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ven
27
set 19

Il cabaret fa ridere? Ma non scherziamo…

Il Fatto Quotidiano mi ha chiesto di recensire il libro di Flavio Oreglio sulla storia del cabaret. L’arte ribelle. Storia del cabaret da Parigi a Milano (Sagoma editore). Ecco qui

Recensione Cabaret OreglioBasta una piccola pedana, a volte nemmeno un microfono perché si parla a platee minuscole, intime. Poi serve saper mettere insieme le parole, spesso i gesti, a volte suoni e musica, ed ecco il cabaret. Facile a dirsi, e invece no, tutt’altro. Perché la storia è lunga e complessa, piena di curve e di svolte, e per raccontarla (ma vorrei dire: per spiegarla e ripulirla da quiproquò e luoghi comuni) serve uno che al cabaret ha dedicato vita e carriera: militante, praticante e infine storico, Flavio Oreglio, che firma questo piccolo tomo prezioso, L’arte ribelle. Storia del cabaret da Parigi a Milano (Sagoma editore).

Già dalle quattro piccole prefazioni (Enrico Intra, Roberto Carusi, Tinin Mantegazza, Roberto Brivio) si capisce che fa sul serio, che il saggio storico si mischia al pamphlet critico. E Oreglio parte davvero in quarta, gli preme mettere i puntini sulle i, come lo storico che delimita il suo ambito di ricerca ma anche come l’appassionato che freme davanti alle ingiustizie, alle ricostruzioni affrettate, agli errori. Il primo, clamoroso: far coincidere il cabaret con la comicità e con la risata, cosa sbagliatissima, perché le forme di spettacolo che “fanno ridere” (o vorrebbero) sono molte e lui, invece, è alla ricerca dei caratteri specifici di un’arte che fa storia a sé, e lo fa nel modo più intenso: mischiando e contaminando molte arti.

Pensate a Gaber, ci dice Oreglio: era forse soltanto risata? E – aggiungo io – pensate all’intrinseca tristezza facciale di Felice Andreasi, alle malinconie stralunate di Enzo Jannacci, e vedrete che l’equazione cabaret-uguale-si-ride diventa piccola piccola, riduttiva. Con tutto che (e diciamolo!) si ride anche.

Dunque Oreglio rivendica, con il giusto orgoglio, la specificità di un genere, e questa sua dichiarazione di poetica, annunciata come un manifesto programmatico, viene confermata riga dopo riga, nella strabiliante evoluzione della storia.

All’inizio fu il Cafè chantant, la Parigi della Belle Epoque, il Secondo Impero, un posto dove sedevano più o meno comodi i grandi narratori dell’epoca da Hugo a Zola. Le Chat noir, il locale ai piedi di Montmartre da cui, per convenzione, partì tutto, era un ritrovo di poeti e scapestrati, intellettuali e assenzio. Davvero un peccato non aver assistito (e per forza, era quasi tre secoli fa!) alle stralunate recite degli Hydropathes (più o meno: quelli a cui fa male bere acqua), o ascoltare la chanson canaille di Aristide Bruant, o immergersi in quell’esplosione di circoli, riviste, tumulti artistici e affabulazioni che mischiavano nonsense e cronache politiche, satira e goliardia.

Poi, la diaspora. Dalla Francia al resto d’Europa, e qui si rischia davvero il salto sulla sedia, perché il cabaret ha sfiorato, attraversato e fiancheggiato i più vividi movimenti culturali di ogni epoca. Dalla Parigi mitica della Belle Epoque alle più disparate avanguardie europee. Ha giocato con i fermenti della Berlino degli anni Venti e Trenta (avete presente un certo Bertold Brecht?), dove Karl Valentin entusiasmava con i suoi monologhi (apparentemente) insensati; oppure il futurismo, in Italia, quando l’immenso Petrolini poteva permettersi lo sberleffo al regime (“Bravo! Grazie!”, meraviglia vera), o ancora la Russia, la Svizzera, la Polonia, e il cabaret diventava patrimonio d’Europa.

Ma dunque, almeno per l’Italia, le connessioni sono nobili e note già dall’inizio del secolo: dal Caffè Concerto al Tabarin, dal Varietà, all’avanspettacolo, con le diramazioni che Oreglio mette in ordine: la rivista, il salone Margherita, l’Ambra Jovinelli, insomma, la storia nostra. E poi (viene il bello), la capacità di abbeverarsi a un movimento (e di crearlo) fatto di giornali satirici, fogli irriverenti, sfide al pensare solito e comune. Fino (viene il bellissimo) all’esplosione del dopoguerra, che si chiamava Derby, a Milano (ma non solo), e qui va ringraziato Oreglio per la capacità di non cadere nella semplice mitologia ormai stucchevole, ma di sezionarla, spiegarla, analizzarla.

Lasciamo perdere l’indice dei nomi: tutti i più grandi hanno portato il loro mattoncino (Franco Parenti, Dario Fo, può bastare?, ma sono centinaia) alla costruzione di un’arte quasi underground e però popolare. Cavalcata entusiasmante che qui (mi scuso) si riesce solamente ad abbozzare. Peccato: la storia si ferma a metà degli anni Ottanta, quando il Grande Errore si impose e prosperò, e quando il cabaret (o meglio, la sua percezione) si ridusse a risata, battutismo, tormentone. Che ingiustizia, venire da così lontano e andare così vicino (traduco: in tivù), ma mai disperare: il gatto ha sette vite, e il cabaret anche di più. Cioè, speriamo.

1 commento »

Un Commento a “Il cabaret fa ridere? Ma non scherziamo…”

  1. Non so se il Cabaret alla Jannacci & Gaber goda di buona salute o se fa uno strano puzzo, ma i suoi derivati più comici che puntano alla risata, con venature più o meno satiriche, quello sì che è vivo.

    da sebastiano   - lunedì, 7 ottobre 2019 alle 09:32

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