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mar
7
feb 06

Rockabilly

Segni distintivi, quelli ovvi. Ciuffo a banana, pantaloni stretti, possibilmente il giubbotto. L’aria truce non è espressamente richiesta, ma dipende dal contesto. Anche se sembra un film in costume, e anche se i sociologi vi parleranno di tribù o subculture giovanili, resta il fatto: il rockabilly non se n’è mai andato. Come una tradizione, come una nicchia immobile, come una popolazione isolata da alte montagne, stanno sempre lì, più o meno uguali. Si incontra un rockabilly come si può incontrare uno shutzen tirolese, forse, ma a differenza dello shutzen, i rockabilly si incontrano dappertutto. L’America, naturalmente, ma anche l’Europa, da nord a sud, è affollata da gruppi musicali che rivendicano il loro rockabilly come una bandiera. E che, soprattutto, mettono in campo tutti gli accorgimenti stilistici, simbolici e semantici della loro appartenenza e adesione. Gente che sa di venire da lontano.
Icona novecentesca come poche altre, il faccione del primo Elvis, con quegli occhioni e quella banana di pelo calata sulla fronte, è stato il primo segnale alle masse. Ma la storia è più complessa. Il miracoloso impatto delle culture rock e blues, rock e soul è sotto gli occhi (e nelle orecchie) di tutti. La teoria del rock come immenso prodotto culturale nero subito ghermito dai bianchi è nota e quasi unanimemente accettata. Ma che sarà mai successo quando il ciclone del rock investì i contadini americani, le masse rurali, i ragazzi delle pianure e  quelli degli Appalachi? Di nero, quelli, non avevano niente, né blues né gospel, ma senso del ritmo sì, dato che maneggiavano il country e l’hillibilly (che unisce le parole collina e capra, per dire che siamo in campagna), musica popolare, ruvida, ruspante. L’impatto del rock creò, come quello di un meteorite, nuovi corpi celesti. E i rockabilly.
Se si seguono i torrenti e i rivoli della storia del rock, dunque, questa sarebbe la genesi, ma ovvio che anche qui il gioco si scompone in mille direzioni. Il miglior rockabilly delle origini (per comodità, dal ’53 al ’57) venne dalla scuderia Sun, che già aveva fatto fortuna, e tanta, con il soul e il rhythm and blues. Ma questi sono dettagli. La verità è che il genere andò al di là della sua essenza musicale, proprio come fanno le più vivaci sub-culture giovanili. Un po’ bluson noir, un po’ rebelde (e quasi sempre senza una causa), il tipo rockabilly era il più spregiudicato della compagnia. Basta guardare una puntata di Happy Days per capire: hillibilly è Fonzie, e  gli altri per essere un po’ più liberi dovranno aspettare gli anni Sessanta.
Bisogna fare attenzione, ora. Come sempre quando si maneggia la dinamite dei miti & riti delle culture giovanili, il rischio è di cercare una lettura politica. Ma con il rockabilly è missione impossibile. Alle origini, fu semplicemente il vento del rock’n’roll, che soffiava ovunque e si mischiava a quel che c’era. Poi i costumi, le acconciature si cristallizzarono, fedeli alla più semplice (e resistente) delle ideologie giovanili: divertirsi, ballare, stare tra ragazzi e ragazze, tornare tardi alla sera, fare cose che gli adulti (gli adulti degli anni Cinquanta) avrebbero di certo scoraggiato. L’album di famiglia comprende cadillac rosa decappottabili, giacche multicolori, gonne ampie per le ragazze. Un film in costume, appunto, che però ha fatto il suo dovere a quei tempi, quando per épater le bourgeois, nella provincia americana, bastava davvero così poco.
Eppure se oggi, dalla Finlandia a Malta, dalla Polonia al Portogallo si ritrovano ancora tribù e conventicole rockabilly è perché quel germe, quel virus, non è stato del tutto sconfitto. Una velata nostalgia per i misteriosi anni Cinquanta, cioè per il big bang originario di tutto. Una struttura musicale irresistibile quanto lineare, frenetica, tanto simile al rock delle origini da esserne ormai quasi indistinguibile (e l’iscrizione d’ufficio del dio-Elvis all’universo rockabilly conferma). Ma anche una straordinaria adattabilità della specie, come ricordano i frequenti revival, bande anni ’80 come gli Stray Cats, la capacità di restare se stessi, cioè rockabilly, pur piegandosi ai generi che arrivano. Il punkabilly, lo psychobilly e via cercando e scavando nei cassetti e cassettini delle sotto e sotto-sotto-categorie.
Tutto ciò è strabiliante ma anche miracoloso: che dietro al modo di portare un ciuffo di capelli, di indossare una giacchetta dai fianchi stretti, di suonare la chitarra in un certo modo che non smette di eccitare, resista una piccola popolazione è quasi commovente: nonostante la globalizzazione della musica (come di tutto il resto), c’è una biodiversità che vende cara la pelle. La pelle del giubbotto, almeno quella.

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