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sab
3
mar 07

John Belushi in missione per conto di Dio

“La maggior parte delle celebrità finiscono su un piedestallo. John invece finì su uno sgabello da bar, e tutti nel paese si misero in coda per pagare il prossimo giro”

(Judith Belushi Pisano).

Trent’anni fa. Il 5 marzo del 1982, poco dopo mezzogiorno, John Belushi viene trovato morto in una stanza del Chateau Marmont Hotel, su Sunset Boulevard, Los Angeles.

Ha trentatré anni, è il più talentuoso artista in circolazione, è l’attore che vende più biglietti al cinema, è il musicista da primo posto in classifica, è la star dello show tivù più visto, è l’albanese più famoso nel mondo, è fratello Jack nei Blues Brothers e potrebbe anche bastare questo. Se ne sta accucciato sul letto, stecchito per un mix di eroina e cocaina che non si saprà mai quanto voluto e quanto accidentale. La signorina che gli ha dato la roba si farà qualche mese di galera e venderà la storia ai giornali. Tanto per dire che siamo pur sempre a Hollywood.

 

 

 

E’ una cosa che fa incazzare. Mediamente sentiamo e vediamo robetta appena più che mediocre. Quindi stringe il cuore pensare a quali altre cose di Cobain, o di Hendrix, o di James Dean, o Lennon avremmo potuto vedere e sentire. Semplicemente: ci mancano. E John Belushi ci manca tantissimo. Aveva 33 anni.

 

 

 

Fu un caso unico? Un allineamento di pianeti? La mano dell’Ingegnere Cosmico? Il 1978 è una cosa pazzesca. Animal House esce in luglio. Doveva essere un filmetto per adolescenti, una cosa diversa, ma non molto altro. Belushi, con qualche comparsata al Saturday Night Show è l’unico noto in un cast di sconosciuti. Non solo il film va in testa alla classifica, non solo è la commedia che incassa di più nella storia (fino ad allora), ma le sale in cui si proietta diventano party indiavolati, gironi danteschi, battaglie con lancio di cibo, fiumi di birra, ragazzi e ragazze in toga come nel toga-party del film. Bluto Blutarsky è un eroe popolare.

Passano solo due mesi. Il 9 settembre i Blues Brothers aprono lo spettacolo di Steve Martin all’Universal Amphiteater di Los Angeles, davanti a settemila persone che vanno in delirio. Una banda scintillante, una delle più grandi cover band mai esistite, “il più grande gruppo blues messo in piedi da un bianco”. Sei mesi dopo la banda di Belushi e Aykroyd (ma anche di Paul Shaffer e di tutti gli altri fratelli) ha un album (A briefcase full of blues) al primo posto nelle classifiche di Billboard.

 

 

 

Che sta succedendo? Ragazzi bianchi americani vanno ai concerti blues vestiti con

la toga. Oppure si mettono giacche, cappelli neri e occhiali scuri. Fratello Jack dei Blues Brothers si mischia con Bluto, l’adolescente-animale di Animal House, Dietro, c’è questo tipo frenetico e geniale che si chiama John Belushi, uno che diventa non una ma due star nello stesso anno. Anzi tre, perché Belushi, con Aykroyd o senza, diventa anche la stella del Saturday Night Show. Guardatevi su You tube la sua imitazione di Joe Cocker in duetto con Joe Cocker. Guardatevi le avventure dell’Enterprise di Capitan Kirk inseguita per la galassie dai creditori. Guardate King Bee, l’ape da una tonnellata.

 

 

 

Insomma, cosa diavolo aveva John Belushi per fare tutto questo, per essere tutto questo? Era semplicemente una palla da bowling lanciata alla massima velocità, che travolgeva tutto. Semplicemente, uno che cambiava le cose, un ciclone.

 

 

 

In un parodia di film dell’orrore allo show del sabato sera c’era uno sketch intitolato La cosa che non voleva andarsene. La cosa era John. Quell’amico che si installa sul tuo divano e non se ne va più. Non capisce quando gli dici che è ora di andare a dormire. Telefona, mette i tuoi dischi, alle tre di mattina dice, facciamoci un goccetto, ce l’hai un panino?, giochiamo a carte. E’ la cosa che non voleva andarsene. Secondo gli sceneggiatori John avrebbe dovuto mettere degli artigli finti, avrebbe fatto più surreale, più fantascienza. Ma John si oppose: più fantascienza della sua faccia? Più surreale di lui? La cosa che non voleva andarsene la conosciamo tutti, ci è capitata almeno una volta nella vita. John faceva semplicemente John, cioè recitava e si inventava un personaggio nuovo, e poi era quello. Punto e basta.

Voleva la parte del capitano Kirk di Star Trek nello sketch del sabato sera. La voleva nel modo irriducibile con cui bambini vogliono le cose, lo voleva al punto da tagliarsi le basette a punta come il capitano Kirk, e nella vita normale, negli altri show, nel resto della trasmissione, a casa, se le copriva col cerone per farle sembrare normali. Non è un dettaglio da poco: John si travestiva fuori dal set ed era invece “vero” quando andava in onda. Durante le prove fu un disastro. Poi, in dieci minuti, in diretta fu semplicemente strepitoso. “Il palco è l’unico posto dove so quello che faccio”. Diceva, e questo che cantasse il blues in un piccolo club o si schiacciasse lattine di birra sulla testa, che recitasse Shakespeare al liceo o facesse il samurai pazzo nel prime-time del sabato sera.

 

 

 

Forse l’allineamento dei pianeti, quella immensa esplosione, dipende anche da un allineamento di persone. John, Dan Aykroyd, John Landis e tanti altri si trovarono a fare esattamente quello che volevano fare, con le persone con cui lo volevano fare, nel momento in cui lo volevano fare. Volevano fare una banda di blues. Volevano distillare surrealismo, volevano fare

la commedia. Lo facevano ed ogni volta era un trionfo. Quando Mick Jagger va a vedere i Blues Brothers in concerto si aspetta qualcosa di dilettantesco e demenziale e rimane a bocca aperta: quello è un gruppo blues coi fiocchi. John fa veramente quelle piroette sul palco, Dan suona veramente l’armonica. Più o meno è quello che succede ai genii quando li lasci liberi. John e Jagger parlarono fitto dopo lo show. Non “fare il musicista”, ma essere accettato come tale fu il premio migliore per John.

Per firmare il contratto dei Blues Brothers, il film, bastò una telefonata di pochi minuti: Aykroyd telefonò al produttore, gli disse la storia e mise giù

la cornetta. Non serviva altro.

 

 

 

Fin qui tutto bene, ma alla domanda ancora non abbiamo risposto. Perché ci manca John Belushi? Semplicemente perché almeno in un’occasione, almeno in un istante, almeno una volta nella vita, ci ha fatto vedere una cosa che avremmo voluto fare noi e addirittura – pazzesco – che avremmo potuto fare noi. Una cosa assolutamente folle. Una ribellione dadaista, un gesto situazionista. Una battaglia di panini masticati, una festa senza freni, un inseguimento in macchina, un concerto che ti fa venire la pelle d’oca, un atto di ribellione totale. Una dichiarazione al tempo stesso folle e tempestosa che la battaglia non è mai finita: “E’ forse finita quando i tedeschi bombardarono Pearl Harbour?”. Ammetterete che c’è del sublime.

 

 

 

Belushi è un gioco di specchi talmente frenetico che fai fatica a stargli dietro. Così sul palco e così nella vita. La biografia corale che gli dedica

la moglie Judith Belushi Pisano (Belushi, Rizzoli) è tutta una rincorsa. Di amici che ricordano dettagli e particolari, del tentativo di John di far coincidere tutti quei John che si rincorrevano tra loro in cerca del vero Belushi, un impasto di Jack Blues, di Bluto Blutarsky, di punk e dadaismo, di provocazione e tecnica, arte pura difficile da comprimere in una faccia sola. Molto, molto diversa dalla biografia che gli dedicò Bob Woodward (John Belushi, Frassinelli) dove John sembrava soltanto un genio inquieto. Sul calare del sipario, angosciato, sperduto, con gli amici e le major che gli affibbiavano guardiani e controllori per stare attenti che non si facesse, che non ci restasse secco.

John era una specie di pentola a pressione sempre sul punto di esplodere, e non era un pezzettino che si incastra facilmente nel posto che gli hanno assegnato.

Quando girava I vicini di casa, lui e Aykroyd erano arrivati a odiare profondamente il regista del film, John Avildsen. L’aria era irrespirabile, si arrivò a girare ogni scena due volte: come la voleva il regista e come

la voleva John. Lui e Dan si informarono su quanto costava ingaggiare un killer per uccidere Avildsen: cinquemila dollari. Naturalmente non se ne fece niente, ma John era stupefatto: “Cinquemila dollari, ma è un affarone. Dico, è come comprare un’auto usata”. Chiaro come il sole che Aykroyd doveva essere il vicino normale e John invece il pazzo scatenato. Decisero loro di scambiarsi i ruoli, di rovesciare tutto, perché rovesciare quello che la gente si aspetta è la prima molla della comicità e della satira. Chi si aspettava un adolescente ribelle aveva dovuto ricredersi con Chiamami Aquila, e ora si ritrovava un Belushi perfettamente piccolo-borghese alle prese nientemeno che con l’eversione (nei panni di Dan).

 

 

 

Forse tutto questo spiega perché John Belushi ci manca non come un attore, ma come una rockstar. E non è una differenza da poco. Anche se alla fine fece soltanto una manciata di film, la sua impronta è rimasta indelebile, e non solo perché ha fatto qualche film indelebile. Semplicemente era uno capace di contagiarti, e questa trasmissione di emozioni è l’unico vero e reale incrocio tra un buon attore, un buon musicista e in generale un buon genio. Era nato a Chicago, Sweet Home, era vissuto nei sobborghi, aveva giocato a football e recitato e aveva avuto borse di studio per tutto questo. Aveva voluto più cose di quante un essere umano normale possa reggerne, e le aveva avute tutte. E forse era davvero qui “in missione per conto di Dio”. Quando Bill Wallace lo trovò morto nel letto della sua stanza al Chateau Marmont Hotel, gli stava portando una macchina da scrivere, perché John voleva scrivere delle cose, mica starsene lì morto stecchito a non fare niente. A non fare più John Belushi.

 

 

 

Volle un funerale vichingo. Lo seppellirono a Marta’s Vineyard, l’unico posto dove John aveva dormito davvero bene, al cimitero di Abel’s Hill, dove si seppellivano (dice Aykroyd) “tutti i cacciatori di balene, gli indiani, i contrabbandieri e i pirati”. Il corteo funebre fu aperto da Aykroyd in moto, che faceva più rumore possibile, dietro stava la Bluesmobile e poi tutto il corteo di macchine, amici e parenti. Dovevano partire tutti in fretta, o la bufera di neve li avrebbe bloccati sull’isola. James Taylor cantò un canzone, poi si fece un breve rinfresco e poi se ne andarono tutti. Senza John.

La cosa che non voleva andarsene se n’era andata.

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