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14 rapine magistralmente raccontate dai maestri del noir, selezionate, raccolte e pubblicate su GQ

Nel novembre 2006 proposi a GQ una pagina che riprendesse una scena di rapina. Dai classici del giallo agli autori più disparati. Trenta-quaranta righe in cui spiegare un momento drammatico e "cinematografico" come  la rapina. La rubrica, con una certa precisione, si intitolava "Rapine". Per quattordici mesi ho cercato buone rapine raccontate in poche righe. Ora la rubrica è cambiata (vedrete quella nuova su GQ gennaioo) e sono rimaste queste 14 pagine di letteratura rapinosa, che vi regalo per le vostre letture delle vacanze.
a.r.

Rapine.
(genere letterario a mano armata)

1 – Nelson Algreen – L’uomo dal braccio d’oro (1949) – Il Saggiatore (pubblicato in GQ novembre 2006)

Così entrò ciabattando, berretto calato sugli occhi, nel reparto centrale – Scarpe e Calze Fantasia per Signora – fino alla gabbia del montacarichi, dove il decrepito detective della ditta sonnecchiava tra ricordi di remote doppie partite in una sola giornata a opera delle stesse squadre. Il Passero gli piantò la sua matita a torcia elettrica nella schiena, gli strappò di mano il pistolone arrugginito, spinse il vecchio nel montacarichi e ringhiò, esattamente come Edward G. Robinson: “Giù in cantina con gli altri topi, poliziotto!”.
Gli occhiali gli si erano appannati, ma sentì lo sportello del montacarichi chiudersi con uno schianto e i cavi gemere mentre calavano la gabbia verso la cantina e la dozzina di avventori intorno cominciarono a girarsi lentamente verso di lui cone le persone di un film al rallentatore. In quell’istante egli si vide con gli occhi di tutti loro: caricatura di cowboy con gli occhiali cerchiati d’osso e in mano un’enorme pistola scacciacani. E udì la sua propria voce acuta perdersi per interminabili passaggi tra reparti di articoli di nylon sotto il fruscio dei ventilatori rotanti sulle teste.
“Faccia al muro, tutti!”
Li vide voltarsi, due o tre per volta, compreso il vecchio Gold, che aveva sotto il braccio una tavola di lamiera per il bucato, e vide la faccia della cassiera, più bianca di una mela spaccata in contrasto con la sbarra scura delle sopracciglia, proprio mentre cadeva innanzi e lui urlava:
“Lasciatela stare, è solo svenuta!”
Sporgendosi sopra il banco il Passero fece scattare il cassetto del registro di cassa e vide tutti i biglietti di banca che vi erano stati ammonticchiati in bell’ordine per lui. Biglietti da dieci, da venti dollari, biglietti da un dollaro e da cinque dollari duri e fruscianti sulla sua palma bagnata da un gelido sudore; e gli scintillanti spiccioli d’argento dei dieci e venticinque cents nello scomparto più lontano! Si sporse in avanti talmente che traballò, il liquore gli ritornò su in gola e le labbra gli si torsero di nausea, o d’ingordigia; sentì che una moneta da venticinque cents rotolava via tintinnando sul pavimento in direzione delle Calzature Fantasia e la inseguì ansiosamente, mentre una dozzina d’occhi facevano altrettanto, fino a una larga serie di grucce a cui erano appesi soprabiti di mezza stagione. Il Passero intascò il quarto di dollaro, tolse dalla gruccia il soprabito più sgargiante e se lo stava faticosamente infilando, quando il naso del vecchio Gold apparve sul banco dei cosmetici fra due vasetti di cold cream: la tavola metallica per il bucati scintillò per un istante tremolante nella sua mano e l’impeto del lancio lo buttò a mezzo attraverso il banco, mentre i vasetti di cold cream e tutta una fila di scatolette azzurre di Ketex andavano a finire sul pavimento; e l’asse metallica colpì il passero netto dietro l’orecchio sinistro.
Andò giù di colpo come se fosse stato pistolettato, e lo scacciacani corse via saltellando per quelle interminabili corsie dei reparti articoli di nylon.
Metà della folla cominciò a spingere da una parte l’altra metà per il privilegio di essere i primi a sedersi sul corpo del gangster, mentre altri s’affaccendavano a legarlo con funicelle per il bucato e un paio di teste più fredde e raziocinanti coglievano l’occasione per mettersi in tasca tutti quegli articoli minuti che si trovassero a portata di mano. Nella fretta di legare il Passero i volenterosi finirono per legare anche il vecchio Gold col ladruncolo; il Passero tirò indietro la testa tutto stordito, barbugliando una protesta, ma qualcuno lo riaddormentò all’istante con un altro colpo della stessa asse per il bucato. Quando arrivò la polizia il vecchio Gold stava ancora cercando di liberarsi.


2 – Tratto da Come una bestia feroce (1973) di Edward Bunker – edito in Italia da Mondatori (pubblicato in GQ dicembre 2006)

Una volta trovata la banca giusta l’organizzazione della rapina fu veloce. Visitammo l’obiettivo per tre giorni di fila e tirammo a sorte per stabilire i ruoli. A me fu assegnato l’M16, Jerry avrebbe dovuto superare la barriera. Aaron avrebbe sorvegliato l’ingresso secondario e avrebbe guidato. Il pomeriggio seguente, all’una e cinquantacinque, colpimmo, usando come maschere tre federe di cuscini a cui avevamo praticato dei fori per gli occhi. Metà degli impiegati erano in pausa pranzo e metà di quelli che erano rimasti all’interno non si resero conto che si stesse svolgendo una rapina fino a che non fu praticamente finita, l’istante in cui Jerry tornò a superare con un balzo la barriera con un sacco sulle spalle e qualcuno cominciò a gridare. Jerry puntò la pistola contro l’uomo e il grido si spense all’istante. Eravamo rimasti all’interno della banca per due minuti e quarantuno secondi.
Alle due e quarantacinque eravamo accovacciati per terra nell’appartamento sulla collina, intenti a contare e a dividere il bottino prima del ritorno di Allison. Il pavimento era cosparso di mucchi di banconote e fascette della banca. Erano trentaduemila dollari, diecimila in più di quanto mi fossi aspettato. Ci sentivamo in trionfo, finalmente liberi da un peso.
– Avremmo potuto arraffare di più se avessimo tolto l’allarme – disse Jerry con il tono di chi dava voce a una constatazione di fatto più che a una lamentela.
– Lo faremo la prossima volta – replicai nascondendo la mia parte in una scatola di scarpe. Era un nascondiglio come un altro.
– Potrebbero anche bastarmi – disse Aaron.
– Fottimadre – esclamò Jerry stringendo il collo di Aaron in una scherzosa mossa di lotta. Non puoi mollare adesso. Ti fai un paio di dollari e saluti a centrocampo, eh? E’ la cosa più facile del mondo, questa: sono soldi caduti dal cielo.
– Ne parleremo domani – intervenni. – Non siamo alle strette. Possiamo decidere con calma. Ricordatevi che in mezzo ci saranno banconote contrassegnate, dunque non spendete grosse cifre in un colpo solo. Cercate sempre di cambiare.
– Amico, le so queste cose – ribatté Jerry.
– Mi preoccupo per te, coglione.
– E io ti amo, cazzone di un fottimadre.
Eravamo molto felici.

3 – Allan Ghutrie, La Spaccatura (2004), Einaudi Stile Libero, (pubblicato in GQ gennaio 2007)

La donna sul pavimento cacciò un urlo.
Eddie mosse il braccio di scatto – Zitta, – strillò agitandole contro la pistola.
– Le hai sparato a una gamba, – disse Rovi.. – Non lo fa apposta.
– Non ho chiesto il tuo parere. Falla stare zitta e basta.
Dal gruppetto nell’angolo giunse un altro grido.
– Chiudete quella cazzo di bocca.
– Come dovrei farla star zitta?
– Non ti sento.
Altre urla dall’angolo della stanza, che si susseguirono come latrati di cani. Robin si avvicinò a Eddie e gli gridò qualcosa nell’orecchio. Eddie annuì, puntò l’arma contro la parete e sparò facendovi un buco.
Silenzio
Un pezzo d’intonaco, rimasto attaccato al muro solo tramite una sottile striscia di carta da parati, ciondolò da una parte all’altra. Robin osservò come la striscia di carta si strappò e il pezzo d’intonaco si staccò atterrando sulla spalla di una donna accovacciata lì sotto. Questa urlò e balzò subito in piedi, pulendosi il cappotto dalla polvere e dal gesso.
Eddie fece alcuni passi verso di lei.
– Mi scusi, – fece la donna e tornò a accucciarsi. – Mi scusi, mi scusi, – ripeté incrociando le braccia sul capo chino.
Eddie la fissò con insistenza. Poi disse: – Ancora una parola e ti ficco una pallottola in un occhio, chiaro? – Si guardò attorno. – E questo vale per tutti -.
Strascicando i talloni sul pavimento andò dalla donna stesa accanto allo sportello. – Anche per te -. Si mise in piedi a cavallo della donna ferita e disse: – Non me ne frega niente se la gamba ti fa male.
La porta del divisorio si aprì e Hilda disse: – Mi dia la borsa.
Robin si fece largo e consegnò la borsa sportiva alla cassiera. – Fai in fretta, – le disse – E… Hilda? Solo soldi veri, mi raccomando. Niente scherzi con l’inchiostro, intesi?

4 – Tratto da Hot Kid (2005) di Elmore Leonard – edito in Italia da Einaudi Stile Libero (pubblicato in GQ febbraio 2007)

Hai fatto suonare l’allarme?
Si fermò a tre metri dall’uomo che già scuoteva il capo, che giurava di no, non l’aveva neanche sfiorato.
Heidi voleva solo scappare, strappò la borsa dalle mani della bionda che ancora la stava riempiendo di banconote,e  si avviò alla porta gridando: – Jack, l’ha fatto, l’ho visto infilare la mano sotto la scrivania -. Spaventata a morte, Heidi, mentre Jack puntava la calibro 38 contro il funzionario che ancora giurava su Dio di non aver toccato il pulsante.
–    Sei proprio sicuro? – disse Jack.
Se la prendeva comoda per mettersi in mostra. Heidi stava per perdere la testa, ripetè: – Jack, io me ne vado, – e lo vide girarsi e andare verso di lei, a passo lento, fermandosi a dire qualcosa al vecchietto disteso sul pavimento e finalmente, finalmente, si ritrovarono fuori dalla banca.
Adesso Jack stava aumentando l’andatura, le sorrideva, diceva: – Visto che non c’era da preoccuparsi? Che possono fare? Ce l’abbiamo noi, la pistola.
A queste parole Heidi si ricordò della Colt della guardia, la grossa pistola da cow-boy rimasta sul bancone.
       – Cos’è che gli hai detto?
       – Al direttore?
       – Al vecchietto.
Gli ho detto: – Paparino, dovresti trovarti un altro lavoro.
       – Lo sai cos’hai fatto? – disse Heidi – Ti sei dimenticato la sua pistola, là dentro, accanto allo sportello.
Jack si fermò e si voltò a guardare prima la banca, poi Heidi. Infine ripresero la marcia. – Pensavo che l’avevi presa tu -. Stavano passando davanti all’emporio Kroger. – Io ero impegnato col direttore.
       – A fargli vedere il tuo sangue freddo di cliente.
       – Stai dicendo che è colpa mia?
       – L’hai tolta tu a quel vecchietto, o sbaglio?
       – E quando tu hai ripreso la borsetta, la pistola era lì vicino.
       – Non è mai colpa tua, vero?
Jack si fermò ancora una volta per guardarsi intorno, aguzzò lo sguardo per essere sicuro e disse: – Cristo santo.


5 – Tratto da Freddo a luglio (1989), di Joe R. Lansdale edito in Italia da Fanucci (pubblicato in GQ marzo 2007)

Per un istante rimanemmo entrambi impietriti, poi la torcia oscillò mentre lui portava la mano libera alla cintura. D’istinto capii che stava cercando una pistola. Eppure non riuscii a muovermi. Sembrava quasi che mi avessero pompato del cemento a presa rapida nelle vene e nei pori.
L’uomo estrasse la pistola dalla cintura e fece fuoco. La pallottola mi sfiorò la testa andando a conficcarsi nella parete alle mie spalle. Senza starci realmente a pensare, puntai la .38 e premetti il grilletto.
La testa dell’uomo scattò all’indietro, poi rimbalzò in avanti. Il berretto di lana s’inclinò da un lato, senza sfilarsi dal capo. Poi il ladro si andò ad accomodare sul divano con un goffo passo all’indietro, come se fosse molto stanco. La rivoltella cadde sul pavimento, l’altra mano si lasciò sfuggire la torcia.
Non volevo distogliere lo sguardo da quell’uomo, eppure, quasi ipnotizzato, seguii la traiettoria della torcia, che rotolò sul piancito verso di me, si fermò, arretrò di un giro, e infine rimase immobile, con il suo raggio che mi si spandeva ai piedi, come una pozzanghera di miele liquido.
M’accorsi che mi fischiavano le orecchie per il fragore della sparatoria, e che non era più imbragato nel cemento. Ero tutto scosso da un tremito, con la pistola ancora puntata contro il ladro, il quale sembrava intenzionato a restarsene in panciolle sul divano.
Presi fiato con un lungo respiro e mi feci avanti.
“E’ morto?”
Spiccai un balzo di quasi mezzo metro, Era Ann, che m’era scivolata alle spalle in silenzio.
“Non lo so, maledizione. Accendi la luce.”
“Tu stai bene?”
“A parte che mi sono cagato addosso, sto benone. Accendi la luce.”
Ann premette l’interruttore. Avanzai con la pistola spianata, quasi mi aspettassi che il ladro potesse scattare in piedi da un momento all’altro per aggredirmi.
Non si mosse. Si limitò a starsene seduto, con un’aria molto serena e molto viva.
Tranne che per l’occhio destro, che rovinava l’effetto realistico. Non c’era più. Al suo posto spiccava un buco nero e umido, dai cui bordi traboccava del sangue che scendeva in rivoli lungo le guance, come un fiume di lacrime scarlatte.
Mi sorpresi a fissare intento l’occhio sano, che era ancora vivido, ma si stava pian piano opacizzando. Pareva morbido e bruno come quello di un daino.


6 – Tratto da Robbers (2000) di Christopher Cook edito in Italia da Einaudi stile libero (pubblicato in GQ aprile 2007)

Cazzo hai fatto? Chiese Ray Bob. Hai sparato a qualcuno?
Quel succhiacazzi non voleva saperne di darmi le sigarette.
Dici sul serio?
E’ perché mi mancava un centesimo.
Ray Bob mollò un grugnito. Mai rompere il cazzo a uno che vuole fumare.
La miseria, amico, disse Eddie, Credevo che li ammaestrassero bene quei cammellieri. Ma ci puoi credere?
Ci credo. Dove sono i quattrini?
Glieli ho messi sul bancone.
Non dico quelli, coglione. Ray Bob che tambureggia con le mani sul volante. Quelli in cassa.
Sono rimasti nella cassa, che ti credi? Eddie si batté il pacchetto su di un polso, strappò il cellophane coi denti. Gli tremavano le mani. Sono andato a prendere le sigarette, disse, e le ho prese.
E sono pure senza filtro, che cazzo. Ray Bob scosse il capo. Amico, ti avevo detto col filtro. Merda, mi tocca far tutto da solo. Spalancò la portiera, con la Caddy ancora in moto, ed entrò di corsa nel negozio, borbottando. Riapparve un minuto più tardi, con un sacchetto di plastica stracolmo di biglietti da uno, rotoli di monete e manciate di spiccioli, più una stecca di Marlboro infilata sotto l’ascella. Si piazzò dietro al volante che ancora contava i soldi.
Eddie soffiò via un sottile filo di fumo, fece scattare il coperchio dello zippo e lo richiuse. Non credi che dovremmo filarcela?
Solo un istante.
Contala più tardi, quella roba, tanto non scappa.
Ma neanche quell’arabo là dentro. E’ morto.
Vorrei vedere. Gliene ho ficcata una dritta in testa.
Ray Bob grugnì. Di sicuro è bastato. Infilò il sacchetto sotto il sedile, inserì la retromarcia e frenò di colpo. Scrutò la vetrina del negozio, da dietro il parabrezza. Maledetta la miseria, mi sono scordato la birra.

7 – Tratto da  Robert Crais, Countdown (2006), edito in Italia da Mondatori (pubblicato in GQ maggio 2007)

Marchenko e Parsons girarono nei dintorni della banca per sedici minuti, sniffando Krylon Royal Blue Metallic per smorzare l’effetto dello speed, cercando di farsi coraggio. Marchenko era convinto che quella vernice desse loro una marcia in più, li rendesse feroci e spaventosi, perché il Royal Blue era un colore da guerrieri; a Parsons invece piaceva quella specie di alienazione che gli faceva vedere il mondo come attraverso un vetro.
Quando, all’improvviso, Marchenko mollò una manata sul cruscotto, la faccia larga da ucraino paonazza e spiritata, Parsone capì che era arrivato il momento.
“E facciamolo, cazzo!” urlò Marchenko.
Parsons tirò la leva dell’otturatore del suo fucile d’assalto M4 mentre Marchenko sterzava bruscamente e si infilava nel parcheggio con la  Corolla rubata. Parsons tolse la sicura, attento a non mettere il dito vicino al grilletto. Era importante non sparare finché Marchenko non avesse dato l’ordine; il capo era lui, e a Parsons andava benissimo così. Grazie a Marchenko erano diventati milionari.
Alle quindici e sette minuti si fermarono vicino alla porta della banca. Si calarono i passamontagna neri sul viso come avevano fatto altre dodici volte prima di allora e, in uno slancio di cameratismo, si scambiarono un gesto di incoraggiamento con le mani chiuse a pugno, urlando all’unisono: “E facciamolo, cazzo!”.
Poi si lanciarono fuori dall’auto. Indossavano tute da combattimento nere, scarponi e guanti; le tasche agganciate sopra i giubbotti antiproiettile acquistati su eBay erano così piene di caricatori che i loro corpi già imponenti apparivano come dilatati. Sembravano due orsi bruni. Portavano ciascuno una grossa sacca di nylon per metterci i soldi.
In pieno giorno, visibili come due mosche in una tazza di latte, fecero il loro ingresso in banca, muovendosi come due lottatori di wrestling che salgono sul ring.

8 – Tratto dal racconto Bravi ragazzi Bang Bang, di Giorgio Scerbanenco. Pubblicato nella raccolta Milano Calibro 9 (1969), edito da Garzanti (pubblicato in GQ giugno 2007)

“Super?” domandò il distributore? Una Giulietta così voleva solo super.
Due agenti, da dietro il chiosco, seguivano la scena. A venti metri, mimetizzata dietro un camion, c’era un’Alfa della Questura, senza lampeggiante, e quattro poliziotti in borghese, armati, occhieggiavano. Il commissario Fulvio avrebbe voluto aver fiducia nei bravi ragazzi, ma aveva avuto tante amare esperienze.
“Super?” ripeté il giovanotto in tuta bianca, così, formalmente, staccando la pompa dalla colonnina della super. “Faccia spegnere il motore”.
Fiorello guardò avido nell’interno del chiosco il vecchio che stava frugando nella grossa borsa nera. Non c’era un passante, solo macchine,non esistono più passanti. Levò dalla tasca dei calzoni la rivoltella, la rivoltella da cow-boy: “Buttati a terra”.
Quello si buttò per terra, ubbidiente, sapeva che era difeso da una mezza dozzina di agenti, gli avevano detto che forse quei ragazzi erano armati soltanto di rivoltelle da bambini, che non facevano neppure clic, ma gli avevano detto anche di essere prudente perché non si sa mai.
“Dai la borsa”, con la rivoltella di Tom Dooley di cartapesta, Fiorello andò dentro il chiosco e afferrò la borsa del vecchio.
Il poliziotto lo prese per il braccio. “Smettila, buffone, siamo della polizia, stai tranquillo che ti conviene”.
Allora Fiorello capì, e prima di capire era ancora un uomo civile, forse sbagliato, diseducato, ma civile. Appena ebbe capito, però, sprofondò nella preistoria, divenne l’uomo di Neanderthal inseguito dal tirannosauro alto come due piani di case: ciecamente colpì il poliziotto con una ginocchiata ed ebbe la sfortuna di prenderlo in pieno, lacerandogli il peritoneo, e il giovane agente travestito da vecchio si afflosciò e morì in tre minuti per emorragia interna.


9 – Tratto da Hollywood Station (2006), di Joseph Wambaugh, edito in Italia da Einaudi nella collana Stile Libero Big (pubblicato in GQ luglio 2007)

Lui riprese a piangere, e sentì l’urina bagnargli l’inguine. L’uomo gli puntò in viso una Raven calibro 25. Ma guarda che razza di pistola da due soldi usa questo per ammazzarmi, persò Sammy.
   Poi pianse ancora più forte quando la biondina aprì la scatola di cartone e ne estrasse gli espositori che contenevano oltre 180.000 dollari (prezzo all’ingrosso) in diamanti non montati, anelli e orecchini. – Ecco! – disse lei.
   Allora l’uomo strappò un pezzo di nastro isolante e lo applicò alla bocca di Sammy.
   Come facevano a saperlo?, pensò Sammy, preparandosi a morire. Chi era a conoscenza dei diamanti?
   Si piazzarono accanto alla porta d’ingresso e l’uomo si tolse di tasca un oggetto pesante. Quando Sammy lo vide, scoppiò a urlare, ma il nastro isolante gli impedì di farsi sentire. Era una bomba a mano.
La donna tornò indietro a porgere all’uomo il rotolo di nastro isolante, e d’un tratto Sammy vide che i due indossavano guanti di lattice. Non capiva come aveva fatto a non accorgersene prima, poi entrò in confusione totale, perché l’uomo, reggendo la bomba per la spoletta, gliela sistemò tra le ginocchia, mentre la donna gli legava ancor più i polsi col nastro. La spoletta gli affondava nelle cosce, poco sopra le ginocchia, e Sammy si mise a fissarla.
   A cose fatte la donna gli disse: – Meglio che tu hai gambe forti. Se rilassi troppo tue gambe, spoletta cede. E tu morirai.
   Ciò detto, l’uomo tenne ferme le gambe di Sammy e tolse la linguetta, facendola cadere sul pavimento.
   Sammy prese a ululare, e i suoi gemiti erano ben udibili anche dietro la barriera del nastro isolante.
   – Chiudi il becco, – ordinò l’uomo. – Stringi ginocchia o sarai uomo morto. Se spoletta vola via tu sei un uomo morto.
   – Noi chiamiamo polizia in dieci minuti, – disse la donna, – e loro verranno aiutare te. Tieni strette ginocchia, tesoro. Mia madre sempre detto me, ma io mai ascoltato.

10 – Tratto da Trilogia della città di M.(2004), di Piero Colaprico. Marco Troppa Editore (pubblicato in GQ agosto 2007)

Quello che sembrava il capo, un truzzo con l’aria del terrone, mostrava le macerie che aveva in bocca. “I soldi, dacci i soldi”, sibilò, trascinando un accento da Califoggia meridionale: poteva essere della zona di Corato, o di Andria, al massimo di Bisceglie.
Tris cercò in tasca la cicca appuntita come uno stocco, ma si ricordò di averla già usata. Sorrise al pensiero che Milano gli stava restituendo i giorni movimentati della sua giovinezza.
   “Sei scemo, che ti ridi? Hai vinto una rapina, babbione”
   “Ricevuto. Ma come li venite a prendere i soldi? A mani nude?”
Questa risposta serafica, quasi allegra – dati il posto deserto, l’ora tarda e la situazione – suonò sinistra.
   “Scemo, svuota le tasche o ti mandiamo alla Baggina. Ma in posizione orizzontale”.
Tris preferì non alzare polveroni. Prendessero pure quel niente che si portava dietro, poveri fessi.
   “Ne ho pochi, ma li divido volentieri con i fratelli bisognosi. Perché siete bisognosi, voialtri, no?”
I tre si guardarono interdetti. Il capo estrasse con circospezione il coltello; gli altri due, sotto la macchina, presero due spranghe quadrate.
Lì dov’era, non poteva scappare. E poi, alla sua età… Da una parte c’era la cancellata, dall’altra i tre. In fondo, su Corso di Porta Ticinese, i passanti non sembravano molto interessati a quell’angolo in ombra. Fingendo un timore che non provava, Tris prese il portafoglio e lo lanciò al capo. C’erano tre banconote da dieci e una da cinquanta.
   “Tutto qui?”
   “Se vuoi un paio di milioni, ce li ho sotto il mio cuscino di seta”

11 – Tratto da Karen e Carl, di Elmore Leonard, dalla raccolta di racconti Quando le donne aprono le danze (2003), edito in Italia da Einaudi (pubblicato in GQ settembre 2007)

Geraldine Regal, la prima cassiera della Sun Federal su Kendall Drive, vide un uomo coi capelli impomatati tirati all’indietro e gli occhiali da sole frugare nella tasca interna della giacca mentre si avvicinava allo sportello. Erano le nove e quaranta di martedì mattina. All’inizio pensò a un ispanico. Niente male, se non fosse stato per quei capelli che da vicino sembravano passati con la gommalacca, quasi metallizzati. Voleva chiedergli se facevano male. Lui prese dalla giacca alcuni documenti, distinte di versameno e un assegno in bianco e le disse: – Facciamo quattromila -. Iniziò a compilare l’assegno e disse: – La sa quella della trapezista e del marito che chiede il divorzio?
   Geraldine disse di no, sorridendo, perché era un po’ curioso, un cliente mai visto prima che si mette a scherzare e ti racconta una barzelletta.
–    I due sono in tribunale. L’avvocato del marito le chiede: “E’ vero che lunedì 5 marzo, mentre era appesa al trapezio a testa in giù, senza rete di protezione, ha fatto sesso con il proprietario del circo, il domatore di leoni, due pagliacci e un nano?”
   Geraldine aspettava. L’uomo fece una pausa, la testa china mentre finiva di compilare l’assegno. Poi alzò lo sguardo.
–    La trapezista ci pensa su un minuto e poi gli fa: “Scusi, che giorno ha detto?”
   Geraldine rise mentre lui le passava l’assegno, sorrise quando si accorse che sull’assegno in bianco c’era scrito in stampatello, a chiare lettere:
QUESTO NON E’ UNO SCHERZO
E’ UNA RAPINA!
VOGLIO SUBITO 4000 DOLLARI
Il sorriso di Geraldine si spense. L’uomo dai capelli metallizzati le stava dicendo che li voleva in pezzi da cento, cinquanta e venti, sciolti, niente fascette della banca o elastici, niente soldi esca, niente pacchi coloranti, né banconote prese dal fondo della cassa, e voleva indietro il suo biglietto. Subito.


12 – Tratto da La giostra dei criceti (2007) di Antonio Manzini, Einaudi stile libero (pubblicato in GQ ottobre 2007)

Un minuto, mancava solo un minuto.
   Una signora grassa andò a gettare la spazzatura nei cassonetti di fronte. Lo guardò. E per un attimo René ebbe paura che quella volesse entrare in banca. Avrebbe dovuto seguirla dentro, buttarla per terra, stordirla, neutralizzarla. E non era il suo pane. Quella era roba di Franco e Cinese. Per fortuna la donna tirò dritto verso il mercato e René tirò un sospiro.
   Trenta secondi
   Eccola!
   Puntuale all’angolo apparve il muro della Bmw metallizzata. Accelerò con un ruggito che solo una macchina tedesca sa esplodere. René staccò la schiena dal lampione e si affacciò alla vetrata della banca. Bussò. Non riusciva a vedere dentro, ma di sicuro Franco e Cinese l’avevano sentito. Alle sue spalle gli pneumatici di Cencio si spalmarono sull’asfalto. Lo stridio della frenata durò tre secondi, e si concluse con un orrendo cozzo di lamiere. René si girò verso la strada. Il muso della Bmw era cosparso di sacchetti della spezzatura e mezzo cofano si era incastrato nel raccoglitore di bottiglie di vetro e lattine. Contemporaneamente la porta a vetri della banca si aprì e vomitò fuori Franco e  Cinese, mitragliette in pugno e occhiali da sole, mentre l’allarme antincendio s’era messo a urlare alle loro spalle.
   – Via, via, via! – urlò Franco.
   Cencio facendo retromarcia per liberare l’auto intrappolata si trascinava il bidone che non si voleva staccare. Una ragazza carica di buste come un somaro li osservava e rideva. Cinese e Franco uscirono dalla macchina, tutti e tre cominciarono a spingere il bestione carico di bottiglie e lattine che non ne voleva sapere di staccarsi.
   Il lampeggiante dei carabinieri ululava dall’imboccatura della strada. Stavano arrivando. René fece un rapido calcolo. Anche a partire adesso, li avrebbero presi. Scese dal cofano, buttò la pistola tra i rifiuti e cominciò a correre.

13 – Tratto da Nido vuoto (2007), di Alicia Giménez-Bartlett, Sellerio editore Palermo (pubblicato in GQ novembre 2007)

Prima però dovevo fare una sosta alla toilette. Ci andai. Si presentavano come una fila di cubicoli perfettamente asettici chiusi da porticine basse, sollevate dal pavimento come quelle delle scuderie; semplici barriere a impedire la vista. Appesi la borsa al gancio fissato all’interno della porta e procedetti all’operazione. Un attimo dopo, un rumore mi fece trasalire. Sbarrando gli occhi, vidi una manina spuntare da sopra la porta, procedere a tentoni, afferrare la tracolla della borsa e farla sparire. Un tonfo, due piccoli piedi toccarono terra e partirono di corsa. Ormai, tirati su i jeans, con più o meno dignità mi lanciavo all’inseguimento. Uscii dalla toilette e riuscii a scorgere il ladro. Una bambina con i capelli neri, coda di cavallo al vento, tuta da ginnastica azzurra, filava come un razzo a una cinquantina di metri da me. Anch’io correvo a più non posso, col cuore che scoppiava, ma lei mantenne il vantaggio e, svoltato l’angolo, sparì. Imprecai e continuai a correrle dietro, ma mi accorsi che su quel corridoio si apriva un’uscita secondaria. Inutile continuare l’inseguimento nel parcheggio, non l’avrei più trovata. Non l’avevo nemmeno vista in faccia. A giudicare dalla corporatura non doveva avere più di sette, otto anni, ma nemmeno questo mi avrebbe aiutata a ritrovarla. Tornai sui miei passi e cominciai a far domande a chiunque incontrassi. Avete visto una bambina così e così? Quasi tutti mi rispondevano di no, e i pochi che l’avevano notata riuscivano tutt’al più a dirmi: “Sì, una bambina che correva”, nient’altro. Mi sentivo impotente, stupida, sprovveduta. Quel furto era la cosa più assurda che mi fosse capitata in vita mia, e non potevo certo dire che al mia vita fosse un modello di sensatezza e normalità. Quando, in preda allo sconforto, mi fermai, ormai sul punto di piangere, sentii qualcuno che mi tirava per la giacca. Mi girai e vidi un’altra bambina sui sette otto anni, bionda, con occhi grandi chiari che mi guardava e mi porgeva qualcosa: la mia borsa! Non ci potevo credere. Senza una parola, gliela strappai di mano, la aprii, bastò un istante perché la mia gioia sfumasse. Mancava la pistola!

14 – Tratto da La donna del campione (2007), di Piero Colaprico, Rizzoli editore (pubblicato in GQ dicembre 2007)

Santa era una maniaca delle armi: per lei la rapina bella era la rapina con qualche proiettile contro i vetri, con qualche danno vistoso. Era una sua abitudine, per esempio, spaccare i computer con il manico metallico dell’Ak 47. Cosmo, invece, preferiva un’altra tecnica. Spesso entrava disarmato, con due uomini di appoggio, e prendeva a schiaffi il primo impiegato che si rovava davanti. Schiaffoni rumorosi, a mano larga e a freddo: “E’ una rapina, non fatemi incazzare” gridava e gli spalancavano le casseforti. O, quantomeno, i cassieri collaboravano senza la minima esitazione.
Era il 12 dicembre 1996, un giovedì di traffico, quando lui, Santa e due fratelli, Oronzo e Manulé, erano comparsi nella centralissima banca di piazza Cavour, a due passi dalla Questura. Cosmo aveva occupato l’ingresso per primo, aveva ammaccato il faccione di un impiegato alto, rosso di capelli, che gli stava anche simpatico, perché aveva detto: “Ma non sono io il direttore, è quello là…”.
Santa aveva riempito un sacco con i soldi. Potevano andarsene, invece lei aveva puntato il mitra verso la vetrata al piano rialzato e aperto il fuoco. Avva creato e voluto il panico. Cosmo si era scansato all’ultimo momento, un tringolo di cristallo gli aveva tagliato la manica del giubbotto.
“Sei deficiente, che bisogno c’è?” aveva gridato.
“Fuochi per domani, per festeggiare santa Lucia” aveva risposto la donna, finendo su tutti i giornali e telegiornali d’Italia.
Erano mascherati, parlavano tenendo in bocca una gomma rettangolare, da matita, per contraffarre il timbro vocale, e non erano mai stati riconosciuti. Sino a quel momento. Ma da allora, Cosmo non aveva più voluto lavorare insieme alla “terrorista”, come l’aveva ribattezzata.
Il ritaglio era là: “Sparatoria in banca, litigano Bonnie and Clyde. Una donna tra i componenti del commando che ieri ha assaltato la banca in pieno centro. Come i celebri rapinatori del film Gateway”.

1 commento »

Un Commento a “14 rapine magistralmente raccontate dai maestri del noir, selezionate, raccolte e pubblicate su GQ”

  1. Bello questo. Linko subito, thanks.

    da ubu   - martedì, 8 gennaio 2008 alle 16:40

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