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Merito? Eguaglianza!

Questo piccolo "saggetto" è stato pubblicato su Micromega 8/12 (dicembre 2012). Lo ripropongo qui perché pare che lo tsunami sulla parola "merito", spesso usata a sproposito come artificio retorico, non accenna ad arrestarsi. E’ un po’ lungo, ma ce le farete.

 

Noi dobbiamo tutti lavorare per fare in modo che quando voi tra alcuni anni arriverete
al mercato del lavoro questo sia un paese diverso, che non fa andare avanti
per raccomandazioni e per conoscenze, ma che premia le persone che meritano come voi.
(Emma Marcegaglia, 2010)


Tutta la vostra cultura è costruita così.
Come se il mondo foste voi.
(Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, 1967)

Un fantasma si aggira per l’Italia. E non è Angelino Alfano.
E’ un fantasma che passa di bocca in bocca, che rimbalza dalle cronache ai convegni, che entra ed esce dalle pieghe di ogni discorso, che fa da premessa ad ogni ragionamento, che olia gli ingranaggi di qualsiasi riflessione sul “rinnovamento” italiano.
E’ il fantasma del “merito”.

Se ogni italiano potesse avere un euro per ogni volta che si evoca il merito, avrebbe il merito di diventare ricco senza alcun merito, esattamente come i ricchi ad ogni passo la parola gli sventolano la parola “merito” sotto il naso.
 
Se lo stesso italiano avesse un po’ di memoria storica, peraltro, saprebbe che la fregatura aleggia nell’aria, come ogni volta che una parola fa irruzione sulla scena politica e ne prende il controllo, ripetuta ossessivamente, mai spiegata o argomentata. Un dogma: il merito.
Erano gli anni Novanta quando passò a volo radente, bombardando a tappeto la popolazione, la parola “flessibilità”. Dal ministro Treu (primo governo Prodi) in poi, quella febbre contagiò tutto e tutti, con il risultato di produrre quaranta diversi tipi contrattuali di paraschiavitù a tempo determinato.
Una volta diventato più moderno e flessibile, il paese ne avrebbe guadagnato in efficienza e ricchezza, e si è visto. Dopotutto anche farsi amputare una gamba è un buon sistema per perdere peso.
Quando si cominciò a pronunciare la parola “privatizzazioni” fu chiaro a tutti che i monopoli sarebbero diventati società per azioni pur restando monopoli.
Dunque, se avessimo un po’ di memoria nel nostro bagaglio, guarderemmo al nuovo mantra sul “merito” con almeno un pizzico di perplessità.
E invece: un tripudio.

Si pensa erroneamente che la satira prenda le parole della politica per stravolgerle e ribaltarle in paradosso. Si tende invece a sottovalutare come la politica rubi materiale alla satira e – con una giravolta ancor più paradossale – lo adatti alle sue esigenze e ai suoi disegni. Così, pochi sanno che la parola meritocrazia deriva da un’opera satirica del 1958, The Rise of Meritocracy 1870-2033, autore Michael Young, che smascherava e derideva, con verve e sarcasmo, la balzana idea di una società basata solo sul merito. La meritocrazia risultava così come la campana a morto della democrazia: non più il governo del popolo, ma il governo dei migliori.
Già, migliori a fare cosa? Allacciate le cinture, partiamo.

Se state decollando o atterrando con un aereo, un caro e accorato pensiero andrà, insieme all’ansia di non rovesciare il prosecco, al “merito”. Anche se non ve ne rendete conto, un angolino del vostro cervello sta pensando al pilota, al fatto che è meglio che sia un tipo in gamba e non soltanto, per dire, il fidanzato della figlia dell’amministratore delegato o del capo del personale della compagnia aerea. E’ la stessa cosa che amiamo pensare del chirurgo che ci opera, dell’autista dello scuolabus dei nostri figli, del macchinista del Frecciarossa o del nostro consulente finanziario.
Il merito inteso come capacità di fare quello che si sta facendo, insomma, è un dato che si dà per acquisito, cui la popolazione tiene parecchio, se non altro per autodifesa.

Il discorso si fa più complesso nell’attuale situazione italiana, quando a reclamare merito sono le classi dominanti. Esse non invocano quasi mai il merito per sé (danno per scontato che, abitando in cima alla piramide sociale, il loro merito sia conclamato), ma per tutti gli altri, e segnatamente per quelli che potrebbero eventualmente, un giorno, prendere il loro posto.
Il paradosso del “merito” così come viene oggi sbandierato è assai divertente e istruttivo. Si tratta, sulla carta, di far progredire i migliori. Ma a decidere chi siano i migliori è la struttura gerarchica già in essere, spesso formatasi prima dell’avvento del discorso sul merito. Dunque, anziché l’apertura di una prospettiva, il merito diventa una corsa a ostacoli, con siepi, muri e barriere ben piazzati per scremare, selezionare, arrestare la corsa dei presunti “meritevoli” di cui si valuta il merito.

Ricordava Bruno Trentin buonanima, in un suo lucidissimo articolo (L’Unità, 13 luglio 2006) che stabilire i criteri del merito è già un discorso sul merito. Faceva notare, il vecchio sindacalista, la funzione antisindacale degli assegni di merito nella struttura retributiva del mondo operaio. Un premio per i puntuali, per chi non sciopera, per chi non pianta grane, per chi non si mette in malattia nemmeno con la febbre, per chi accetta senza fiatare l’aumento dei tempi. Merita di più non chi “sa fare”, ma chi ubbidisce.

Ma questo era il vecchio Taylorismo, signori!
Entriamo invece ora in qualunque ufficio dell’Italia moderna, in quel terziario avanzato che arretra, nell’antica modernità dei contrattini a scadenza, dove migliaia di giovani laureati, colti, sapienti, maneggiano fotocopiatrici dando prova della loro perfetta conoscenza della lingua inglese (on, off, print).
Il merito potrà essere così valutato: disponibilità a lavorare oltre l’orario, disponibilità a restare a casa qualche settimana o mese tra un contratto e l’altro, svolgimento di mansioni da lavoratore dipendente anche senza le garanzie previste e, non di rado, disponibilità a sostituire con forte riduzione di diritti e salario i lavoratori espulsi.
Non c’è dubbio che, per l’azienda, siano gran meriti e che il refrain “premiare il merito” abbia qui una sua diretta e incontestabile validità.
Il “premio” al merito (naturalmente al merito così come lo intende l’azienda) non è più, come nelle vecchie fabbriche di cui parlava Trentin, un’aggiunta paternalistica a un diritto-base, ma la conferma stessa di quel diritto: il rinnovo del contrattino.
 
Del resto, parlare di merito in Italia appare un’operazione piuttosto complessa. Basta prendere l’elenco dei partecipanti ai convegni, simposi, assemblee e congressi dei giovani imprenditori italiani. La parola “merito” affolla i loro discorsi, spesso pronunciata con toni tribunizi, accenti da Savonarola, ultimatum. Premiare il merito! Riconoscere il merito! Valutare il merito! Il paese è fermo perché non si tiene nella dovuta considerazione il merito!
Poi, a scorrere i cognomi degli indignati domandatori di merito, si scopre che nove volte su dieci il merito della loro invidiabile condizione sociale è attribuibile alla rendita di posizione, all’eredità del babbo o del nonno che hanno fondato l’azienda, ai soldi di famiglia con cui hanno fondato la startup. Insomma ai meriti – o alle posizioni di privilegio – di altri.

Un paese ereditario, dove il 40 per cento degli architetti ha il padre architetto, dove le farmacie si tramandano di padre in figlio come nelle corporazioni del medioevo, dove fare il notaio è missione impossibile per chi non discenda da lombi di notaio – abbiamo notai dop, come vini e formaggi – si sta accapigliando per imporre la parola merito.
Un chiaro caso di intossicazione di massa: qualcuno ha sciolto dell’acido negli acquedotti e tutti sono ubriachi di meritocrazia.

Del resto, gli esempi storici di merito italiano sono essi stessi paradossi micidiali. Parlare di merito nel paese di Francesco Cossiga, per dire, è come parlare di felicità matrimoniale in casa di Barbablù. Un ministro dell’interno che assiste al rapimento del capo del suo partito, che lo ritrova cadavere due mesi dopo, che guida le indagini con l’arguzia di un ispettore Clouseau contro non certo irresistibili geni del male, anziché essere pietosamente pensionato senza lodi, ed anzi cacciato con ignominia, viene premiato con la prima carica dello Stato, servito, riverito e ascoltato pure nei non rari momenti di follia.
Si fosse seguito il ferreo criterio del metodo, certo, non sarebbe successo, e non è che uno dei più mirabolanti paradossi italiani, cose vecchie e polverose.
Sui meriti attuali, invece, si tende a sorvolare. Sui due lavori (non precari) della figlia della ministra Fornero (nella stessa università dove insegnano mamma e papà, peraltro), per dire, si è polemizzato non poco. Sulla liquidazione milionaria (3,6 milioni di euro) dopo un anno di lavoro del figlio della ministra Cancellieri (presso Fondiaria-Sai di Salvatore Ligresti) si è letto molto meno, nonostante la ministra abbia tuonato a suo tempo che i giovani d’oggi vogliono la pappa fatta e che “pretendono di lavorare vicini a papà e mamma” (ancora!).
Sulle prebende dei vari rampolli blasonati, sui fortunati eredi di rendite accumulate dalle precedenti generazioni, si argomenta ogni giorno, ma senza apparenti vie d’uscita.
Tutti giovani di merito, s’intende, e tutti con il merito di avere lussuose corsie preferenziali.

Ecco: non è vero che l’ascensore sociale è fermo, semplicemente è completo, occupato dalla nomenklatura, e la gente normale usa le scale, faticosamente e sbuffando. Mentre arranca, gradino dopo gradino, poi, si sente gridare da chi sta salendo in ascensore: merito! Coraggio! Ci vuole merito!
Non risulta dalle mie pur capillari ricerche, un figlio di ministro o sottosegretario, o grande manager pubblico o privato, o maggiorente di ogni tipo, che frigga le patatine da McDonald o consegni pizze a domicilio. Sono pronto a fare penitenza se mi si dimostrasse il contrario, anzi, in quel caso ne prenderei due, con le acciughe.

Naturalmente il discorso del merito non è tutto qui. Anzi, quello descritto è solo un effetto collaterale. E’ proprio perché la classe dirigente italiana ha poco o nulla a vedere con il merito che il discorso sul merito attecchisce rigoglioso.
Ed eccoci al secondo paradosso sul merito. La popolazione che non raggiunge i piani alti invoca il merito, il concorso non truccato, la posizione guadagnata per capacità e non per appartenenza castale, il duro lavoro anziché la strada spianata. Ne ha abbastanza dei privilegi, delle carriere già disegnate, delle corsie preferenziali. E dunque, ipnotizzata da una prospettiva di giustizia sociale basata sulla competizione, invoca il merito non sapendo o fingendo di non sapere che il suo merito verrà valutato proprio da chi sta in alto.
Lo schiavo costruttore di piramidi si indigna perché, portando due pietre, ha lo stesso trattamento dello schiavo che ne porta una. E chiede al guardiano armato di frusta di intervenire per senso di giustizia. Naturalmente, i concorsi pubblici per guardiano armato di frusta sono bloccati.

Ed è sulla valutazione del merito – di più, sulla gentile concessione di una valutazione del merito – che s’avanza il terzo enorme paradosso del merito, il più clamoroso, il più evidente e il meno esplorato.

Prendete una gara olimpica, per esempio i cento metri piani. Mettete sulla linea di partenza Usain Bolt, il grintoso velocista giamaicano, e un giovane di pari età con una gamba ingessata e uno zaino di cento chili sulla schiena. Ecco: all’arrivo applaudite il vincitore e riconoscetegli il merito della vittoria.
Fatto? Perfetto: eccovi servita la squisita specificità italiana del discorso sul merito.

Perché con la stessa festante sicumera con cui si invoca il merito, si respinge, al contempo, qualunque possibile riferimento a una parola antica e desueta, poco moderna e impolverata, nostalgica e ideologica: uguaglianza.

Mio figlio, nato in una casa in cui si legge, si discute, si usa un decente italiano senza sterminare i congiuntivi, si vedono telegiornali, si viaggia nelle capitali europee, si visitano musei, si gioca, si fa normale uso di tecnologia, gareggia nello stesso campionato del suo compagno di classe, un giovane rom Sinti. Quello viene da una roulotte gelida d’inverno e rovente d’estate, magari periodicamente abbattuta dalle ruspe delle guardie comunali, frequenta la scuola un giorno su tre e ha la stessa confidenza con la lingua che ho io con la fisica quantistica. Che esito avrà questa nobile gara di merito? Chi dei due salirà più velocemente le scale dell’affermazione sociale? Scommettiamo? Vincerei senza problemi, ma come si può capire, con un certo merito.

Parlare di merito senza parlare di eguaglianza, dunque, si configura come una truffa con destrezza. Truffa, perché il discorso contiene un oggettivo premio di maggioranza per chi già è favorito per posizione sociale, tradizione familiare, disponibilità economica. E destrezza perché si tenta di convincere chiunque sia appena poco più che totalmente imbecille che il farsi strada nel mondo dipende da lui soltanto, dalla sua capacità, dal suo merito e non dalla struttura della società, dai suoi meccanismi profondamente ingiusti.
In pratica, qualunque discorso sul merito che prescinda dal discorso dell’uguaglianza non è altro che un chiaro disegno conservatore, volto a conservare, appunto, gli equilibri esistenti.

Non sfuggirà a nessuno, del resto, l’esilarante balletto delle previsioni che periodicamente indicano ai giovani i più fruttuosi e promettenti rami di studio. La laurea, il miraggio di promozione sociale dei baby boomers, non bastava più. Ci voleva il master. Possibilmente il master all’estero. Trovandosi poi un esercito di laureati e masterizzati a far fotocopie in ufficio, ci si pose il problema di consegnare a man bassa lauree brevi. Poi si disse che un buon diploma sarebbe stato meglio. Poi si arrivò a dire che un buon lavoro manuale avrebbe pagato di più. Ora, che abbiamo un gran bisogno di idraulici, di infermieri e di piastrellisti, dei quali sarà assai più facile valutare il merito. E soprattutto meno rischioso per chi potrebbe essere insidiato dalle loro capacità.
Bello, eh, il merito! Ma c’è un gran bisogno di proletari, e non di intellettuali pretenziosi. Gli attacchi al diritto allo studio, i tagli della signora Gelmini, la ironie della signora Fornero sui giovani “choosy” che è meglio si accontentino e l’aumento delle rette universitarie (quest’anno, 7 per cento in più rispetto all’anno scorso, in media) dicono proprio questo. Che il merito è una grande tosatura delle insulse pretese della piccola e media borghesia, che aspirava a diventare ceto medio e viene ricacciata in basso. Perché non merita.

E poi, per chiudere il cerchio, ecco l’ultimo paradosso dell’inganno del merito.
E quelli che non meritano? In una società così pervicace e feroce nel premiare il merito, che fine farà chi proprio non ci arriva? Chi non sa fare e forse non saprà mai, chi rimane indietro, chi rifiuta il meccanismo, chi non è dotato?
Un’enorme rupe Tarpea potrebbe essere una soluzione abbastanza moderna? Un grande penitenziario per i non meritevoli? Un’isola? Un confino?
Andiamo, in fondo non sarebbe un prezzo troppo caro per una società di tipo liberista basata sul nuovo-vecchio feticcio del secolo XXI. Il merito.

17 commenti »

17 Commenti a “Merito? Eguaglianza!”

  1. Mi sa che il riferimento non è il Toyotismo, ma i sani e vecchi principi dell’etica protestante e lo spirito del capitalismo rivisitata nella salsetta della pervicace mentalità cattonepotista nostrana.

    da giulia   - lunedì, 28 gennaio 2013 alle 11:03

  2. condivido tutto, persino le virgole, di questo articolo…in particolare l’ultimo paragrafo, vero paradosso di questa sedicente Repubblica meritocratica (sic!comunque…). E poi di chi non ha ‘merito’ cosa vogliamo farne? spedirlo all’inferno con un biglietto di sola andata? oppure ne facciamo ‘saponette’ almeno serviranno a qualcosa? merito, sostantivo maschile particolarmente osceno in un Paese dove comunque l’unico ‘merito’davvero riconosciuto è quanto sei stato paraculato dalla vita e tutto il resto sono sonore minchiate (excuse my french…)…comunque, devo smetterla di leggere Robecchi: ha il (discutibile) ‘merito’ di creare dipendenza (almeno in me…)….

    da flora cappelluti   - lunedì, 28 gennaio 2013 alle 11:12

  3. Ancor più desueto di eguaglianza, quello che serve è giustizia. Come diceva Don Milani, “non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”.

    da sara   - lunedì, 28 gennaio 2013 alle 11:42

  4. L’eliminazione degli “inutili” è stato lo “startup” (termine moderno italiano di sciocca subordinazione linquistica) del nazismo… Questa mattina l’on. Casini per radio, con la faccia più tosta del mondo, chiedeva in sostanza ai dipendenti più disponibilità verso le esigenze aziendali in cambio di maggiori compensi. Non ha però precisato che i “maggiori compensi” sarebbero poi completamente annullati dalle tasse inique messe dai governi un tanto al chilo dei quali lui stesso è stato attivo protagonista e ultimamente amplificate fino all’indecenza dal suo attuale amato principale sen. Mario Monti… Ora arriva puntuale questa bella relazione di ar…
    Mi sembra di avere capito che esistano due categorie di persone meritevoli: 1) quelle appartenenti per fortunato caso alla casta dei quattrinai padroni del potere; 2) quelle che, pure per caso, ma purtroppo sfortunato, appartengano loro malgrado alla numerosa famiglia dei “cretini”. Quindi non c’è scelta, ricco o cretino!… Chi non ci sta, “al macero”?… Mah!…

    da Vittorio Grondona   - lunedì, 28 gennaio 2013 alle 11:52

  5. @ giulia: forse parlava di taylorismo? Non sono un cervellone ma c’è una bella diferrenza…

    da carla   - lunedì, 28 gennaio 2013 alle 13:53

  6. Un articolo da medaglia.
    Anzi, da valore al merito…

    Qui, sull’argomento, un nostro modesto contributo.

    Con stima…

    da Bottega del Disagio   - lunedì, 28 gennaio 2013 alle 16:29

  7. Più che essere convinta di quanto appena letto, tutto quanto appena letto, sono cose che so. Le so perché fortunatamente, non appartengo alla categoria di persone totalmente prive di memoria storica, ma soprattuto perché, e Dio sa da dove mi viene, ho una sana ed istintiva “diffidenza di classe”, diciamo così. Qualcuno volendo, e potendo, direbbe trattasi, la mia, non di diffidenza ma di odio, sempre dello stesso tipo,della diffidenza. Invece non odio nessuno. Odio, al contrario, essere presa in giro. Odio la mistificazione per nascondere colpe o viltà. Non mi sto auto celebrando, sto illustrando un atteggiamento sano nei confronti delle menzogne che ci propinano, dei falsissimi miti che danno in pasto a quelli che nella scala sociale detengono le posizioni più basse, o meno alte, se la parola “basso” può dar fastidio. Il merito non esiste, se non quello di chi con fatica, e senza odiare il proprio simile, senza accettare la competizione dei trasportatori di pietre dell’antico Egitto, imposta sempre dai padroni per mezzo dei loro controllori, procede nella propria opera di essere umano e di “costruttore” della propria dignità.

    da Tiziana   - lunedì, 28 gennaio 2013 alle 17:30

  8. Tutto vero, tutto giusto. Ma non è dappertutto sempre così. Vi sono settori, anche di enorme rilevanza economica, dove conta veramente l’ingegno, la stoffa, il know how, il talento e per fare carriera poco possono raccomandazioni e nepotismi. Lì devi sapere fare al meglio il tuo mestiere, altrimenti sei out. Penso allo spaccio (all’ingrosso o al dettaglio) di cocaina, oppure di derivati finanziari. Lì il mercato richiede necessariamente competenze specifiche e solo e soltanto i migliori emergono. Lì il concetto di ‘merito’ trova la sua apoteosi.

    da pococurante   - martedì, 29 gennaio 2013 alle 09:34

  9. Non tutti aspirano a diventare dei “Leonardo”, ma alla maggior parte della gente interessa arrivare il meglio possibile alla fine del mese. Inoltre vorrebbe vedere i soldi coi quali collabora nella società impiegati nei servizi e nel benessere generale. Certo se il merito fosse riconosciuto solo alle grandi menti, ai grandi giocatori, ai grandi politici, ai grandi imprenditori, ai grandi dello spettacolo, ai grandi manager e via di seguito nell’elenco dei grandi richiami popolari, per tutti gli altri non rimane nulla… Il nulla porta inevitabilmente alla delinquenza ed al disagio sociale. Temperare bisogna… E temperare soprattutto con equità per il bene di tutti. Anche di quelli che per avverso destino del loro portafoglio sono considerati non meritevoli dalla prepotenza dei più fortunati.

    da Vittorio Grondona   - martedì, 29 gennaio 2013 alle 10:39

  10. Merito era l’appretto con il manico: dopo 30 anni di berlusconismo, cos’altro potrebbe essere il Merito se non uno spot commerciale?
    (questi signore e signore hanno appoggiato tutte le cazzate e cazzatine dei leghisti e di Berlusconi, per decenni…)(Popolari Europei compresi, vergogna)

    da giuliano   - martedì, 29 gennaio 2013 alle 15:13

  11. Incredibile come Robecchi riesca a sintetizzare i mille pensieri che mi affollano la testa. Posso affermare che da voce a istanze alle quali la sinistra Italiana non da più peso. Nelle scuole, dalle primarie alle università, il darwinismo sociale sta diventando il modus operandi. Vi prego, fermiamoci e riflettiamo. Se premiamo i “migliori” e lasciamo indietro gli altri, non possiamo comunque competere con il modello di lotta per la sopravvivenzan che si è messo in moto nei paesi emergenti (quanti nuovi ingegneri sorna la Cina? e l’India?) Rivogliamo uno stato sociale in cui a tutti viene dato secondo i propri bisogni e a ciascuno secondo le proprie aspirazioni.E questo senza che nella maratona che rappresenta le nostre vite, a qualcuno sia concesso di usare la motocicletta. Il merito è una favola, tutto dipende dalle condizioni di partenza: se Leonardo fosse nato in Gabon, ci troveremmo a studiare Leonardo da Libreville oppure al mondo sarebbe mancato il suo genio perchè non c’erano materiali condizioni per esprimerlo? Articolo splendido.

    da Silvano   - mercoledì, 30 gennaio 2013 alle 11:17

  12. “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”

    da franco   - giovedì, 31 gennaio 2013 alle 11:00

  13. Caro Alessandro,
    potresti inviare questo pezzo a ROARS, a meno che tu non abbia proprio preso spunto da loro? Uno degli argomenti e` proprio il merito.

    Pero`… al piano di sotto un studentessa con una situazione di partenza appena due-tre gradini sopra un rom sinti, e` riuscita a farsi strada (non in Italia). Un suo giovane collega e` stato avviato agli studi grazie all` autotassazione del suo villaggio (non in Italia) e va alla grande. Per non parlare della mia colega birmana, scappata negli USA e formatasi li`. Insomma, di storie di successo (umano) ne vedo tante, an che a fronte di un sistema paracastale per i posti pubblici. La differenza e` che ci sono le risorse, quindi piu` ragazzi possono studiare bene, hanno piu` alloggi, infrastrutture, c`e` assistenza per il disagio sociale, etc. Applicare solo il criterio del merito in un paese alla frutta (in termini di risorse) come l` Italia significa immobilizzare la gazzella perche` il leone non fatichi troppo a sbranarla.

    da Enrico Marsili   - venerdì, 1 febbraio 2013 alle 09:56

  14. Che dire, c’è poco da aggiungere se non “grazie”.
    Riesci sempre ad esprimere a parole (e che parole!) il pensiero che io non so adeguatamente articolare. Questo poi è davvero un pezzo da oscar.

    da Chiara   - domenica, 3 febbraio 2013 alle 16:04

  15. il migliore articolo che abbia mai letto da quando sono in grado di farlo (sono coetaneo di Robecchi..), da rendere obbligatorio nelle scuole

    da maurizio   - martedì, 5 febbraio 2013 alle 15:27

  16. Ottimo articolo, ne faro’ un punto di riferimento, chissa’ che quanto letto non possa aiutare anche me.

    da trasporti-roma   - mercoledì, 29 maggio 2013 alle 00:04

  17. Nonti conoscevo, ho letto un tuo articolo grazie ad un retwit di Sofia Ventura. Sei un grande !!!!

    da Piero Indrizzi   - mercoledì, 15 novembre 2017 alle 15:47

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