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sab
21
nov 15

Un Dylan per tutte le stagioni

pag99titoloDylanEcco che ripassa da queste parti Bob Dylan, ci viene spesso, ultimamente, il che comporta numerosi problemi di tipo psichiatrico, anche grave, per le varie categorie di estimatori ed esegeti, studiosi, appassionati, maniaci, tifosi, catechisti della Great American Song.
Tipo io, per dire.
Ora, per esempio, sto guardando la foto in cui Bob ha ricevuto la Legion d’Onore francese (novembre 2013): ha una giacca da vice ammiraglio, pare una mia prozia, sta dritto e impettito con la medaglia al petto come se fosse orgoglioso, ma allo stesso momento dicesse: “eh?”.
Quello di stasera, secondo i calcoli (ma vai a sapere…) è il concerto numero 2.733 del Neverending Tour, che ormai è un modo per dire che Bob Dylan avvolge il pianeta con i suoi show da tempo immemorabile, forse da prima che si scoprisse il fuoco. Ha 73 anni, ultimamente indossa un cappello a tesa larga e ha baffetti da sparviero, suona poco la chitarra e preferisce sedersi al piano. I dylaniani, insomma, quelli che amano Bob, vanno ai suoi concerti. Come anche i dylaniati, categoria di superiore consapevolezza, quelli che conoscono i Sacri Testi e li citano a dovere, pescando con precisione sfumature e nuances dylaniane da adattare alla vita che scorre (l’amore, l’abbandono, la rabbia, la protesta, la cameriera del topless bar che si china ad allacciargli una scarpa in Tangled Up in Blue, 1975, ma sentite anche la strabiliante versione suonata a Rothbury, Ohio, nel luglio del 2009, mi raccomando).
Poi ci sono i dylanologi. Sono loro che vi beccheranno impreparati, loro che conoscono, per dire, la differenza tra l’allegra cantilena similfolk di I want you (Blonde on Blonde, 1966) e la stessa canzone, struggente e densa di rimpianti, finalmente convinta e urgente (dal vivo in Budokan, Tokyo, primo marzo ’78). E lì non potete competere, lasciate perdere.

E comunque è ovvia e pacifica una cosa: che non si ama questo o quel Bob Dylan, ma piuttosto la categoria della dylanitudine. Cioè analisi e ammirazione per uno che fece il folk, e poi la pag99Dylanpaginacanzone di protesta, e poi prese la chitarra elettrica (“traditore!”), poi si rifugiò in una cantina e ne uscì un anno dopo con un disco mirabolante, e un altro ancora. Quello che riceveva in faccia recensioni come “Ehi, Bob, cos’è questa merda?”, ma alla fine aveva ragione lui, Bob. Quello che metteva coriste nere meravigliosamente fuori tempo nelle ballad (oh, dico, Street Legal, 1978, dovrebbe essere obbligatorio già alle medie!), che tirava fuori di galera Hurricane, che aveva frequentato Ginsberg e Ferlighetti e suonato a Woodstock, ma si metteva a fare dischi religiosi da Cristiano Rinato, e poi sfasciava tutto di nuovo. Ancora. Da capo. E quelli: “Ehi, bob, cos’è questa merda?”, se passava al country, oppure tornava, dopo aver attraversato il pop, alla ballata ellittica e stralunata, per poi tornare alle origini del suo suono, con sberleffo annesso: la canta, la canta ancora Blowin’ in the wind, come no, e voi a stento la riconoscete.
Mai come nel caso di Dylan conta l’intera parabola artistica, come si dice: l’opera nel suo complesso, l’intero corpus. Che prevede un’infinità di allegati: le “cover”, per dire, le più o meno bislacche versioni delle sue canzoni tradotte in ogni lingua, dall’inuit al greco moderno (ultimo: il canto degregoriano italiano, e vabbé), alcune delle quali immense e degne di massimo rispetto (zia Joan Baez, Caetano Veloso, Nina Simone, Elvis Presley, Odetta, e mille, mille altre). Oppure lo stesso lavoro di ricerca e archiviazione che lui stesso fa della sua produzione nella collana Bootleg Series (ultimo arrivato: il megacofanetto The Cutting Edge 1965-1966, 18 cd, 379 canzoni, outtakes, versioni alternative, prove e missaggi realizzati tra Bringing It All Back Home, Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde, come dire la luce dopo il lampo primigenio). E dunque, capirete, si richiede preparazione, orecchio, valutazione del rispetto filologico e/o del dispettoso stravolgimento del Verbo, oppure dell’evoluzione del genio come in un timelapse sonoro.
Con l’aggravante, poi, della pubblicistica dylanologa, che produce a getto continuo studi e saggi e teorie: Dylan agente del sionismo, Dylan criptonazionalista, o anarchico individualista, o amante cinico, o poeta beat, o nostalgico dei Fifties, dei Sixties; o di Dylan pittore, o del “Ci fu davvero l’incidente in moto del ’66?”, o del misticismo dylaniano, teoria e pratica. Fino a: ecco Dylan che canta Sinatra, con cori un po’ striduli di conformismo di ritorno (Francesco Merlo su Repubblica: “goffaggine dei sentimenti”… mah), equivalenti di quei vecchi e stupidissimi “Ehi, Bob, cos’è questa merda?”.
E invece.
E invece, per chi sa leggere il percorso complessivo, l’approdo attuale alla categoria di mirabolante crooner è il nuovo miracolo dylaniano, la Nuova Resurrezione. Perché da tempo Bob dice di voler scrivere canzoni che somiglino a preghiere, e la bellezza oscura di Tempest (2012) conteneva capolavori assoluti come Long and waste years (“Abbiamo pianto perché le nostre anime sono state lacerate
/ Così tanto per le lacrime
/ Così tanto per questi lunghi anni sprecati”).
Preghiere, sì, se volete, che sono anche canzoni (quelle cantate da Sinatra, o scritte per lui, o sventolate sui palchi di Las Vegas). Prendi il caso di Stay with me, che il vecchio Frankie cantava nella sua meravigliosa overdose di archi (un gioiello dentro The Cardinal, di Otto Preminger, Golden Globe nel 1964). Per Dylan diventa, oggi, una scarnificazione sottile e ammirata, la voce che scivola morbidissima e fluida anche se ripassata nell’acido-rauco dylaniano, e una band che la accarezza piano, con il contrabbasso che suona la partitura orchestrata (e quindi la tratteggia come a carboncino) e Bob che canta – Dio mio – canta proprio come un cantante! E svela come lui, la sua dylanitudine, il suo esercito di contraddizioni messe in fila nell’opera omnia, sa fare dell’amore una preghiera, della preghiera un amore, e di tutto insieme un gioiello della corona nel grande libro della Canzone Definitiva.

Bob Dylan, sabato 21 e domenica 22 novembre, Teatro degli Arcimboldi, Milano

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