ignorano, è che Dylan contiene parecchia roba, la Poesia e il Poeta, la Storia, l’Odio, l’Amore, e altro ancora. Per cui un dylanologo esperto può entrare nel labirinto dalle parti della Bibbia e uscirne con un blues del Delta, oppure entrare con una ballata acustica e uscirne con una visione del mondo, o ancora farsi aiutare da Dylan a fare a pezzi il mito-Dylan e partire ogni volta da capo. Si entra, sì, nel labirinto, e si rischia di non uscirne mai. Mica male per un cantante, eh!

2 commenti »

2 Commenti a “Chi è, cosa fa e dove pensa: una malattia chiamata “dylanite””

  1. È un cantautore icona che regge la ribalta dagli anni 60,oltre la dylanite c’è anche un po’ di americanite a stelle e strisce,si sa repubblicani o democratici che siano loro si sentono in sora le p

    da Ivo Serentha   - venerdì, 19 agosto 2016 alle 13:43

  2. Dannazione è partito l’invio,gli smartphone croce e delizia…

    Si sentono sopra le parti,un eroe o una vittima statunitense non è pari a qualsiasi altra vittima del pianeta.

    da Ivo Serentha   - venerdì, 19 agosto 2016 alle 13:44

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