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feb 16

I bambini ci guardano, ma soprattutto noi guardiamo loro

bambinipag99E dunque bene, bello, evviva. Il piccolo Murtaza incontrerà Leo Messi. Il calciatore più famoso del mondo (da anni) abbraccerà il bambino più famoso del mondo (da giorni), un piccolo, tenerissimo cinquenne, afghano della provincia di Ghazni. Suo zio (afghano che vive in Australia) ha postato su Facebook le foto di Murtaza che gioca nella neve con una casacca ricavata da una busta di plastica, a righe bianche e azzurre (nazionale argentina), il numero dieci, il nome di Messi. Tenerezza planetaria e missione umanitaria: la Federcalcio afghana fa sapere che Murtaza volerà a Barcellona (che Messi possa volare in Afghanistan è escluso), e noi vedremo presto  altre foto: un bambino felice, un campione tanto umano. Rallegriamoci. Il piccolo Murtaza, insomma, ha svolto egregiamente (e da innocente, ovvio) il ruolo che su Facebook e nella grande fabbrica delle emozioni collettiva svolgono i gattini. Teneri, fragili, innocenti, un po’ pazzi. Un bambino (meglio: un bambino povero che tira calci a un pallone nella neve), un sogno, una fotografia, una grande consolazione per tutti.
Un altro bambino famoso: Aylan, un’altra foto, la spiaggia di Lesbo e lui riverso lì come un fagotto. Scosse le coscienze, si disse, scosse il mondo. Venne usato in ogni modo. Matteo Renzi, che in altre occasioni ha tuonato la sacrosanta frase «non si strumentalizza chi muore», lo mostrò alla folla durante il comizio di chiusura della festa dell’Unità a Milano (6 settembre scorso) dicendo alla regia: «Franco fai vedere la foto di quel bambino?…». Aylan era in quel caso un simbolo e un memento, e una tragedia certo. Ma era una tragedia che serviva mostrare. Aylan ha salvato altri bambini? Oppure è servito solo per la polemica e la battaglia politica? E i bambini che ora annegano nell’Egeo, perché ci sembrano meno annegati di quelli che annegavano (e ancora annegheranno) nel Canale di Sicilia? Forse perché siamo cinici? O perché la commozione, come i gattini di Facebook, dura pochi secondi? O perché non siamo bambini, forse?
Fatto personale: nel 2003 in un corsivo per Ballarò, mostrai, in un veloce montaggio, piccoli afghani nascosti in una grotta sotto i bombardamenti americani. Carlo Giovanardi, ai tempi favorevole a quelle bombe che portavano democrazia (s’è visto…) si imbizzarrì di brutto e diede dei “nazisti” agli autori del corsivo, dicendo che i nazisti, Hitler, Goebbels, usavano i bambini per la propaganda. Anni dopo (oggi) Carlo Giovanardi è (ri)sceso in piazza insieme ad altre migliaia di persone per dire che i bambini non possono essere adottati da una coppia omosessuale, che hanno bisogno di un papà e una mamma, che non possono nascere da uteri in affitto, ma solo di proprietà, con l’argomento forte che ‘sto affitto si paga a madri poverissime – ma sul perché le madri siano poverissime, e come aiutarle, nemmeno una parola.
Visto? I bambini servono sempre. Potevi bombardarli, sì, ma non dargli due genitori dello stesso sesso. I bambini non sono uomini piccoli, anzi. Sono uomini che valgono di più, a livello simbolico. Sono gattini su Facebook. Sono una molla sicura non tanto di indignazione, ma di pietà. Sì, sono perfetti generatori di compassione. E allora ecco: i bambini siriani dietro i fili spinati europei. O che lavorano in Turchia per le griffe della moda. Quelli “costretti a farsi esplodere” da Boko Haram, quelli che piangono quando Angela Mekel dice «Non possiamo accogliere tutti», e poi però vengono accolti e arriva il fotografo.
Ecco fatto. I bambini piacciono sempre, inteneriscono, sono la perfetta incarnazione dell’innocente davanti all’adulto colpevole. Ma tutto questo funziona per i singoli bambini. Murtaza. Aylan. Non i bambini, insomma, ma quel bambino, in quella particolare situazione, in quella particolare foto, in quel particolare contesto, dove possa essere tirato di qua e di là a seconda degli intenti politici, o polemici, o di propaganda. Poi ci sono i bambini. Gli altri, tutti gli altri. Per esempio i tre milioni di bambini sotto i cinque anni che ogni anno muoiono per fame e malnutrizione, per acqua putrida, perché il mondo non è attrezzato per nutrirli. Ottomila al giorno. Difficili persino da immaginare, troppi gattini per una pagina Facebook, meglio commuoversi sui casi singoli, il privato paga sempre, il collettivo disturba, la massa non fa notizia. E dunque? Una moratoria sui bambini? Silenzio stampa? Cinismo e far finta di niente?
Non è un discorso per bambini, certo, è un discorso per mass-media, e quindi morirà nel vuoto, chissenefrega, irrilevante, che noia, pussa via. Perché sarà anche vero che i bambini ci guardano, ma è soprattutto vero che noi guardiamo loro. Che li usiamo, che li esibiamo alla bisogna. Sofferenti, o morti, o vivi ma vietati, o vivi ma da regolamentare, con o senza stepchild adoption. Che servono per la pancia e per i cuore. Che servono ai sospiri e alle lacrime, a placare le coscienze e a confermarci la nostra precaria umanità contemplativa.

3 commenti »

3 Commenti a “I bambini ci guardano, ma soprattutto noi guardiamo loro”

  1. infatti

    citazione

    “la seconda guerra civile americana”

    il governatore dello stato (non mi ricordo quale) vuole espellere i messicani dallo stato stesso, ma ha una relazione con una reporter messicana di seconda generazione, figlia di immigrati irregolari. e nella scena in cui resta da solo e esprime la sua visione dice: io non li voglio qui, sono troppi, ma un bambino, un bambino solo, perché no?

    da glk   - martedì, 9 febbraio 2016 alle 12:51

  2. Glk,
    perfetto

    da Alessandro   - martedì, 9 febbraio 2016 alle 12:53

  3. Caro Robecchi, il limite che descrivi è un limite biologico umano (ha anche un nome tecnico che ora mi sfugge, prometto di documentarmi). In pratica, il cervello umano è fisicamente incapace di provare empatia per più di circa 300 individui, un limite derivato dalla nostra lunga permanenza nello stato di cacciatori-raccoglitori, in cui i singoli gruppi sociali difficilmente superavano il centinaio di individui, e chiunque ne era fuori era un competitore.
    Jared Diamond in “Armi, acciaio e malattie” afferma che in fondo l’uomo ha creato la politica per cercare stratagemmi volti ad aggirare questo limite. Uno di questi stratagemmi è la creazione di individui-simbolo, l’uno che rappresenta i molti. Si pensi al sacrificio di Gesù Cristo, vero o presunto che sia, per avere un’idea di quanto potente possa essere un simbolo.
    Quindi l’elevare a simbolo la sofferenza di un bambino per creare un’empatia collettiva altrimenti impossibile, non è di per sé un fatto negativo, ovviamente è cinico ed ipocrita sviare questa reazione umana verso fini altri.

    da r1348   - mercoledì, 10 febbraio 2016 alle 00:57

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