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ott 06

Da Vedi alla voce Radio Popolare – Alessandro Robecchi

Da Vedi alla voce Radio Popolare, autobiografia collettiva di una radio ancora libera, a cura di S. Ferrentino, L.Gattuso e T. Bonini, edizioni Garzanti, 2006

ALESSANDRO ROBECCHI a Radio Popolare dall’ottobre 1996 all’estate 2001, professione attuale: giornalista, autore televisivo, papà.
Trovate qui sopra due date di comodo. Quello che corre tra l’ottobre ’96 e il giugno ’01 è il periodo in cui sono stato “interno” a Radio Popolare, ben più complicato è sapere da quando – e fino a quando –
la radio è stata interna me. Qualche passaggio in gioventù, ma poi tante rassegne stampa, quei turni mattutini, bellissimi, con le albe rosa di via Stradella, l’inchiostro dei giornali, la piccola cerimonia del caffè con l’aperturista di turno. Nell’estate del ’96, poi, mi chiama Scaramucci: perché non vieni alla radio? Va bene, faccio un salto. No, intendo a lavorare. E’ cominciata così. Io venivo dalla strabiliante esperienza di Cuore, la radio cercava una shakerata, io ero esterno, ma anche un po’ interno, volevo provare?
Quello che mi aspettavo di trovare a Radio Popolare era un laboratorio di giornalismo democratico. Quello che trovai fu un laboratorio di giornalismo democratico, ma più complesso, più agitato, vivo. Ruolo: direttore dei programmi. Ma l’ingresso, l’impatto era Piovono Pietre, la trasmissione quotidiana (oggi si direbbe una striscia). Undici minuti che mischiavano satira, battute, invettive, corsivi politici, non-sense, critiche. Un one-man-show, che a volte diventava un editoriale, un editoriale che diventava una denuncia politica, una presa per il culo, una vignetta volante. Spossante. Divertente.
Intanto, c’era l’impatto con la radio. I palinsesti, il tentativo (insieme alla redazione programmi) di coordinare creatività e intelligenze. La voglia di muovere le cose. Di cambiare, di essere mobili noi insieme alla radio, che infatti ribolliva, faceva esperimenti, lanciava nuovi programmi. Fare la radio, fare la politica, fare i programmi, fare i rapporti umani, la vita, insomma era tutto una cosa, e  si mischiava e si scontrava. E’ probabile che di alcuni aspetti editoriali, spettacolari, giornalistici della radio ci sarebbe da discutere ore, da punti di vista strategici e, diciamo così, professionali. Ma ancora oggi rimango convinto che esista uno specifico Radio Popolare che sfugge agli incasellamenti delle categorie professionali pure e semplici così come ce le presenta oggi l’organizzazione del lavoro. Si risponde degli ascolti, ma ovviamente gli ascolti non sono tutto. Si lavora sull’affezione dell’ascoltatore-abbonato, ma stando attenti al rischio di una fossilizzazione e a una comoda deriva in cui la radio si appoggia a chi l’ascolta e viceversa (consolatorio, prudente). Dunque, si mischiano livelli politici e teorie sul valore del lavoro di informare. In questo senso il laboratorio è un vero laboratorio, complicato assai. C’è di più, ovviamente: la vita e i rapporti umani, in un simile mix d’intenti, intenzioni e applicazioni pratiche, non sono secondari. Non so dire quanto questa sia un’eredità della politica d’un tempo (del modo di fare politica), quanto sia un ovvio praticare le proprie convinzioni. Per questo, la radio può anche mostrarsi come un polo d’attrazione per quelle intelligenze e ambizioni che vogliono darle voce. Al desk dei programmi, per esempio (cito a testimone Claudio Agostoni, che fu il mio vice e che aveva il suo gran daffare a dirigere quel traffico) era un continuo affollarsi di proposte, idee, nuove idee, idee ancora più nuove. Si mettevano paletti e si indicavano priorità. Ricordo la trasmissione per i carcerati (Ora d’aria), la trasmissione sui viaggi e il turismo cultural-consapevole. Ma anche piccole parentesi estive, accaldate e divertenti, di puro intrattenimento (l’Arca loca, qualcuno ricorda?), perché nemmeno gli interstizi rimanevano inesplorati. Il problema era semmai realizzare, trovare spazi e forze nel dedalo di quella eterna “dittattura dei turni” che è pur sempre una forma ovvia e doverosa di organizzazione. Il desk dei programmi aveva a quei tempi (ma non ho modo per dire che oggi sia diverso, e spero di no), idee per fare tre o quattro palinsesti, voglia sfrenata di farne almeno un paio ed energie per farne a malapena uno, e questo era esaltante e deprimente allo stesso tempo, ma stimolante sempre.
Su alcuni basilari dualismi ho vissuto quel periodo straordinario. Uno per tutti: la radio centro sociale (politica-aggregazione-info e controinformazione ecc. ecc.), contro due: la radio professionale (pulita-ordinata-istituzionale pur nell’ambito della sua collocazione politica). Tutti quelli che si sono avvicinati a questo dilemma (mi risulta) e io (di sicuro) ci hanno messo del bello e del buono per capire che la peculiarità di Radio Popolare – direi addirittura la sua identità – sta proprio nella non risoluzione di questa apparente alternativa o, se preferite, dall’equilibrio di questi due poli. Venendo dal mondo dell’editoria, abituato dunque ai meccanismi del mercato (per quanto non i più selvaggi), il contrasto era a volte doloroso: come coniugare la potenza della spontaneità e il flusso dall’esterno verso la radio, con un risultato radiofonico più preciso e accettabile (mi verrebbe da dire, più moderno, più pulito…). La questione non è risolta, al momento. E me ne rallegro: la tensione vitale, la coabitazione di queste due linee garantisce alla radio la sua inimitabile personalità.
A dirla breve, fu una stagione straordinaria. Piovono Pietre mi mangiò il tempo, l’energia e la voglia di stare immerso nella direzione dei programmi. La trasmissione, da appuntamento mattutino era diventata qualcosa di più. Una specie di culto, una specie di fenomeno. Andai avanti tutti i giorni, dalle 7,48 alle 8,00 ancora per tre anni, subii pressioni, buone recensioni sui giornali, vigliacchi attacchi sui giornali, migliaia di lettere, telefonate, complimenti, baci, regali, qualche minaccia, e mai (mai) una censura. E’ una cosa rara e quindi molto preziosa.
I programmi avevano attaccata una sostanza semi-magica che ti impediva di staccarti, che non permetteva concentrazione part-time. A vederla oggi, direi che meritavano più attenzioni, una full-immersion anche emotiva che già era richiesta da Piovono Pietre. Si cerca sempre di far troppe cose, e questo non è bene. Di sicuro resta una cosa: il senso di appartenenza a una vera fabbrica culturale. Non teorica, non un modo di dire, non una piaggeria per dire “che bravi”. Una vera fabbrica dove si produce una cosa preziosissima che alcuni consumano, cioè informazione democratica. Bene prezioso, che scarseggia.

4 commenti »

4 Commenti a “Da Vedi alla voce Radio Popolare – Alessandro Robecchi”

  1. Ma perché non torni??
    Mi manca la tua voce le tue freciate e il tuo senso di humor, per iniziare la giornata, adesso anche si continuo a consumare con fame mattutina Radio Popolare, faccio fatica a iniziare a scrocarmi l’osse…
    Comunque Grazie e alla fine l’importante e che tu continue vivo, felice e creativo

    da Lulù Ortega   - martedì, 16 ottobre 2007 alle 02:00

  2. Caro, ho registrato l’ultima puntata di “Piovono Pietre”: per un bel po’ ha girato su Napster e WinMx…

    Ogni tanto me l’ascolto e quando comincia “Infinita tristezza”…come faccio a non piangere?

    Ci manchi tanto. Bacione.

    da Roberta   - martedì, 13 maggio 2008 alle 21:06

  3. Il più bel programma radiofonico di sempre.

    Robecchi sei un mito.

    Ma non pensavi all’epoca di fare un raccolta su DVD si alcune puntate di piovono pietre? A me una copia subito, la pago il doppio se qualcuno ce l’ha…..

    da Giuseppe   - venerdì, 3 ottobre 2008 alle 23:49

  4. hai lasciato noi poveri cristi senza piovono pietre….torna a darci la SCOSSA MATTUTINA TI IMPLORO

    da alessandro   - martedì, 17 novembre 2009 alle 19:50

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