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mer
5
apr 06

Proibire stanca

Piccolo apologo sul proibizionismo, divertente e soprattutto realmente accaduto, a me medesimo. Storia vera. Vado allo stadio. Mi fermo dal tabaccaio e compro le sigarette e un accendino usa-e-getta che costa 50 centesimi. Entro allo stadio e un giovane carabiniere mi ferma: ho le sigarette? Sì. Dunque ho anche l’accendino? Ovvio che sì. Devo lasciarglielo: non sia mai che lo tiri in campo. Ubbidisco a malincuore: chiedere d’accendere al vicino per due ore è seccante per tutti, ma essendo tutto sommato un buon cittadino tendo a obbedire ai caramba, e allungo l’accendino al giovane appuntato, che non lo prende e mi fa cenno di gettarlo lì, di fianco al cancello d’entrata, dove un notevole mucchietto di accendini aumenta di volume minuto dopo minuto. Mi avvio dunque verso il mio posto, quando un giovanotto dall’aspetto balordo mi avvicina guardingo, cava dalla tasca del giubbotto una manciata di accendini (suppongo raccattati accanto a un cancello) e mi chiede se ne voglio uno. Un euro. Lo compro. Eccomi passato al mercato nero: ciò che era lecito e legale si è trasformato in vietato nello spazio di venti metri, il suo prezzo è raddoppiato. Questo è il proibizionismo.

Il 7 febbraio 2006 si vota alla Camera dei Deputati, a  Roma, un decreto legge sulle Olimpiadi di Torino. Paradossalmente al suo interno ci sono cose che con le Olimpiadi non c’entrano nulla, come ad esempio la nuova legge sulla droga. 271 deputati votano sì, 190 votano no, un applauso si alza dai banchi di An, il ministro Giovanardi (Udc), esulta e dice che molte vite si salveranno grazie a questa legge.
C’è un certo delizioso contrappunto nel fatto che la droga finisca sempre nascosta: nelle tasche più remote per i consumatori, nei conteiner e nelle navi per i trafficanti, nel decreto sulle Olimpiadi per i politici italiani. E’ un contrappasso. La legge, comunque, contiene criteri davvero nuovi, in aperta controtendenza con tutte le legislazioni europee. La novità più grande è l’equiparazione tra ogni tipo di droga: cannabis, cocaina, eroina, extasy e via elencando hanno, per così dire, lo stesso tasso di divieto. Per il consumo, il trasporto, la vendita, la cessione, il possesso, il commercio, l’importazione, l’esportazione, si rischiano da sei a vent’anni di carcere: con un etto di eroina in tasca si rischia lo stesso che con un etto di hashish. Le droghe ricreative sono equiparate alle droghe assassine, tolleranza zero, distinzioni zero. Come più volte sottolineato dal presidente di An Gianfranco Fini, si sancisce che drogarsi è illegale. Lo stesso Fini fa uno strano outing e dichiara in tivù di essersi una volta, durante una vacanza in Giamaica, fatto una canna, e di essere stato “rintronato per due giorni”. Migliaia di adolescenti italiani pensano “beato lui”, e continuano a farsi le canne, anche se ora rischiano parecchio.

Confesso di non amare l’estetica delle canne. Come un bicchiere di whisky, come una bottiglia di vino, non me ne sfugge l’intento ricreativo e piacevole. Farne una religione mi sembra una fesseria da neofiti o da adolescenti. Trasformarle nel diavolo, demonizzarle e creare il mostro-spinello mi sembra una fesseria ancora più grave. Secondo gli oppositori di questa legge (che vanno dagli storici antiproibizionisti radicali a Francesco Rutelli, che nega di aver mai rollato) circa trentamila persone finiranno in galera a stretto giro, circa il doppio subiranno qualche divieto (da non poter guidare il motorino a non poter entrare allo stadio) e quasi tutti potranno scegliere di essere “rieducati”, “assistiti” e “riabilitati”. Va da sé che il verbo rieducare evoca certi eccessi della rivoluzione culturale cinese quando un intellettuale di Pechino poteva essere “rieducato” con quindici ore di risaia al giorno. Lo Stato non sarà in grado di farlo e delegherà la rieducazione a strutture private che somiglieranno ad ambulatori (nei casi migliori) o a carceri (quasi sempre). In pratica un lucroso affare per i privati, esattamente come sono in America le carceri private o, in Italia, San Patrignano. E’ un eccellente modo per far soldi con la droga. In una smagliante ottica proibizionista, si lasciano ai trafficanti i lauti guadagni di un commercio illegale e a qualche intraprendente privato il business della “rieducazione”. Quel che fatturava cento, nel giro di qualche anno fatturerà duecento: il proibizionismo è un grosso affare. I costi, invece, saranno tutti a carico dello Stato: perquisizioni, micro-sequestri, lunghissimi iter burocratici, sovraccarico di lavoro per magistratura, poliziotti, carabinieri, finanzieri, senza contare le carceri italiane, dove i posti disponibili sono 42.000 e i detenuti 61.000. Varata la legge sulle droghe, ancora non esistono le tabelle esplicative, dunque il caos regna sovrano: un altro costo.

In Gran Bretagna, nonostante sia stato Tony Blair a inventare la zero-tolerance nei confronti degli inglesi adolescenti, la cannabis è stata declassata nel 2004, da droga di categoria B a droga di categoria C. Non è stata una lunga battaglia, né una grossa questione sociale: semplicemente si sono analizzate numerose ricerche scietifiche e si è accettato il principio che i danni fisici dei cannabinoidi sono praticamente inesistenti. Non è però il caso di farla troppo facile: sempre da alcuni studiosi inglesi è partito recentemente un grido d’allarme: le canne che ci fumiamo oggi sono le stesse che ci fumavano venti o trenta anni fa? Alcuni studi dicono di no: la presenza di Thc (il principio attivo contenuto nelle foglie o nella resina di cannabis, cioè nell’erba o nel fumo) sarebbe in netto aumento, secondo alcuni di dieci, venti e anche trenta volte tanto. Possibile?
Alcune leggende metroplitane – molto gettonate dai proibizionisti – vaneggiano di piante geneticamente trattate, come se sulle montagne di Ketama, in Marocco, o alle pendici delle Blue Mountains, in Giamaica, poveri contadini analfabeti sapessero maneggiare la genetica come i creatori della pecora Dolly. E’ una cazzata. Così come una scemenza è l’accusa ai contadini albanesi (l’Albania è la Giamaica d’Europa) di innaffiare le piante con trielina o simili schifezze: semplicemente le piante brucerebbero. Ma in molti casi l’aumento del Thc è stato provato. E viene – è certo – dalle colture idroponiche intensive con luce artificiale. Insomma: se la pianta di cannabis non cresce nella terra, come natura vorrebbe, e se viene illuminata 24 ore su 24 con apposite lampade e non con il sole, il Thc aumenta. Comunque lo si guardi, è un altro brillante risultato del proibizionismo: rendere illegale una sostanza naturale fa in modo che la si produca in modi un po’ meno naturali. Ma va detto che anche qui – come sulla presunta dannosità della cannabis – le idee sono tutt’altro che unanimi. C’è chi ha cambiato parere, come Rosie Boycott, direttrice dell’Indipendent on Sunday nel 1997, che lanciò una grande campagna per la legalizzazione dicendo che “se l’alcol è una tigre, la cannabis è un topo”. Nel 2005, sul Daily Mail, la stessa Boycott fa una giravolta di 360 gradi e scrive che “chi assume cannabis oggi gioca alla roulette russa con la sua salute mentale”. Forse esagerava prima e probabilmente esagera oggi. John Macleod, dell’Università di Birmingham ha invece confrontato, sulla prestigiosa rivista Lancet, ben 48 studi a questo proposito, ed è giunto alla conclusione che molte ricerche (almeno due terzi) sono campate per aria. Molte, oltretutto, sono compiute su ragazzini di 12-14 anni. Troppo piccoli: nessuno si sognerebbe di valutare i danni dell’alcool facendo bere birra a un neonato.

Come sempre avviene nelle cose di polizia, di magistratura, e spesso anche di medicina, la quantità comanda, e della qualità non si parla mai. Chi ha oggi tra i 25 e i 40 anni, invece, pare sempre più attento alla qualità di quel che si mette in corpo. Meglio un pomodoro bio che un mais transgenico. Meglio una verdura di stagione che un peperone in gennaio. Il proibizionismo annulla invece ogni possibilità di scelta qualitativa del consumatore: acquistando su un mercato illegale, i meccanismi della domanda e dell’offerta sono stravolti e deformati: compro il fumo che trovo, non so da dove viene, come è stato trasportato, con quali sostanze è stato aggregato, non ci sono etichette che mi spieghino alcunché: una volta a Lisbona, ho comprato lucido da scarpe. Afghano nero, sensimilla? Fantascienza. La biodiversità viene uccisa dall’illegalità del mercato e dunque non esiste alcuna tutela del consumatore. Il proibizionismo, insomma, fa in modo che non solo si rischi la galera, ma anche che ci si avveleni. Questo vale ancor di più per le droghe pesanti, ma funziona anche per l’hashish, l’erba e quant’altro.

L’edizione francese della rivista Technikart (numero di febbraio 2006) avanza una inqueitante teoria. E se i disordini delle banlieues francesi fossero stati causati dalla carenza di fumo? Recententemente il governo marocchino, ansioso di avere rapporti sempre più stretti con l’Europa, ha subìto molte pressioni per vigilare più strettamente sulle esportazioni (comunque illegali) di hashish. Un giro di vite, insomma. Privati di quel grande e popolare tranquillante sociale che è il fumo, i giovani beurs francesi si sarebbero parecchio imbizzarriti. E’ una teoria da prendere in considerazione, anche se francamente non mi piace: vorrebbe dire che è l’oppio l’oppio dei popoli, invece che il calcio, la televisione o dio, cose che mi sembrano più convincenti. Ma trovo invece inquietante un’altra lettura (stessa rivista, stesso numero), quella di un poliziotto anonimo che a proposito della questione si lamenta parecchio: “La cannabis è un piccolo traffico, tutto sommato innocuo. Se si elimina quello, arriveranno azioni più pericolose”. Parola di flic: il pribizionismo aumenta – e non diminuisce – la pericolosità sociale.

Ma torniamo al mercato illegale. Dove finiscono i miei soldi? Il giovane (e simpatico) Mohammad mi vende 50 euro di fumo. Lui se ne mette in tasca cinque, o dieci. Da chi lo compra? Da un’organizzazione illegale, cioè, non è difficile immaginare, da delinquenti senza scrupoli, siano essi la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta o qualche variante di queste tre famose aziende italiane. Alcune agenzie di stampa (gennaio-febbraio 2006) lanciano uno strabiliante allarme: con la vendita del qat (un’erba che si mastica, molto diffusa in Yemen e nei paesi del Corno dì’Africa) sul mercato europeo, Al Quaeda si mette in tasca almeno un milione di dollari all’anno. Il perché masticare un’erbetta rilassante finisca col finanziare il terrorismo è un altro mistero, ma facilmente spiegabile: è il proibizionismo. E’ così che si chiude questo assurdo cerchio, nel modo paradossale e incredibile in cui si era aperto. Gli Stati Uniti, con la loro ventennale (e perdente) war drug, l’onorevole Gianfranco Fini e l’ineffabile ministro Giovanardi impegnato a “salvare molte vite”, figurano per essere oggettivamente alleati e sodali dei tanti Bin Laden del pianeta. Soci in affari, per l’esattezza. Esattanmente allo stesso modo in cui, negli anni Trenta, il governo proibizionista americano faceva prosperare Al Capone, che finì in galera non perché era un bandito, ma per evasione fiscale. Una cosa che qui, in Italia, pare davvero fantascientifica.

1 commento »

Un Commento a “Proibire stanca”

  1. ehm, scusa… ma chi compie “una giravolta di 360 gradi”, si ritrova esattamente nella stessa posizione di prima. immagino intendessi una di 180 (o di 540, o di 180+360k, con k intero)
    saluti
    ruphus

    da ruphus   - lunedì, 11 gennaio 2010 alle 22:46

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