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sab
7
mag 05

Manu, chi l’ha visto?

Chi l’ha visto? Dov’è? Che fa? Succede così, di solito, quando qualcuno che è stato molto sotto i riflettori, e molto intensamente, sparisce un po’ dal cono di luce. I media giocano al chi-l’ha-visto, l’industria (quella del disco, nel caso) rincorre e lusinga, i fans aspettano nuove prove. Nel caso di Manu Chao il gioco è ancor più ricco, quasi labirintico, quasi grottesco nei suoi cambi di senso e di corsia. Perché ognuno cerca tracce del “suo” Manu. Chi l’ha scambiato per il portavoce del movimento no-global cerca il Manu icona politica, anche per attaccarlo. Chi cerca l’affare (ammesso che vendere dischi sia ancora un grosso affare) gongola e spera al pensiero che il suo contratto con Virgin è scaduto. Ma c’è anche chi lo cerca come un amore sparito, di quelli che vanno a comprare le sigarette – dicono – e non tornano più. E così il forum del sito di Manu Chao è un susseguirsi di appelli che sembrano preghiere. Manu verrà a suonare in Colombia? Manu verrebbe a questo festival? E a quest’altro? Manu scrive? Manu suona? E dove? E quando? Un tam-tam che unisce aspettative, speranze, complicità, passioni comuni e un cristallino innamoramento. Perché pochi autori di canzoni e musicisti – e nessuno così in grande – hanno saputo unire mille ingredienti per fabbricare una così entusiasmante “patchanka” di suoni e culture. Manu ti fa ballare, ma per paradosso lo fa quasi da etnomisicologo. E’ pronto a regalarti una canzone che ti scatena, ma poi scivola via in tiepide, nebbiose malinconie, e poi zac! Rieccolo iperpop, e poi schitarrare dalle parti del punk, ma subito tornare alla rumba, e anche lì, “real y maravilloso” come il Sud America, incastonare nei dischi minuscoli gioiellini carichi di saudade, o lacrimucce di blues. Manu Chao è tutto questo – oltre a una poderosa macchina da dischi – e dunque si capirà che non è facile, sulle sue tracce, procedere con ordine.

Tracce recenti di Manu
Di passaggio da Barcellona, meglio buttare l’occhio, drizzare le antenne. Lo struscio turistico sulle Ramblas, va bene. Ma chi entra – verso est, o verso ovest, in quel che resta del barrio Gotico o del barrio Latino riesce ancora, lontanamente, a sentire quell’aria rebelde di quartieri a ridosso del porto, multietnici, popolari, piccole Quito, piccole La Paz sotto la statua svettante di Colòn, il conquistatore: contrappasso etnico. E si può anche trovare, tra gli annunci di feste e concerti, il dj set di Chapulin Chao, come si fa chiamare Manu quando “mette i dischi” che equivale, come tutti i dj sanno, a suonare senza strumenti. Così capita di trovare in un bar la star planetaria (milioni di dischi venduti tra Clandestino, Proxima Estaciòn, Esperanza, Radio Bemba Live, per citare solo gli ultimi), cosa che lo show business considera folle.
Se Barcellona è la base logistica del Manu musicista, il posto dove ha casa, banda, amici, minuscolo studio di registrazione, “buena onda” e pure un bar, a Parigi sta il Manu produttore. Qui (sopra la Cigale, storica bomboniera parigina per concerti) c’è la sede di Radio Bemba che produce, ricerca, diffonde musiche. Ultimo colpo, lo strepitoso album di Amadou e Mariam, Dimanche a Bamakò, coppia del Mali già celebrata dalla critica. Manu se ne è innamorato sentendoli alla radio, una sera, mentre correva per il Péripherique, e si è chiuso in studio con loro. Risultato: il piccolo raffinato prodotto etnico che di norma finisce sugli scaffali più nascosti dei negozi (e nemmeno di tutti) è diventato in Francia un evento musicale, pronto a varcare le frontiere (in Italia il disco esce questo mese, edito da Radio Bemba, l’etichetta di Manu, per la distribuzione Wea).
Chi insegue Manu da fan, naturalmente, la sa più lunga. E i più attenti non si sono persi l’ultimo disco, distribuito soltanto in Francia e parte di un progetto più ampio, venduto in tiratura limitata (si fa per dire: 150.000 copie andate via come il pane in due pomeriggi!) insieme a un libro illustrato dal bravissimo disegnatore Wožniak.

Parigi in Siberia
Già. Dopo la sovraesposizione di dischi venduti a milioni, Manu ha deciso di tornare sul luogo del delitto. Il primo delitto, quello delle origini, di Mano Negra, dei baretti del XVIII arrondissement e del casino vociante di Barbès. Ironia della sorte, quando scrisse Clandestino, Manu pensava di venderne trenta-quarantamila copie. Era un regalo ai suoi tifosi, una testimonianza del suo girovagare per el mundo, il risultato del suo essere improvvisamente solo (senza l’amatissima banda) su un pianeta grandissimo. Divenne invece il boom che si sa, bissato poi da Proxinma Estaciòn…: Manu aveva scritto e cantato qualcosa di intimo, ed ecco che quelle intimità semiacustiche viaggiavano senza confini ovunque, dalle sfilate di moda ai cortei, dalle feste in piazza ai rapporti della Digos.
La pausa parigina, dunque, gli serve da calmante e al tempo stesso da laboratorio di ricerca. Ormai barcellonese, ma soprattutto “giramundo”, icona suo malgrado della lotta alla globalizzazione e amico sincero di tutti i movimenti possibili e immaginabili, Manu vuol tornare in una città “dura” e impietosa come Parigi. Là dove è nato tutto. Questa volta decide di limitare l’impatto: prima un mini-cd con sei canzoni e una brochure di disegni e testi, poi il disco (più libro) vero e proprio, Siberie m’ètait contée, tirato “soltanto” in 150.000 esemplari. Sorpresa. Nel disco c’è un Manu intimo e dolcissimo, che ripesca vecchie cose della sua giovinezza, certi bozzetti popolari che sanno di pastis (Madame Oscar!), piccoli tocchi di chitarra e di organetto. Francesissimo disco, anzi, disco parigino, ragazze dei boulevard, madeleine di un tempo, insieme a saltellanti canzoncine che al terzo, quarto, quinto ascolto, rivelano un retrogusto di malinconia. Un disco sulla morte, sulla paura del mondo, “Siberia nel mio cuore”, come canta lui. O piccolo bilancio sussurrato e pudìco di uno che, passati i quarant’anni, valuta con occhio critico e affettuoso quel che ha fatto, quel che è. Magistrale in questo il testo di Dans mon jardin, dove, guardando il suo giardino, Manu elenca quel che ci si può trovare, ed è una sintesi poetica giocosa e agrodolce.

Il privato e il politico
Inutile dire che tutto gira in rete. Nonostante sia considerato dall’industria discografica una delle poche carte su cui giocare a colpo sicuro e ad occhi chiusi, Manu non è di quelli che si fanno incantare dalla difesa del copyright. Più volte, e con convinzione, si è detto favorevole alla libertà di copia, allo scaricamento selvaggio, via computer, della musica. La sua insofferenza per le domande mirate dei media sulla sua attività politica è nota: Manu si secca se lo si definisce o qualifica bandiera del movimento. “Voi chiedete a me perché sono un cantante famoso, ma chiedete a qualcuno di quelli che vengono a sentirmi e vi dirà le stesse cose. Non sono un portavoce, porto la mia, di voce, che è come milioni di altre”. Lo disse il giorno del suo quarantesimo compleanno, quando suonò a Milano in una piazza del Duomo piena da scoppiare. E fu anche facile profeta sulle giornate del G8 di Genova, dove andò a suonare: “Spero che non succeda niente, ma se succederà qualcosa sarà per le provocazioni della polizia”.
Il voler vivere la sua esperienza politica, da militante no-global in privato, non toglie che sia atteso ad ogni appuntamento importante del movimento. In gennaio, per esempio, era a Porto Alegre, e non c’è associazione, gruppo, festival della sinistra antagonista dove non venga reclamato, a volte implorato di partecipare. Come capita alle bandiere, insomma, Manu sventola anche se non vuole: non gli piace essere un simbolo, ma rimane un riferimento culturale importante. Il resto sono infortuni e quiproquò mediatici. Come quando a Malaga gli annullano un concerto insieme a Fermin Muguruza, grande musicista basco, che l’autorità comunale accusa di essere vicino all’Eta. Qualche mese fa, riecco Manu sui giornali italiani. Si lamentava di non poter girare tranquillo in Italia, dopo Genova – diceva – temo di essere fermato, perquisito, molestato. Non era così, ovviamnete. In una lunga intervista a Le Monde Manu denunciava il clima italiano, dicendo di girare tranquillo in tutti gli angoli del mondo, dal Mali alla Colombia, ma non qui da noi: troppa tensione e qualcuno che gliel’ha giurata. Un discorso politico, insomma, che poi, per mediazione giornalistica, per semplificazione un po’ furbetta, veniva stampato e venduto come fosse uno sfogo di vittimismo.

E ora, il portuñol
Ma, insomma Manu che fa? Canta? Suona? Il tam-tam degli innamorati non smette un momento. Gli amanti reclamano qualche cenno dall’amato. Ma parlare dei programmi di Manu è sempre un terno al lotto. Quando se lo aspettavano pronto per il mercato americano (nel ’92) ha messo su un circo itinerante per le periferie francesi. Quando lo volevano lanciare come una rockstar (nel ’94) ha mollato tutto ed è andato a costruire un improbabile e meraviglioso treno in Colombia. E ora? In dicembre lo aspettano in America Latina. Un giro di concerti promesso da tempo e sempre rimandato, il che rende il tam-tam dei tifosi quasi assordante. Poi, si mormora, un disco in portuñol, cioè quella lingua di frontiera che mischia spagnolo e portoghese, un esperanto dolcissimo e frizzante di cui Manu ha già dato prova in alcune canzoni. Ma è un passaparola che confina con la speranza e che rende più fremente l’attesa. Cosa ci combinerà Manu al prossimo giro? Qui i media (che tanto, secondo Manu, arrivano sempre in ritardo) e l’industria non c’entrano nulla e a reclamare nuove musiche e nuovi miscugli sono proprio i tifosi. Un affetto immenso che è quasi una fratellanza e che si tocca con mano facendo un giro nel suo forum. Chi chiede le prossime date, se ci sono, chi è disposto a spostarsi, anche di continente, per vederlo, chi propone progetti comuni, chi sottopone idee. Manu starà certamente architettando qualcosa, si dicono in tanti. E a sottolineare che non si tratta “solo” di una rockstar stanno anche messaggi di questo tipo: “Manu llamame, tengo un buen idea”. E la cosa pazzesca è che Manu potrebbe anche chiamare davvero.

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