Alessandro Robecchi, il sito ufficiale: testi, rubriche, giornali, radio, televisione, progetti editoriali e altro
 
lun
14
nov 11

Los funerales del Pequeño Grande (da Arcore a Macondo)

Cari tutti. A gennaio di quest’anno (2011) è uscito su Micromega un mio raccontino che prendeva spunto da uno dei più bei racconti mai scritti da Gabriel Garcia Marquez, Los funerales de la Mamà Grande (1962). L’idea era di rendere omaggio al grande Gabo e al tempo stesso di immaginare i funerali del nostro piccolo disastro nazionale, quello che se ne va in questi giorni nel modo più umiliante possibile. Berlusconi era il Pequeño Grande, e il suo popolo in gramaglie lo salutava. Mi è venuto in mente in questi giorni, ovvio. A funerale avvenuto, eccolo. Prendetelo come un regalino. Buona lettura

“….Ora che è impossibile passare da Macondo a causa delle bottiglie vuote,
dei mozziconi di sigarette, degli ossi spolpati, degli stracci,
degli escrementi lasciati dalla folla che ha partecipato ai funerali,
 ora è giunto il momento di accostare uno sgabello alla porta di strada
 e cominciare a raccontare dal principio i particolari di questa perturbazione nazionale,
 prima di dar tempo agli storici di arrivare”.
(Gabiel Garcia Marquez,
Los funerales de la Mamà Grande)   

Passò sulla Naciòn come una febbre, come un brivido, come un fremito di incredulità che faceva spalancare le bocche e sgranare gli occhi e battere le palme delle mani sulle cosce. Cosce forti di contadini dell’altiplano, di montanari secessionisti della Cordillera, commozione di pie donne, lacrime trattenute delle commesse, frenate appena in tempo che non si sciogliesse il mascara, non ancora.
Passò negli studi degli avvocati che ebbero un moto di stizza delusa, sulle scrivanie dei giudici che imprecarono compostamente, nelle case di amici di sempre, di nemici di sempre, compresi i finti amici e i finti nemici che per decenni, ma sembravano secoli, lo avevano tenuto a galla. Passò come un vento attraverso i ripetitori e i satelliti e i digitali terrestri e i telegiornali amicissimi e le sit-com e arrivò nel più sperduto angolo della Selva e nel più recondito corridoio del più lontano palazzo del potere, immenso e ramificato com’era. Passò come una scossa elettrica nei consigli di amministrazione e nei listini di Borsa, nelle alcove vaporose delle professioniste, nei camerini del Gabibbo. Passò come un ratto veloce e mesto la notizia che non si poteva credere: che il Pequeño Grande era alla fine dei suoi giorni e che dì li a poco tutto si sarebbe concluso, le esequie, i funerali, le condoglianze, il lutto e la disperazione della Naciòn che tanto aveva voluto somigliargli e che ora gli era sorella, figlia, madre, la Patria sua, del Pequeño Grande, sulla cui bandiera era stata messa la scritta “Proprietad Privada” ma in lettere dorate e con il carattere tipografico dei titoli di Dallas.

Che l’ora era giunta si sentiva dai toni, dalle parole, dalle inquadrature, dalle musiche di sottofondo, dalla mestizia dei toni e degli accenti, dalle dichiarazioni dei dipendenti e dei sodali, dallo smarrimento dei sedicenti nemici che già prima della dipartita sentivano pieno il dolore di quell’imminente mancanza, santoni condomblé come don Maximo De Alema, o letterati finissimi come Wòlter De la Veltrona y Vocaciòn Majoritaria.
Nella disperazione e nel disincanto, tutti fremevano per lo stupore, perché nessuno pensava sarebbe successo, il terribile trapasso, prima dei centovent’anni di vita che il Pequeño Grande, secondo i suoi medici e i suoi preti avrebbe – come ci avevano detto per anni – senz’altro raggiunto. Tutti sapevano, tutti erano avvisati, avvertiti a reti unificate. Ma tutti sapevano anche che non era tempo, non ancora.

Prima, c’era il tempo del testamento, dei lasciti, delle eredità. E così dalla Pampa e dall’Altiplano, dalla Cordillera e dalla Selva arrivarono  gli Aventi Diritto. Interi treni speciali di avvocati in processione per l’ultima parcella, per quel servigio di un tempo, si ricorda Eccellenza? Di arruffacodici, di principi del cavillo, di estensori di leggi perfette, affilate, tagliate sulla sua persona come abiti su misura. Vennero los Ghedinos, los Previtos in processione, los Gasparros, los Ciramis. I giudici acquistati al mercato giunsero a cavallo, i testimoni stranieri assoldati per amichevoli deposizioni posteggiarono sotto El Palacio auto da seicentomila dollari. Vennero i peones con e senza mutuo da estinguere, a salutare e rendere omaggio e tentare l’ultimo incasso dal Pequeño Grande nell’ora dell’estinzione sua, questa volta. Venne don Domingo De Scilipotes con l’anziana madre importunata dai cronisti. Vennero gli eredi legittimi e quelli illegittimi.
 
Vennero i legali rappresentanti delle aziende comprate con l’inganno, vennero i responsabili vendite, i pubblicitari diventati deputati e senatori, venne don Marcelo De L’Utri il noto bibliografo, con certi libri antichi che sembrava portare in dono e sui quali invece chiedeva qualche firma, non si sa mai. Vennero i direttori di banca e i capitani d’industria, quelli così assuefatti al potere da doverne aumentare le dosi, cosa impossibile senza l’appoggio del Pequeño Grande e del suo incommensurabile impero di soldi. Vennero Los Capitanos Intrepidos de los Comercios y del Capitalismo de la Naciòn, quelli che si erano comprati le Aerolinas Nacionales in cambio di assai più lucrosi affari futuri.

Vennero banchieri, finanzieri, molti evasori rientrarono con uno scudo fiscale appositamente creato per la triste occasione dal contabile di corte Julio De Tremontes. Vennero tutti quelli che avevano beneficiato di anni e anni di regno incontrastato del Pequeño Grande, e tutti con un “si ricorda Eccellenza?”, quell’affaruccio, quella barzelletta zozza, che ridere Eccellenza. Quella legge fatta apposta, quel voto di fiducia, quella consulenza, quel dossier fabbricato in fretta e furia, quella campagna di stampa. Tutti con un caro ricordo che legava loro a lui e lui al potere e tutti alla maggior gloria della Naciòn sotto il regno del Pequeño Grande, che possedeva i mari e le terre e porzioni di cielo di qua e di là dall’oceano, sottoforma di holding offshore, palazzi, ville, anime, teste, cuori. E signorine. Ma quelle dopo, non ancora.

Vennero prima i prelati. In processione, come è di dovere nella loro categoria. Vennero a ringraziare delle leggi antiche e retrograde sui diritti e la famiglia, a ricordare con bonarietà tutta terrena le battute sui gay, sugli ebrei, la virile y fremente concepciòn de la mujer che il Pequeño Grande mai scordava di esternare, anche a gesti, nel caso. Vennero accompagnati da qualche laico devoto, quasi oscurati dalla enorme mole di Juliano Ferrara El Foliante, già hidalgo della craxitudine, a ricordare come qualche peccatuccio della carne sia spesso un viatico per grandi vocazioni, come certo era stata quella del Pequeño Grande, che il Signore lo abbia in gloria. E tanta era la folla che si assiepava, e tanti i lasciti, le disposizioni testamentarie, le benedizioni, i questuanti, i miracolati dal suo potere immenso, che furono proprio i prelati a decidere: il momento non era ancora giunto, e con toni accorati benedissero quello di cui la Naciòn aveva bisogno sopra ogni altra cosa, la stabilità, davanti alla quale ogni peccato si può emendare. E intercessero presso l’Altissimo loro Principale che la fine fosse prorogata per almeno tre giorni ancora, una specie di decreto ad personam dall’alto dei cieli, un mille proroghe a divinis, così, per non perdere le sane abitudini della tradizione a cui il Pequeño Grande tanto teneva.

Così poterono arrivare le signorine, in tubino nero e poco trucco. Con i loro microfoni nascosti e le macchine fotografiche digitali e i telefonini e le automobili con i vetri oscurati e i loro agenti e i loro accompagnatori. Vennero le ballerine diventate ministre, le ballerine rimaste ballerine, le ministre che sarebbe pure diventate ballerine al solo scoccar di un capriccio del Pequeño Grande, le bionde, le brune, le giovani. Vennero per ricordare lui e se stesse ai tempi dei grandi palazzi e delle sontuose feste, dei filmini celebrativi guardati insieme e delle canzoncine in rima che cantavano l’ode al Pequeño Grande nel grande Palacio de la Capital, o attorno al vulcano poderoso y artificial che il Pequeño Grande si era fatto costruire, lui che dopo el fuego y la pasion y el corazon sapeva sganciare certe buste che sono, ancor oggi, leggenda, e comunque agli atti in certi interrogatori di giudici comunisti e invidiosi di tanta grandezza.

Vennero infine i telegrammi di condoglianze y tristeza y lagrimas dei grandi della terra, tenutari di democrazie ancor meno democratiche della povera Naciòn colpita da così grave lutto. Zar biondini, colonnelli con la tenda, dittatori che vincono le elezioni col cento per cento, cosa che nemmeno al Pequeño Grande era mai riuscita, con suo enorme scorno e delusione e dunque carburante per la sua dote maggiore di re regnate su tutto e tutti: il vittimismo di non contare abbastanza quando già contava troppo e anche di più.

Poi venne il momento.
Los funerales del Pequeño Grande durarono sei giorni e sei notti, durante i quali la Naciòn ritrovò se stessa e celebrò i suoi valori immortali. Treni e torpedoni e auto private e gipponi quattroperquattro e utlitarie e vaporetti e navi e funivie e aeroplani delle Aerolinas Nacionales calarono sulla Capital de la Naciòn per le solenni esequie. E poi di nuovo si mossero le moltitudini verso la residenza privata –
già, ma quale? – del dipartito e rimpianto Pequeño Grande. E per una settimana intera la Naciòn fu preda di questo ondeggiare luttuoso delle masse, scomposte e vocianti, avide di benessere e barzellette e cinepanettoni e reality show e telequiz e consigli per gli acquisti e appelli ad abbassare le tasse e semmai evaderle un po’, come autodifesa del cittadino per bene, del Pueblo Productivo y Empresario y Comerciante contro lo Stato avido e baro.
Una maggioranza silenziosa e dolente orfana del ghe pensi mi, delle pacche sulle spalle, delle barzellette scollacciate, del sole in tasca, del futuro radioso, dello sberleffo agli altri poteri dello Stato, che vergogna, come se non bastasse lui, come se non fosse bastato, il Pequeño Grande, a fare lo Stato. Un fiume, un mare, un oceano di popolo da decenni al potere senza accorgersene, da secoli in sella con l’angoscia, la paura e il tremore di essere disarcionato dai comunisti, che nel frattempo erano spariti chissà dove, ma valevano ancora come spauracchio e monito per tutti, la paura che il Pequeño Grande aveva saputo affilare in anni e decenni e secoli di réclame di se stesso.

E i pochi che non presero parte alle solenni esequie, in un certo senso ne presero parte lo stesso, perché nessuno, in quei secoli e millenni di dominio del Pequeño Grande, poteva dirsi estraneo e lontano.
E così anche nelle maquiladoras di periferia, nei turni di notte con pausa ridotta di Miraflores o Pomijan, nelle università aperte al Comercio y al Capital Privado, nei lavoretti di una stagione, nelle scomode scrivanie degli stages e dei contrattini a progetto si scuoteva il capo e si sorrideva dell’ipnosi funeraria della moltitudine naciònal. Ma anche lì, ancora si parlava di lui, e sempre di lui, e comunque di lui, del Pequeño Grande, che sia benedetto, o maledetto, o celebrato tra mille clamori e pianti e lai, o sotterrato e non se ne parli più. Ma intanto se ne parlava.

Poi, passati i sei giorni e le sei notti, raccolte le cartacce e i rifiuti, riportato l’ordine, smontate le transenne, spostate le macchine in doppia fila, riaccompagnate a casa le figlie e le ragazze, contattati i commercialisti, scaricata l’Iva, tornata insomma la calma, la buona e brava gente de la Naciòn non ci pensò più di tanto, pur bramando ancora, e sperando e invocando che arrivasse qualcuno mandato dalla provvidenza che prendesse il posto di quel grand’uomo celebrato, adorato, osannato e ormai archiviato e seppellito che fu il Pequeño Grande. Con gli occhi ormai asciutti, i lutto dismesso e le faccende da sbrigare che ogni Naciòn, piccola o grande ha, incombenze e affari e tradizioni e usanze da celebrare, con appena la piccola distrazione della speranza e dal desiderio che ne arrivi un altro, a comandarci per bene, a dare orden y exemplo.

Mancava quindi soltanto che qualcuno accostasse uno sgabello alla porta e cominciasse a raccontare questa storia, lezione e monito delle generazioni future, in modo che nessuno degli increduli del mondo rimanesse digiuno della storia del Pequeño Grande, del suo pueblo e della sua Naciòn che per maledizione e disperata solitudine è anche la nostra.

5 commenti »

5 Commenti a “Los funerales del Pequeño Grande (da Arcore a Macondo)”

  1. Primo!! si sono il primo a commentare, vero ? sono il primo!! cosa vinco ? Eh sono il primo!! Il primo che commenta dice ECCELSO Alessandro!!!
    Ora spero mi passi il brivido da febbre…sai ho passato circa 17 anni a maledire un tizio che l’unica cosa che rispetta è il suo cazzo (si può dire cazzo? lo scrivo, non lo dico).

    da Max   - lunedì, 14 novembre 2011 alle 13:31

  2. aaah! la letteratura sudamericana…

    da eve   - lunedì, 14 novembre 2011 alle 17:38

  3. E dire che ci aveva provato in tutti i modi a rimandare il luttuoso avvenimento, prima con la legge speciale del legittimo impedimento e poi con le inficcate di aghi nelle cicce messe a disposizione dal solerte don Domingo De Scilipotes. Niente da fare. E così il fatale momento della fine arrivò anche per Pequeño Grande… Il rosso garofano si è fatto subito nero dalla disperazione, la nera camicia si è ammutolita squagliandosi incredula nella fanghiglia impetuosa del mesto avvenimento, solo los Gasparros, come al solito, continuano ugualmente a sparare cavolate, la verde cravatta, invece, tenta alla chetichella di tornare sui suoi passi… Insomma, un vero pandemonio. La ciurma di palazzo non si apettava di certo un tale triste epilogo, causato poi dal dio quattrino, proprio lo stesso dio che hanno sempre adorato. Una mancata di stile simile era davvvero impensabile. Che abbiano sbagliato dio!…

    da Vittorio Grondona   - lunedì, 14 novembre 2011 alle 17:50

  4. Gasparri “Cosa deve fare B? Suicidarsi?“. Per la prima volta il suo neurone ha avuto una buona idea

    da gianguido mussomeli   - martedì, 15 novembre 2011 alle 00:28

  5. Max e Mussomeli, mi avete fatto sghignazzare anche voi!

    da Adele5   - martedì, 15 novembre 2011 alle 22:25

Lascia un commento