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ven
3
mar 06

Amadou & Mariam

Mal d’Africa e carovane del deserto. Sabbia rossa e metropoli affollate. Il Mali dice la sua nella musica del mondo. E’ una lezione chiara e forte. E fa giustizia, intanto, del peggior luogo comune per chi si avvicina alla musica “etnica”, cioè che un bel giorno un qualche occidentale – già beneficiato delle stimmate della star – si sia affacciato all’Africa, scoprendone i suoni, per così dire “incontaminati”. Niente di più folle. Chi andava a Bamako negli anni Sessanta, sgusciando tra dittature militari, povertà estrema e voglie di riscatto, si ritrovava seduto in quei grandi alberghi modernisti, gomito a gomito con i funzionari del governo, i mercanti, la buona borghesia. E sentiva cose sublimi come Bembeya Jazz, o strepitosi ensemble con nomi bellissimi, come Les Ambassadeurs du Motel de Bamako, gruppo popolare in tutto il mali con alla chitarra un giovane talento, Amadou Bagayoko. Incredibile esperienza, perché lì, tra il balafon e la chitarra, si incrociavano la rumba e il blues, certa salsa cubana che era allora il non plus ultra dello chic, miscuglio inestricabile di musiche importate – e poi impastate alle proprie – che per il Mali erano la conquista di una dimensione internazionale. Classe 1954, Amadou cresce suonando, masticando a pranzo e cena musica maliana, ma anche Led Zeppelin e blues, beat e tropici. Come si vede, di incontaminato non c’è nulla, tutto si tiene – magicamente – insieme. E’ cieco, Amadou, a causa di una cataratta congenita, che gli spegne per sempre la luce quando è adolescente. Gli resta la chitarra, e andrà lontano con quella.
Mariam Doumbia è una storia parallela. Incollata alla radio si beve tutto quel che può: la chansonne malienne, ma anche le grandi voci francesi. Cieca dall’età di cinque anni, Mariam canta e canta e canta. Ai matrimoni, alle feste di paese, in ogni ricorrenza eccola, ancora bambina, distillare quel che le esce dalla gola, quasi sempre un concentrato di morbidezze che nascono nel deserto e sanno svisare nel blues. L’incontro è obbligato, quasi naturale. Luogo: l’istituto dei giovani ciechi, a Bamako, dove la musica è materia prima. Da allora, ecco che le due storie diventano una. Andate nel Mali, ma anche in Costa d’Avorio, Senegal. Burkina Faso e in generale nell’Africa Occidentale e quella coppia, Amadou et Mariam, vi sembrerà come un simbolo, griffe di grande musica e insieme storia esemplare, riscatto, vittoria. Fino a oggi, quando il successo planetario è cosa fatta, quando Bamako non è più un puntino nel deserto.
Si sposano, contro le famiglie e contro la logica. Due ragazzi africani, ciechi, che faranno? Come faranno? Fanno, invece, e molto bene. Fanno anche tre figli. Tra l’80 e l’85 la loro ascesa è verticale. Nel Mali sono famosi, e amati, così partono in tournée, nel Burkina Faso, in Costa d’Avorio. E lì si fermano. Registrare, scrivere e cantare, lasciare tracce della loro musica. Così “la couple aveugle du Mali” invade di cassette mezza Africa, ed è una grandinata che li rende quasi leggendari. Suonano ad un gala ad Abijan in compagnia di Stewie Wonder. Mischiano il più possibile. Il francese con tutti gli idiomi maliani, e soprattutto il bambara, lingua di origine maliana diffusa in tutta l’area, perché, come dice Amadou, “Cerchiamo di cantare in tutte le lingue parlate nel Mali perché sia festa per tutti, e perché tutti capiscano”. Si mischiano le parole, si mischia la musica. Amadou sa distillare alla perfezione dalla chitarra acustica, ma non si tira indietro se bisogna un po’ correre sul ritmo. Mariane ha una voce sottile e versatile. Non c’è musica con cui non si possa giocare.

La Francia. Per un artista del Mali, Parigi vuol dire tante cose. Per anni è stato rifugio, ma anche ispirazione, ma anche maledizione. Luogo accogliente, dove sei, però, minoranza etnica. Amadou e Mariam ci vanno per la prima volta nel ’94, per registrare una delle tante cassette che ancora girano a Bamako e che purtroppo non esce in Europa. Poi ci tornano nel ’97, ad prire le porte della loro fortuna fuori dall’Africa. All’improvviso, dalle radio francesi, dagli scaffali dei negozi di dischi, dalla musica che gira intorno, spunta questa nenia sublime, questo filo spudorato d’amor tranquillo, consapevole che è Mon amour, ma chérie, canzone d’amore perfetta, equilibri strabilianti. Un sussurro, la voce di Mariam, un lieve carezzare di corde, la chitarra di Amadou. E’ blues, ma è Africa, ma è chanson.
Parte l’ottovolante, allora. Due dischi in due anni, la critica che applaude, il pubblico colto, quello che segue attento e ha le orecchie collegate al mondo, che strabilia. Arrivano i festival, le tournée, persino l’America. E si allarga il cerchio. Al francese, al bambara, alle lingue maliane si aggiunge lo spagnolo. Nuove collaborazioni e incontri (con Sergent Garcia, per esempio), nuove velocità nella musica. Ecco dove arrivano due ragazzi africani e ciechi, dove nessuno avrebbe mai detto, o sperato.
Manu Chao la racconta così: “Ero in macchina sul périph di Parigi e ho sentito questa canzone alla radio, e non sapevo cos’era. L’ho cantata ai miei amici che mi hanno detto: Sono Amadou e Mariam, li conoscono tutti…”. Colpo di fulmine: a Manu piace il lato rock-blues africano della coppia, ma soprattutto l’immensa dolcezza. Loro, Amadou e Mariam, vogliono giocare nel campo di una musica universale, dove si cantano tante lingue e si suonano tante musiche. Quell’ambizione di appartenere a ogni luogo, e a ogni sua musica, che anche il “giramundo” Manu Chao ha sempre espresso, teorizzato e propagandato con dischi strepitosi venduti in milioni di copie. Racconta Amadou: “Ci siamo incontrati e siamo andati in studio. Lui ha preso la chitarra e abbiamo cantato… Le courant est bien passé”, e mette in queste parole la stessa naturalezza che sa mettere in musica. Il risultato sarà poi un grande disco, Dimanche a Bamako (Corrida, 2004), dove le musiche diventano ancora più plurali, dove il Mali e il resto del mondo si incrociano come se fosse ovvio, dove le lentezze dell’arpeggio vengono invase dai ritmi più accesi e tutte le lingue si mischiano. Manu Chao coproduce e suona, molti altri suonano e cantano, Amadou e Mariam sono deliziosi padroni di casa, ospitali e allegri. Cantano di storie, della vita di uomini e donne, di quello che succede alle persone, della festa al villaggio. Dice Mariam: “La nostra musica è per lanciare un messaggio, di intesa, di giustizia, di pace e d’amore”. Dice Amadou: “E’ per esprimere sensibilità. Il blues ha molti legami con la musica maliana. Ha le stesse note, le stesse gamme, le stesse emozioni. E’ per questo che dico che il blues è nato in Mali”.

1 commento »

  1. 10 e lode.

    da hedi giramundo   - lunedì, 14 dicembre 2009 alle 12:25