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ago 13

Vacanze, fabbrica, diritti. Quando il mondo stava tutto sul nostro portapacchi

“La nostalgia non è più quella di un tempo”, diceva Simone Signoret. Bello e poetico.
Ma poi.
Niente è più quello un tempo, nemmeno le città e nemmeno le fabbriche, e quindi nemmeno le vacanze. Che quando le fabbriche erano il sistema nervoso delle città – parlo del Grande Nord, Milano, Torino, Genova, il famoso triangolo che fu industriale – erano tregua e sospensione. Quando le fabbriche erano nervi e sangue, quando dettavano il ritmo, arrivava il giorno che quel ritmo si fermava. Notizia nazionale, lo diceva il telegiornale: “La Fiat ha annunciato la chiusura degli stabilimenti per la pausa estiva…”.
E le altre grandi fabbriche con lei.
Così, chiudeva Torino, chiudeva Milano, chiudevano le città-fabbrica, chiudevano le tapparelle dei casermoni, gli appartamenti, i negozi.
I padri chiudevano le macchine come si chiude una valigia troppo piena, forzando sportelli e bagagliai. Si caricavano pacchi, borse, monumentali tavolini da picnic, fasciatoi se c’era un neonato a bordo.
Ai tempi delle fabbriche, tra l’altro, le vacanze si chiamavano ferie, una voce della busta paga, un diritto, un cessate il fuoco.

Se si fa l’elenco delle cose che non sono più quelle di un tempo non si finisce più, è vero. Ma in quelle macchine stracariche c’erano anche cose preziose. L’ansia della fuga. Bella, eh, Milano, ma via, via!, appena si può.
E poi c’era la certezza del ritorno. Il lavoro, metà benedizione e metà condanna, si sapeva di ritrovarlo, insieme ai turni, ai colleghi, al cartellino da timbrare, alle lotte e alle vertenze.
Quelle macchine di lamierone tagliente, senza poggiatesta, senza air-bag, senza cinture di sicurezza, senza aria condizionata, contenevano certezze che le filanti carrozzerie antiurto di oggi non possono contenere. I grandi fumavano, incuranti della presenza dei bambini. Provate a farlo oggi, e vostra moglie vi fa trovare gli avvocati al casello.
Avevano, le macchine lussuose, le Alfa Romeo, le 131 Mirafiori, spaventosi sedili in fintapelle che già al casello di Melegnano ti si incollavano alle chiappe. I finestrini aperti, i bambini che al sesto chilometro chiedevano “Quanto manca?”. E poi gli assalti da commando agli autogrill, uno a far la fila per i panini stoppacciosi, uno al telefono, armato di pazienza e gettoni, ad avvertire i nonni: “Sì, abbiamo fatto già cento chilometri! Ci vediamo questa sera!”. Ed era da poco passata l’alba. Gli altri correvano al cesso.

Ma cos’è questa nostalgia canaglia? Un patetico come eravamo? L’amarissima verità che avevamo dieci, quindici anni, invece di quaranta o cinquanta? O il sapore di madleine proustiana in forma di benzina super, cocomeri da mettere al fresco sotto l’acqua corrente, fratellini presi dalle convulsioni del vomito per le troppe curve?
E’ che spesso non si andava solo in un posto, ma si andava da gente, persone, parenti. Comunità che si riunivano a un ordine della fabbrica: “Libera uscita, potete tornare dai vostri cari per due settimane”. Era il rito della migrazione interna ripetuto, riveduto e corretto. Con il portapacchi sul tetto, andata e ritorno in quindici giorni, racconti epici, stazioni ferroviarie che sembravano balzate fuori dai film neorealisti.
I telegiornali non parlavano del caldo, era estate, cazzo, faceva caldo e basta.

Era un rito di scontri e incontri sociali. I parenti del Nord, impiegati, operai. I residenti del Sud, o della montagna, o della campagna, stanziali e ammirati da quel ritorno periodico, festoso, a quella che per loro era una vita normale. Arrivavano nipoti, fratelli, cugini. Si scaricavano le macchine, dopo l’arrivo annunciato dai clacson, si consegnavano regali, era una specie di evento. Vecchi e giovani uscivano da quelle scatole di lamiera rattrappiti, stanchi, sudati. Recavano dalle città-fabbrica i loro incredibili progressi: un nuovo modo di portare i capelli, vestiti strani, mode che quei cinque-sei-ottocento chilometri percorsi tra autostrade e statali e provinciali non li avevano ancora fatti.
Il lavoro era un diritto. Che si sarebbe ritrovata la fabbrica, tornando, era scontato e ovvio.
Poi quel diritto cominciò a traballare, poi a smarrirsi. Un giovane, oggi, uno che saltabecca tra un contrattino e l’altro, non ha motivo di condensare nei quindici giorni più afosi dell’anno le sue vacanze. Non sa se partendo ritroverà il suo lavoro al ritorno. Le sue ferie sono gli slalom tra paletti co.co.pro, e il rito della partenza non ha più motivo di essere.
Con il che, vedete, non è solo nostalgia per la cerimonia della partenza, per le sue assurdità fantozziane, per il suo fascino di migrazione di massa.
Si è perso il rito perché si sono persi diritti che dettavano quel rito. Perché la certezza di ritrovare la fabbrica – che pure restava un posto di merda, pericoloso, faticoso, soffocante – voleva dire tutte le altre certezze.
Ora che partiamo con l’aria condizionata, quelle certezze non le abbiamo più.

E poi si tornava. Tutto uguale, ma al contrario, con il percorso inverso. Se ti piazzavi sulle grandi arterie urbane che accoglievano il flusso dell’autostrada potevi vedere la famiglia Joad (John Steinbeck, Furore, 1939) che arrivava in California. Le damigiane sui tetti, i materassi, le sporte di frutta e verdura e formaggi, le casse di vino, l’olio, le olive. La vacanza era anche questo scambio: si portava fuori dalla città un modo di vivere, una modernità, e si riportava indietro cibo buono, barattoli di passata di pomodoro, nostalgie, amorazzi da spiaggia, promesse di lettere che tanto nessuno avrebbe scritto.
Oggi si fa “mi piace” si Facebook, che è più comodo, non sporca, non impegna, sembra indelebile ma non resta. 

E poi c’era il rito mortale, pallosissimo, estenuante, dei racconti, dei riassunti, delle fotografie, delle diapositive. Qui è Positano, ma pioveva. Qui le Dolomiti, abbiamo mangiato il capriolo.
E subito riprendevano i ritmi, settembre si ritirava come la risacca e poi era già tutto più grigio, perché così, come chiudeva all’improvviso, totalmente e per tutti, la fabbrica riapriva, totalmente e per tutti.
E la città pure, e i negozi, e le tapparelle dei casermoni.
E così il rito si compiva all’inverso, era già tempo di scuola, di quaderni, di turni, di sveglie puntate presto, di rincorse all’autobus. Tempo di ufficio, o di fabbrica, dopo la parentesi delle vacanze che ci si sarebbe portati appresso come una nostalgia più piccola, annuale, rinnovabile, attesa. Fino alle prossime ferie.
Quando di nuovo il rito si sarebbe risvegliato e compiuto. Quando la fabbrica avrebbe chiuso di nuovo.
Per ferie.
Non per la crisi, la finanza internazionale che mangia il lavoro, la congiuntura, la scalata di Detroit, la globalizzazione, l’arroganza del padrone, la retorica dell’operaio oggetto antico, i mercati, la Cina, l’erosione dei diritti, la stanchezza delle lotte.
Solo per ferie.

5 commenti »

5 Commenti a “Vacanze, fabbrica, diritti. Quando il mondo stava tutto sul nostro portapacchi”

  1. Che bello! Naif e bello. Malinconico, anzi metamalinconico. Il tempo dei diritti e di un progresso ancora umano, senza facebook, senza cellulari, senza la pretesa di essere in contatto 24 ore su 24, che poi significa essere molto più soli perché ti accorgi anche che quelle 24 ore di vicinanza virtuale son proprio quello, vicinanza virtuale, niente di più. La certezza del lavoro, poi, chi ce l’ha più? Credo nessuno di coloro che ancora lavorano.
    Un’altra cosa, Agosto è il mese più malinconico dell’anno, altro che! Forse lo era anche quando si seguivano i riti, forse, un poco. Ora è pura malinconia, sarà anche per l’età. Settembre, poi, lo toglierei dal calendario, dritti in ottobre. Sotto la pioggia :-( :-)

    da Tiziana   - lunedì, 5 agosto 2013 alle 11:10

  2. Sarà che ne ho appena compiuti cinquanta, ma ho incominciato a commuovermi leggendo dei gettoni telefonici…
    Ed al capriolo mangiato sulle Dolomiti, ripensando agli amorazzi da spiaggia mentre a Positano pioveva, mi sono venuti gli occhi lucidi, come i sedili fintapelle della 131…
    Ebbene sì, allora non avevano ancora ribattezzato il tremendo anticiclone Stige che, molto ben più del Caronte, provenendo dal Sahara attanaglia le nostre città nella spaventosa morsa dell’afa di questi giorni, con il caldo percepito che si issa sino a 43 gradi nei termometri, costringendo i meteorologi ad appioppare bollini paonazzi a 15 città italiane ed i dietologi a consigliare di bere almeno 2 litri di acqua al giorno, evitando di ingozzarsi di fritti, grassi e salumi piccanti; gelati sì, ma senza esagerare, preferibilmente al gusto di frutta; ecc, ecc, ecc…
    Faceva caldo, cazzo. E basta.

    da degiom   - lunedì, 5 agosto 2013 alle 11:26

  3. poesia alla stato puro.

    da stella   - lunedì, 5 agosto 2013 alle 13:22

  4. Stupendo.
    Se trovo il coraggio lo ribloggo

    da paola   - lunedì, 5 agosto 2013 alle 21:37

  5. Robecchi=il piacere della lettura viva

    da adele5   - martedì, 6 agosto 2013 alle 06:07

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