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sab
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feb 07

Bobby, che peccato…

Giornata lunga, il 4 giugno del ’68. Le primarie in California, la vittoria di Robert Kennedy, Bobby, il discorso di ringraziamento, e poi, mentre attraversa le cucine di un grande albergo, quella pallottola in testa, urla e feriti. E così si seppellì un altro Kennedy, un’altra America, che dopo non c’è stata più.
Se andate adesso su Wilshire Boulevard, a L.A., ci trovare un cantiere. Lì c’era l’Ambassador, albergone mozzafiato per star di Hollywood e presidenti. Un posto antico, un’eleganza di tende, tappeti e legni lucidissimi, che nel ’68 già mostrava segni di maestosa decadenza. Un posto da dove era passata la dolce vita di Hollywood, quella vera, tra i Trenta e i Quaranta, un’istituzione di quell’America ricca e potente che sapeva spassarsela alla grande. E il night dell’Ambassador era il Coconut Groove, tanto per attenersi a nomi e posti leggendari. Insomma, l’Ambassador, il luogo del delitto.

Proprio lì, in quel che rimaneva in piedi dell’Ambassador, Emilio Estevez ha girato il suo film su Bobby, anche se come ha detto lui “stavano già buttando giù i muri”. Una corsa contro il tempo. In pratica, mentre Estevez raccontava le ultime ore di Bobby, approfittava delle ultime ore dell’Ambassador, la scena del delitto messa al tappeto dalle ruspe. Se su Wilshire Boulevard ci passerete tra un anno, al posto del cantiere vedrete un moderno complesso scolastico, intitolato proprio a Robert Kennedy, e sono i testacoda della storia.

E’ bellissimo, il film di Estevez, che naturalmente è più di un omaggio a Robert Kennedy: è piuttosto un corale rimpianto per quello che avrebbe potuto succedere con lui, un’adesione ideale. Estevez non lo nasconde, di rimpiangere Bobby, di rimpiangere quello che l’Amrica avrebbe potuto diventare. E lo strabiliante cast che ha lavorato al film (Sharon Stone, Demi Moore, Hellen Hunt, Christian Slater, Harry Belafonte, Anthony Hopkins, Elijah Wood, Laurence Fishburne, Martin Sheen e altri) sta lì a dire che a tutti manca Bobby, e che pure per questo Bobby è un film politico. Eppure Kennedy, fatte salve le scene finali e pochi sapienti inserti documentaristici, quasi non si vede, nel film. Si sa, si capisce, se ne sente il sapore attraverso altre vite, altre storie, si sa che qualcosa deve accadere.

“Il momento che vedete sullo schermo è il momento che ha cambiato per sempre non soltanto la storia della nostra nazione, ma il corso di tutta la storia umana”, dice Harry Belafonte. E Charlie Sheen: “Credo che sia importante per noi rendere omaggio agli eroi”. Da tutti gli altri attori vengono dichiarazioni affettuose per Bobby, per quel momento in cui una grande speranza venne stesa a pistolettate. E’ ovvio che sia così: la fotografia dell’America di oggi, con altre luci, altre musiche e altre facce, obbliga al paragone con quella speranza, e non è un paragone favorevole. Bobby è un film del rimpianto, il racconto corale di una grande occasione perduta.

Non è questione di nostalgie. Naturalmente Robert Kennedy non c’è più, non c’è più nemmeno l’Ambassador, non c’è più quell’America che Estevez ci fa vedere nella giornata del 4 giugno del ’68. Tanti pezzettini di storie di America, à la Altman, per intenderci. Storie intrecciate di gente che aspetta Bobby per il discorso. Gente che beve, si fa gli acidi, si sposa per non andare in Vietnam, tradisce la moglie, spera, campa, tifa per per Don Drysdale, dei Dodgers, che proprio quella sera stabilisce il suo record. Una giornata da americani normali con speranze normali, e convinti che domani possa essere meglio di oggi. Parrucchiere e dive, impiegati, cuochi e facoltosi clienti, hippies, staff presidenziali, volontari entusiasti, drammi privati. Tutti sospesi nella bolla di quel giorno normale, che poi si scoprì non fu normale per niente.

La strada per il 4 giugno è lunga. In febbraio Bobby ha detto che in Vietnam non si può vincere. Che l’America deve “ripensare la sua politica”, che in tutte le lingue del mondo significa “basta con la guerra”. In marzo, come a rispondere con l’orrore c’è il massacro di My Lai. In aprile sparano a Martin Luther King e in giugno tocca a Bobby. Naturalmente ha ragione James Ellroy, non facciamo i romanticoni, l’America non è mai stata innocente. “Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto”, tanto per dire che i quadretti consolatori non servono a niente. Ma è certo che intorno a Bobby si muove qualcosa, nuove speranze, diritti civili, la sua faccia pare già una nuova frontiera. Ed è certo anche che lì, nelle cucine dell’Ambassador, si rompe qualcosa di netto e di definitivo. E’ appena il 4 giugno e gli americani hanno già finito il ’68.

Come si sa, un’epoca è fatta di altre cose. Per dire di quell’anno, un giovane politico come Bobby non basta. Metteteci anche quel che avete annusato e sentito di quell’America, tra Hendrix e Dylan, o la prima di Hair, Simon & Garfunkel che cantano Mrs Robinson ne Il laureato. Si lavora per andare sulla luna, il futuro è nella plastica, si occupa la Columbia University, a Parigi c’è il maggio francese, a Praga la primavera di Praga. E’ un mondo nuovo, un movimento tellurico che muove qualcosa, e l’America cerca come sempre la sua nuova frontiera. Una frontiera più grande di quella del Vietnam. Qualche milione di ingredienti storici e culturali, il sapore di un’epoca, il rifiorire di mille cose che la faccia di Bobby sembrava promettere. Qualcosa che dà il senso a quella formula facile che si usa di solito, quando si dice: “l’altra America”. Cosa vuol dire esattamente non si sa, ma si capisce. Ecco, nel sapore, nel suono, nei colori e nei personaggi,. Nelle storie che raccontano l’ultiomo giorno di Robert Kennedy sembra di vedere questo, quest’”altra America” che stava per farcela. 

L’ultimo discorso, il discorso dell’Ambassador, prima dei proiettili in testa, è un discorso da vincitore, morbido, speranzoso. Bobby sa che correrà per la Casa Bianca, parla già da presidente, dice che in America ci sono divisioni e violenze, ma anche disincanto, un concetto che usa spesso. Un disincanto simile a quel che l’America conosce bene oggi: una guerra persa, una nuova escalation militare, la promessa di altre guerre, senza nemmeno un Bobby all’orizzonte che dica cose confortanti sull’America “altruista e compassionevole”.
Ma tutto questo la notte del 4 giugno nessuno poteva saperlo.
Nel discorso di quella sera all’Ambassador c’era il Bobby morbido, quello che piace a tutti, poi santificato, icona, come il fratello, di un’ipotetica America capace di cambiare rotta. Che poi, invece, dopo Bobby, finirà in mano a Nixon, impantanata nella giungla, stordita a Saigon, eccetera eccetera. A quell’America divisa, a quel disincanto, Bobby chiedeva di stare unita: “Insieme possiamo farcela”.
Detto così, Bobby sembra la solita versione del santino kennedyano, una bandiera buona da sventolare, o magari da esibire per l’ovvio parallelo con l’America di attuale.

Ma non tutti i discorsi erano morbidi come quello dell’ultima notte.  C’è anche un Bobby duro, radicale. Quello che andava a parlare nei quartieri neri o nelle fabbriche, che già trattava di difesa dell’ambiente, di qualità della vita, come diciamo qui. O di felicità, come dicono in America. “Dobbiamo rendere la vita su questa terra più piacevole e dolce”, come disse lui dopo che spararono a Luther King.
E del prodotto interno lordo – religione planetaria e pensiero unico dei nostri tempi – diceva che “comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana”. E anche: “Misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. Una frase che non sentirete più dire da un presidente, America o Europa che sia, e che suonerebbe come un sacrilegio, un pericoloso estremismo.

Che basti un film, un bel film, per un ritorno di fiamma ideale di quell’America è improbabile. Troppe variabili diverse, troppo tempo passato, anche se quel disincanto oggi c’è tutto, uguale ad allora. Il rimpianto dunque non avrebbe senso, perché alcuni erano troppo giovani e altri nemmeno nati. Insomma, c’è il rischio con Bobby di provare una nostalgia che appartiene ad altri, a un altro tempo. Come un rimpianto che non ci riguarda. E alla fine sembra che ci manchi una cosa che non abbiamo mai avuto, e proprio perché non l’abbiamo avuta. Così si esce dal film di Estevez, con la sensazione che pure a noi che stiamo dall’altra parte del mondo, e che siamo venuti dopo, sia stato rubato qualcosa. Di sicuro è un altro tassello nel mito. Perché ci piace pensare che alcune cose avrebbero potute andare in modo diverso, e forse sarebbe stata meglio per tutti un’America con la faccia di Bobby.
Il 4 giugno del 1968 questo non si poteva ancora capire, ma dopo quei colpi di pistola nelle cucine dell’Ambassador, le urla i feriti e Bobby portato via senza speranza, lo sapevano tutti lo stesso.
Quel che venne dopo si sa. Se è vero che l’America non è mai stata innocente, è vero pure che poi lo fu sempre meno. Il disincanto, dopo Robert Kennedy, è stato moneta corrente. Dopo, quasi tutti si sono sentiti come gli ospiti, i cuochi e gli impiegati dell’Ambassador, su Wilshire Boulevard. Senza più Bobby e senza più speranza.

 

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