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lun
10
ott 05

Tutti i Dylan del mondo

Vengono tutti da lì, da Duluth, Minnesota. Tutti i Bob Dylan del mondo, s’intende, perché è ormai chiaro che non c’è un Dylan solo, non sarebbe possibile osare tanto. Ognuno ha il suo preferito e può scegliere e pescare dall’immenso catalogo. Per cui ecco il Dylan folk con la faccia da ragazzino pulitino, anche se sembra un hobo appena sceso dal treno merci per sgranare gli occhi davanti a New York. C’è il Dylan elettrico con gli occhialoni neri, quello che si è sentito gridare “Judas!” dagli integralisti del folk appena ha imbracciato una chitarra elettrica (e Bob Seeger voleva tagliargli i fili!). Se preferite, c’è il Dylan catacombale delle cantine, quello sincopato dei Basament Tapes, un sottoscala come rifugio dopo essersi sfracellato in moto. Oppure il country-man di Nashville Skyline e il cowboy Alias di Pat Garrett e Billy The Kid, o ancora il Dylan modello bravo rocker, bellissimo, con la faccia pitturata e gli occhi bistrati, quello della Rolling Thunder Revue che sarebbe anche, per inciso, il mio Dylan preferito.
Oppure ecco il Dylan cristiano rinato, quello che “Gesù pose una mano su di me e il mio corpo cominciò a tremare tutto”, improbabile apparizione del divino in un motel di Tucson, Arizona, nell’inverno del ’78. E allora via coi dischi “sacri” come Saved e Slow Train Coming, che i dylaniati già storcono il naso, ma si adagiano lo stesso su quella spremuta di setto nasale che è la sua voce, una cartavetrata di suprema dolcezza.
Il catalogo è questo, e anche molto altro dopo di allora. Così che si capisce come non è umanamente possibile che Bob Dylan sia un solo Bob Dylan. Quello ventenne che si incarogniva con il folk quando nessuno voleva sentirne parlare, ma che intanto – dice nella sua autobiografia – “li avevo letti, Voltaire, Rousseau, Locke, Montesquieu, Martin Lutero… era come se li conoscessi, se avessero vissuto dietro casa mia…”. A Duluth, Minnesota? Davvero strabiliante.
E’ questo il Dylan, il giovane imberbe Dylan, che ricordano tra qualche sforzo di memoria i suoi concittadini coevi di Duluth, o i compagni del liceo di Hibbing. E’ lo stesso Dylan – o un Dylan molto simile – che esce dal bellissimo (e chilometrico, oltre tre ore!) documentario di Martin Scorsese trasmesso dalla Bbc. Lo stesso Dylan (o molto somigliante) a quello del doppio album appena uscito, cioè il capitolo 7 dell’infinita saga delle Bootleg Series, No Direction Home (Sony), un capolavoro uscito da chissà quali cassetti che percorre la strada dalle prime esibizioni liceali (1959) all’apogeo rock’n’roll di Like a Rolling Stone, anno di grazia 1965. E già qui – tra il folk acustico mano nella mano con zia Joan Baez alla prime scariche elettriche, a ben guardare, i Dylan sono già due. Metamorfosi visibilissima nel libro, metà storia e metà collezione di memorabilia, che Feltrinelli ha appena edito in Italia, The Bob Dylan Scrapbook 1956-1966. Locandine di concerti, foto giovanili, testi scritti a mano, curiosità, rarità e tutto il contenuto del vaso di Pandora scoperchiato da Scorsese per il suo film.
Sarebbe davvero diabolico se quel Dylan giovane e stralunato fosse lo stesso Dylan di poi, quello di Hurricane, per dirne una, o quello di oggi che da anni e anni non si ferma un momento, suonando ogni sera in ogni dove, cioè chiudendo il cerchio e tornando ad essere un hobo con la chitarra. Ma aveva 25 anni, dalle parti del Village e già i Beatles gli rendevano omaggio, Lennon voleva conoscerlo a tutti i costi e lui già si faceva beffe un po’ di tutti. Domanda: “Pensa di aver influenzato la scena della musica popolare?”. Risposta: “Oddio, spero di no!”. Una vera faccia da schiaffi, insomma.
C’è anche il Dylan dei dischi brutti, come no. Quelli che la critica storceva il naso o fingeva di non vedere né sentire (tipo Shot of love, forse il peggiore), salvo poi trovarne qualche brandello suonato dal vivo, e strabiliare di nuovo. E poi, ecco! Un altro Dylan arrivava, e magari riprendeva in mano i vecchi standard folk che il Dylan precedente sembrava aver scordato. E giù tutti a spellarsi le mani, come a dire: c’è un nuovo Dylan in città! E’ accaduto di nuovo!
E’ probabile che il signor Bob Dylan – il sessantaquattrenne dei giorni nostri – se li ricordi tutti, compresi gli ultimi Dylan eternamente candidati al Nobel per la letteratura, o il Dylan che ha vinto l’Oscar, o il Dylan che suonava reggae, o il Dylan di Blowin’in the wind che scrisse, narra la leggenda, in dieci minuti netti. Ma è chiaro che non può essere lui – lui da solo – tutti questi Dylan che vengono tutti quanti da Duluth nel Minnesota e che in quarantacinque anni di attività hanno sempre avuto da dire la loro, in coro. Un coro con tutti i Dylan del mondo.

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