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Altro che Genny a’ Carogna, il pericolo è il mio accendino

Smetto quando voglio, smetto quando voglio, smetto quando voglio. E poi – colpo di scena – ho smesso. E il motivo per cui ho smesso di andare allo stadio non è esattamente la presenza di giovani hegeliani tipo Genny a’ Carogna e consimili intellettuali organici. O non solo. Piuttosto una somma di motivi intrecciati che riguardano me – innegabile – ma pure lo stadio. E dunque. Ci andavo, da quando ero bambino, con mio padre, il che ammetterete fa di quel sedersi scomodo – freddo, caldo, vento, pioggia, tempesta – una bella éducation sentimentale. E se volete anche un po’ di romanticismo ragazzino, eccolo: un gol di Boninsegna contro il Foggia in rovesciata plastica che io – undicenne – cercai poi di imitare ogni giorno fino all’età della ragione, più o meno.
Ma poi. Ma poi mio padre si è spiaggiato davanti a Sky, gli anni passavano, e io ci andavo con gli amici. Ma poi. Ma poi diventava un inferno. Lentamente. Inesorabilmente. Perché per un’ora e mezza di partita ti partiva via un pomeriggio intero, perché il parcheggio costava come una cena in pizzeria, perché nella città moderna di Milano la metropolitana allo stadio non arriva e ti devi fare un paio di chilometri in una navetta stracolma; navetta che al ritorno, per un mistero doloroso che nessuno sa spiegare, non c’è. E allora c’è una specie di ritirata di Russia di chilometri per raggiungere il metrò.
Poi, certo, c’entrano anche i Gerry a’ Carogna. Non solo loro. Perché arrivi e, pur dirigendoti pacifico verso il tuo posto di tecnici da bar e pensionati e cittadini normali rispettosi della legge, vieni perquisito e immancabilmente ti sequestrano l’accendino bic. E allora nel tuo settore di stadio il grido che si sente non è più “Passala, cazzo!” o “Tira!”, ma “Chi mi fa accendere?”, nella speranza che qualche fumatore vicino di posto sia sfuggito alla perquisa. E dopo esserti fatto sequestrare un accendino alla settimana (o una bottiglietta d’acqua), scopri che qualcuno ha fatto entrare bombe carta, mortai della prima guerra mondiale, razzi, fumogeni, testate nucleari. E poi il fastidio, quasi fisico per un sincero democratico, di sentirsi per un’ora e mezza nelle orecchie qualche centinaio di pirla che urlano a quegli altri (l’altro centinaio di pirla che gli sta di fronte) che sono “ebrei”, oppure “zingari”, o “pezzi di merda” e naturalmente (cosa irritantissima) “Se veniamo di lì \ Se veniamo di lì \ Vi facciamo un culo così”. Andiamo, chi passerebbe una domenica pomeriggio in una prima media di ragazzi difficili, disadattati, un po’ scemi e pure violenti? Ricordo una partita in cui gli ultras presero di mira un giocatore nero, per cui lo scenario era: ultras contro mezz’ala di colore (buu, buu), e pubblico normale contro ultras (scemi, scemi). Della partita non ricordo nulla, ma ricordo bene che uscii dallo stadio con una domanda in mano: “Che cazzo ci faccio io qui?”.
Ora, senza nulla togliere a Genny a’ Carogna e al suo quarto d’ora di notorietà, vorrei rassicurarlo: non è lui il problema. Anzi, lui ne è la tragicomica, esilarante, lombrosiana caricatura. Il problema è un po’ più complicato: è quanto tu, cittadino “normale” ti puoi sentire ancora normale in una situazione che di normale non ha niente, che è lontana mille miglia da quello che pensi, dici, fai e sei ogni giorno della tua vita quando sei fuori di lì. Dunque, non riuscendo a lasciare a casa il cervello e cercando di portartelo pure allo stadio, la cosa diventava difficile, impraticabile. E così, smetto quando voglio. E ho smesso.

6 commenti »

6 Commenti a “Altro che Genny a’ Carogna, il pericolo è il mio accendino”

  1. grazie

    da nik   - giovedì, 8 maggio 2014 alle 07:55

  2. Egregio sig. Robecchi,
    d’accordo a metà, chiedendoLe di esonerarmi dall’argomentare; solo una cosa, purtroppo, la situazione dello stadio non “è lontana mille miglia da quello che pensi, dici, fai e sei ogni giorno della tua vita quando sei fuori di lì”.
    Ps mi permetto di dedurre che sta ancora provando la rovesciata.

    da david   - giovedì, 8 maggio 2014 alle 07:59

  3. Tutte le volte che succede qualcosa di brutto negli stadi o nelle attigue zone esterne mi stupisco e rimango per qualche attimo immobile e pensieroso a bocca aperta. In sostanza la mia testa non riesce ad assimilare l’evidenza che una persona possa recarsi allo stadio lasciando a casa il cervello. Ci vuole infatti un duro allenamento per riuscirci… Allenamento peraltro molto simile a quello imposto al deputato nominato per ottenere un accesso sereno nel nostro Parlamento.

    da Vittorio Grondona   - giovedì, 8 maggio 2014 alle 09:53

  4. Tra le tante cose che ho letto in questi giorni sull’argomento, il suo mi è piaciuto in particolare, forse perchè leggendolo mi sono rivisto nella sua esperienza di tifoso. Pensi che sto cercando di scrivere un libro di un “anno vissuto col Bologna nel cuore”, concepito descrivendo gli stati d’animo respirati sui gradoni dello stadio, nelle autostrade, nei piazziali antistanti gli stadi di tutta Italia, al seguito della squadra della mia città, in un anno difficile da sopportare. Guardandolo dall’esterno, tenendo a bada un figlio sedicenne, comprensibilmente attratto dalla trasgressione, vedo un mondo, quello ultras, molto articolato, ma soprattutto espressione, oltre che del tifo calcistico, dell’esasperazione che contraddistingue il mondo in cui viviamo.
    Mi è piaciuto a tal punto il suo pezzo che ho pensato di inserirlo, virgolettato, all’interno del mio scritto, commentando nel finale che evidentemente è possibile guarire dal tifo da stadio, ma che io sono ancora lontano da risultati apprezzabili.

    da Baratta Caludio   - giovedì, 8 maggio 2014 alle 13:24

  5. Chiedo scusa per la faccia di bronzo ma, essendo in argomento, mi permetto di segnalare che su http://www.lulu.com ho “pubblicato” le mie memorie di tifoso con il titolo “storia di un ex tifoso”.
    Ho ancora in casa qualche copia cartacea che sarei felice di spedire a chi mi onorasse della richiesta.
    Grazie dell’attenzione e ancora mille scuse.

    da Massimo Camiciottoli   - giovedì, 8 maggio 2014 alle 16:39

  6. Robecchi, grazie: questo per me è un favoloso assist!…
    Lo dico subito, così mi tolgo il pensiero: il tifoso è un idiota. E nemmeno un idiota utile, come spesso si usa dire in politica; no, del tutto inutile, anzi spesso dannoso…
    Bene, ora che l’ho detto (e prima che qualcuno provi a percuotermi con un nodoso randello…) posso provare ad operare dei sottili distinguo.Comincio subito col dire che non ce l’ho con il tifoso tout court, ce l’ho (e tenterò di spiegare il perché) con il tifoso “organizzato”. Ce l’ho con lui perché suscita in me un misto di compassione e rabbia, un mix di pietà e ribrezzo, insomma, quello che provavo quando vedevo in tv Luca Giurato. Ce l’ho con lui perché, non pago di avermi rotto le palle, e parecchio, rovinandomi spesso lo spettacolo allo stadio (o impedendomi di vederlo dal vivo, causa squalifica da lui provocata) ora rischia di rompermi il giocattolo, facendomi passare per sempre la voglia di andarci, allo stadio. Adesso infatti per colpa sua, dell’organizzato, quando voglio andare alla partita devo essere schedato come un delinquente, devo dare nome, cognome, indirizzo, presto il gruppo sanguigno (non si sa mai, metti che ti accoltellano?), il segno zodiacale e le abitudini sessuali. Ce l’ho con lui perché, piano piano, e con la disattenzione dei media (quando non addirittura con la loro assurda complicità) lui è diventato il paradigma del “vero” tifoso, quello che lui sì ama la sua squadra, ne vive gioie e dolori con la dovuta intensità, quasi in simbiosi. E io, invece, no, uno schifoso parassita…
    Ma quando mai? Cosa fa di speciale costui per meritarsi una simile patente?…
    Credo sia il caso di analizzare la cosa, perché questo, lo vedrete, è il punto di partenza di una serie di giganteschi equivoci che ci hanno portati ormai vicinissimi al punto di non ritorno…
    Allora, cosa fa di così prezioso ed insostituibile “l’organizzato” che io (come il 95% di quelli che frequentano uno stadio, del resto) non faccio? Quale inestimabile aiuto offre alla compagine per la quale batte il suo cuore da riuscire a fare in modo che una esigua minoranza di esagitati della quale lui fa parte assuma una tale importanza, a scapito della maggioranza (non sempre silenziosa, anzi) e addirittura degli stessi attori in maglietta e pantaloncini?…
    Vediamo un po’…
    L’organizzato, tanto per cominciare, presidia militarmente il territorio. Il suo luogo di aggregazione, la curva, è zona off limits per chiunque non la pensi come lui e non ne condivida metodi e fini. Chi ci va, sa cosa lo aspetta. Se mai io, un non organizzato, volessi (o dovessi, per mancanza di denaro e conseguente impossibilità di pagarmi un posto migliore) entrare in quell’organizzatissimo perimetro per vedermi una partita lì, mi troverei di fronte a delle insormontabili difficoltà. Provo ad elencare le prime tre che mi vengono in mente, così, d’acchito. Primo, dovrei stare in piedi per novanta minuti. E la cosa, perdonatemi, è francamente ridicola. Ora, è vero che ormai ho passato i cinquanta e di conseguenza mi piace concedermi qualche comodità, ma nemmeno quando ne avevo venti amavo stare in piedi per vedere 22 uomini in mutande che prendono a calci una palla. Perché non posso tifare per la mia squadra stando seduto, e alzandomi quando lo svolgimento del gioco me lo suggerisce o me lo impone? Perché mai, per essere un “vero” tifoso, devo rinunciare ad avere il culo appoggiato su qualcosa? Secondo, dovrei cantare. Insomma, non basta che io applauda, fischi, magari tiri dei mostruosi porconi (a arbitri, avversari, financo a coloro che, in teoria, dovrei idolatrare), no, devo partecipare ai cori, manco fossi al karaoke. Ma a che scopo, di grazia? Forse Cambiasso gioca meglio se sente cantare “Noi vogliamo questa vittoria”? Perché, lui non la vuole, quella vittoria? Ha bisogno che gli venga ricordato in musica il motivo per cui è lautamente pagato? E’ lì, sul prato di San Siro, per passare la domenica, perché non sa che altro di meglio fare? Terzo, dovrei fare la “coreografia”. Il che, se possibile, è ancora più ridicolo delle altre due cose appena citate messe insieme. Intanto, se non altro per amore della precisione, si dovrebbe al più parlare di “scenografia”, visto che non mi risulta che nessuno dei figuranti impegnati si trastulli con dei balli. In secondo luogo, di nuovo, perché? Forse Nagatomo diventa più forte di Roberto Carlos quando vede il lenzuolone nerazzurro ricoprire tutto il secondo anello verde? I suoi cross (ammesso e non concesso che trovi la forza di giungere alla riga di fondo) acquistano dopo quella celestiale visione maggior forza e precisione?
    Bene, per fare tutte queste cose (mi permetto di ribadire, una più cretina dell’altra) oltre ad arrivare allo stadio almeno due ore prima della partita (perché, a quanto pare, se arrivi al tuo posto cinque minuti prima del fischio d’inizio fai parte di quello che i cori di cui al punto due definiscono un “pubblico di merda”), dovrei anche ubbidire ai “capi” della curva. E qui la domanda, più lubranesca che mai, sorge spontanea: perché per sostenere la mia squadra del cuore (o del fegato, a seconda di come vanno le cose) devo avere un capo, qualcuno che mi dice (anzi, mi impone) di fare e dire certe cose? E poi, perché quello è il capo? Quali straordinarie doti ha mai dimostrato di possedere per potermi guidare nel difficile e faticoso cammino di supporter? Si è dimostrato il più bravo ad urlare in un megafono? Ci sono state le primarie e lui le ha vinte? Oppure ha ricevuto l’investitura solenne dal precedente capo, andato in pensione con tutti gli onori? Applica lo ius primae noctis alle tifose? Nel caso, come si studia da capo? Quando penso ai tifosi, quelli “organizzati”, mi viene sempre in mente la donna del circo, quella che accompagna il giocoliere e al termine del suo numero si inchina per raccogliere gli applausi. E perché te li prendi, quegli applausi? Non hai fatto un tubazzo, porca la miseria, ha fatto tutto lui! Ecco, proprio come lei, infatti, i tifosi vogliono prendersi parte del merito, quando non tutto, dello spettacolo che va in scena sul rettangolo di gioco, più o meno verde. Probabilmente convinti che la gente paghi decine e decine di euro per vedere le loro “coreografie” o per sentire i loro cori trucidi, e non per vedere giocare a calcio, questi simpatici soggetti prendono possesso degli stadi e reclamano a gran voce la loro parte di protagonismo. Anche perché tutti si fanno in quattro per confermare la loro vanità. Già, pur rappresentando all’interno dello stadio una assoluta minoranza (e pure infima, sotto molti punti di vista), i tifosi “organizzati” sembrano essere gli unici ad avere una dignità, e giocatori, allenatori, presidenti, giornali, tv, fanno a gara per esaltare il loro insostituibile contributo.
    Già, il “dodicesimo uomo in campo”. Già, i “nostri meravigliosi tifosi”. Già, “i ragazzi della curva”. Come se non si potesse giocare senza di loro. In tv, prima del calcio d’inizio mostrano (magnificandole) le varie “coreografie” con i soliti lenzuoloni che scendono a coprire le gradinate. Mostrano gli striscioni lunghi cinquanta metri, con i loro intensi messaggi (tipo “Giustizia per i diffidati”, ad esempio). Mostrano anche i fumogeni, che hanno l’unico bizzarro risultato di far iniziare lo spettacolo (quello vero, quello sul campo) con due o tre minuti di ritardo. Wow, che meraviglia! Come? Causa il fumo non hai visto il primo gol? Beh, dai, pazienza, smettila di lamentarti, brutto disfattista che non sei altro, non hai visto com’erano suggestivi quei colori? E loro, ovviamente, si gasano e se la tirano. “Abbiamo vinto”, dicono, perché quando si vince, è ovvio, i calciatori hanno percepito tutto il calore e l’affetto che scendevano copiosi dagli spalti (ovviamente, solo da “quella” parte degli spalti) e li hanno tradotti in azione e risultato. E, naturalmente, “hanno perso”, sostengono, perché quando si perde quei brutti lavativi, lazzaroni e traditori, non hanno “onorato la maglia”, come invece la onorano loro, ad esempio accendendo i suddetti fumogeni e tirando oggetti in campo. Perché loro, i “veri” tifosi, passano tutta la settimana a preparare striscioni e cori, si fanno un culo così, mica come me che alla partita comincio a pensarci la domenica prima di pranzo (specie se si tratta “solo” di un Inter-Cagliari), e tanto per capire quanto tempo prima mi devo muovere da casa, o al più il sabato quando compilo la schedina. E mica come quei bamboccioni ricchi e viziati che lavorano un paio di orette al giorno (questo solo quando poi vincono; quando perdono un possente coro li invita ad andare a lavorare per davvero) e poi passano le serate in discoteca a trombasi veline, letterine e paperelle, e poi per forza la domenica non corrono e sbagliano dei gol già fatti. Loro sì, i veri tifosi, che amano davvero la loro squadra, loro sì che non l’abbandonano mai, la loro è una fede, e vivono per quella. Loro partono all’alba e tornano a notte fonda. Anche se, in fondo, nessuno gli ha mai chiesto un tale sacrificio.
    Ora, potessi rivolgermi a uno di questi strani individui mi permetterei di dirgli che quando una squadra di calcio è la cosa più importante della tua vita è evidente che la tua vita deve per forza essere una gran vita di merda. Voglio dire, nessuno ti obbliga ad andare a vedere tutte le partite, in casa e in trasferta, con qualsiasi tempo il buon Dio mandi in terra, per poi appuntarti da solo sul petto la medaglia della fedeltà assoluta. Non è un lavoro, è solo un divertimento, e che ti costa pure fior di soldi (ammesso e non concesso che qualcuno non paghi il divertimento in tua vece: e agli “organizzati” capita, fortunelli che non sono altro). Ascolta, non te l’ha mica ordinato il dottore di presenziare anche alle partite della squadra primavera o a tutte le amichevoli estive, pianificando le tue ferie in base alla sede del ritiro, no? E soprattutto il medesimo dottore, se tu lo avessi interpellato, avrebbe potuto dirti che non ha alcun senso mangiarsi il fegato in quel modo, tutte le domeniche (nonché gli impegni infrasettimanali): ti fai solo del male. E’ mai possibile che mai nessun dubbio giunga ad incrinare la tua granitica convinzione di essere “importante”, quando non addirittura “fondamentale” per le magnifiche sorti dei tuoi colori? Nemmeno quella volta che per “punire” la squadra tu e i tuoi amici avete fatto lo “sciopero del tifo” (non è un ossimoro: potete farlo, visto che avete trasformato un hobby in un lavoro a tempo pieno), pagando il biglietto e restando fuori dallo stadio per i primi quindici minuti in segno di protesta e quei vigliacchi disgraziati e senza riconoscenza, senza voi lì a sostenerli, in quei quindici minuti hanno picchiato dentro due gol? Cavolo, ma come è potuto succedere? Come si sono permessi, quegli stronzi? Insomma, passino le occasioni speciali (e tristissime) come il 5 maggio (o tanto per capirci, Istanbul, sull’altra sponda), in giornate come quelle si può anche piangere e non vergognarsi, ma infliggersi dolore (un dolore ulteriore, oltre a quello già insito nella natura delle cose calcistiche) per 40 e passa volte all’anno, solo per potersene poi lamentare ed accampare pretese (e magari chiedere “un confronto” con i calciatori per “chiedere spiegazioni”) è stupido, ancor prima che masochistico. Ok, è vero, non ho potuto fare a meno di notarlo: quando i giocatori entrano in campo ti salutano (ma credimi, non provo alcuna invidia al riguardo, vivo benissimo anche se quella banda di extracomunitari in pigiama nerazzurro agita le mani solo verso il secondo anello verde e si dimentica di me nel secondo arancio), ti fanno anche un applauso, ma sappi che ti considerano comunque una nullità, per quanto potenzialmente pericolosa (o chissà, forse è proprio questo il vero motivo di tanti salamelecchi). Insomma, ti regalano il tuo bell’osso e tu scodinzoli felice, ti senti importante, i tuoi idoli ti considerano, sono consci della tua presenza, magari ti amano. Ora, ammesso (e non concesso) che sia vero, vorrei solo ricordarti che io ho fatto l’abbonamento per vedere loro e non te, e sono comunque sempre e solo loro quelli che fanno vincere o perdere le partite, non tu ed i tuoi amici, con i vostri cori e i vostri (qualche volta magari anche simpatici, per carità) striscioni. Anche perché, a quel punto, non si capirebbe davvero perché Thohir non stia pensando di ingaggiare quarantamila emuli di Toni Dallara, invece di acquistare dei nuovi giocatori. Ma forse dovrei rivolgermi anche alle società, ai signori Galliani, Ausilio e compagnia bella, per dirgli che se anche loro pensano che quelli siano i “veri” tifosi forse stanno sbagliando i loro calcoli (cosa non nuovissima, tra l’altro): io il biglietto, quando vado allo stadio, lo pago sempre, nessuno mi fa entrare gratis; io compro la maglia originale della Nike a mia figlia; io non fermo il pullman della squadra quando arriva allo stadio pretendendo di salirci per “invitare” i giocatori della mia squadra a “fare il loro dovere”; io non butto petardi in campo; io non costo alla mia squadra squalifiche del campo (con la conseguenza di costringere cinquantamila persone innocenti a farsi trecento chilometri in più, se vogliono vedere quella partita) e decine di migliaia di euro di multe ogni anno. Vedano un po’ lor signori…
    (e scusate la prolissità, ma mi volevo sfogare)

    da Massimo   - giovedì, 8 maggio 2014 alle 17:23

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