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dom
13
feb 05

Mr. Eminem

Una storia di testacoda, di soldi, di talento, di successo, parolacce, botte, infanzia difficile, riscatto, trionfo. Una storia americana, se volete, dove il protagonista appallottola tutto e lo spara in faccia al mondo. Tié! Ora che lo vedremo al cinema, è probabile che questo benedetto/maledetto Eminem farà un po’ meno paura. E’ bravo, bravissimo, dicono le critiche americane del “suo” film 8 miles (la regia è di Curtis Lee Hanson). E in più è una di quelle straordinarie macchine da soldi che compaiono ogni tanto, prima vituperate e svillaneggiate, poi sdoganate dai conti: quando vendi trenta milioni di dischi e tua madre ti fa causa per dieci milioni di dollari, ragazzo, sei qualcuno!
Già, sembrerebbe la solita storia: dal nulla al tutto. E in fondo, non era partita da casa con quindici dollari in tasca anche Madonna? Non era Elvis un perditempo, un camionista precario che conquistò il mondo? Sicuro che tra le due similitudini, quella che piace di più a Eminem (31 anni) è proprio quest’ultima: “Io sono la cosa più interessante successa dopo Elvis”, amava ripetere nelle interviste di quand’era un ragazzaccio. E se a qualcuno questa può sembrare la solita iperbole da popstar pompata, si metta a verbale che l’intellettuale Les Inrockuptibles, settimanale-cult della pop culture francese lo ha paragonato nientemeno che a Louis Férdinand Céline. Pazzesco. Il tutto applicato a un ragazzino di trent’anni appena compiuti, con madre un po’ tossica e – fino a quando non ha cominciato a macinare dischi – sfigato e sconosciuto. Esatto: figlio di quel white trash (spazzatura bianca) che vive nei ghetti americani insieme ai neri, spesso sotto la soglia di povertà, tra crak e rapine, per intenderci. Insomma, la suburra americana, che di raro si vede, ma c’è.
Ora il signor Eminem lo aspettiamo al varco del cinema. Il piccolo Re Mida del rap fa centro al primo colpo: il pubblico gli dà ragione e la critica pure. E questo nonostante la storia di Jimmy Smith alias Jimmy Rabbit, raccontata nel film sia di quelle già viste e riviste. I quartieri per male, le gare di freestyle (contest di rime improvvisate), la costanza e la determinazione del poverocristo che alla fine – bingo – vince il successo. Insomma, una febbre del sabato sera, però rap, e spurgata da quel che non c’è più: ottimismo, edonismo, speranze. Tutte cose che nella Detroit di 8 miles non si vedono nemmeno col cannocchiale, e anzi: quartieri degradati, ladri, tossici, puttane e tutto quel che (di male e malissimo) riuscite a immaginare. E il confine stesso tra un mondo e l’altro ben espresso nel titolo, perché quell’8 miles rimanda esattamente al confine interno di Detroit: da una parte la borghesia bianca con le sue villette medio-eleganti e dall’altra neri poveri, bianchi poveri, devastazione famigliare e tutti gli Eminem e i Rabbit del mondo. Con chiosa di tipo flaubertiano: “Jimmy Rabbit sono io”, come ama dire Eminem, a sottolineare che il sogno americano è sempre vivo e che uno può partire sfigatissimo e poi finire in cima alla piramide.
Con qualche variante, naturalmente. Perché mentre il protagonista Jimmy è alla fine un bravo ragazzo, non ha armi, cerca di evitare risse e casini, ama la mamma e la sorellina, Eminem ha costruito la sua potenza mediatica proprio sul contrario. Cattivo, cattivissimo, al limite della macchietta. Con tanto di divieto di passaggi in radio, Paesi da cui è praticamente bandito (tipo il Canada), cause miliardarie e persino la caduta rovinosa dell’ultimo tabù: l’odio per la mamma che vorrebbe (lo dice nelle canzoni) uccidere con le sue mani. Non è tutto. Tra un insulto e l’altro, Eminem se l’è presa con tutti: con Clinton e con Bush (raffigurato in un video in forma di maiale), ma pure con Osama, dai cui amici è stato minacciato di morte. E in più: mamme, ex mogli, nemici musicali, concorrenti, politici e via sputacchiando odio, tanto che forse il paragone potrebbe correre al no future del punk, tempi di odio e distruzione in cui una vera rockstar doveva sprizzare, prima ancora che musica, nichilismo. Ora che il grande business gli ha sorriso alla grande, Eminem può permettersi pure di fare l’esperto di media e di comunicazione di massa: “Se qualcuno non distingue la vita reale dal testo di una canzone è un problema suo, non mio”. Un’affermazione che suona come una vera dissociazione, un sì, è vero, ho detto questo, ma era solo una canzone…
I paragoni si sprecano, dunque, per catalogare questo biondino inequivocabilmente bianco, ma altrettanto inequivocabilmente “nero”. Come fece pure Elvis, Eminem ha preso la musica dei neri e l’ha in qualche modo rubata, trasformando il rap, musica del ghetto e della barricata, in una rivelazione sconvolgente: il ghetto e la barricata sono anche bianchi. La povertà è anche bianca, la disperazione pure e la rabbia, va da sè, di conseguenza. Non è una faccenda nuova. Dopotutto i Clash, massima espressione del rock politico di sempre, cantavano “voglio una rivolta bianca”, pensando, come modello, ai tumulti dei quartieri caraibici londinesi, Notthing Hills e dintorni. Ecco: questo ha fatto, a suo modo, il giovane Eminem. Raccogliendo però un consenso trasversale e strabiliante: i ragazzini bianchi di 10-12 anni delirano per lui, ma anche la media borghesia non lo evita e la critica musicale lo applaude per la sua capacità di dare un senso anche musicale (persino melodico, che per il rap è davvero il massimo) alle sue raffiche di parole e parolacce. E in più c’è la mano santa, il viatico e la benedizione, di quel Dr. Dre che per il rap americano è quasi tutto. Produttore, leader, affarista, genio musicale e discografico. Una firma che nei dischi appare accanto a quella di Eminem e il cui messaggio suona chiaro e nitido come se fosse diffuso da un altoparlante: è vero, il ragazzo è bianco, ma il guru della musica nero lo produce e lo coccola e quindi… Ecco che anche i duri e puri del rap lo osannano. Bingo, missione compiuta. Ora, dopo aver scandalizzato e atterrito le mamme di tutto il pianeta, siamo di fronte a una nuova rivoluzione. 8 miles, infatti, si può considerare (come ha scritto anche il Riformista, il quotidiano d’alemian-elegantino) un film buonista, dove i poveri del ghetto non sono necessariamente dei demoni assetati di sangue. L’intendenza segue: Eminem produce altri gruppi musicali, scrive e dirige video, si appresta a varare una sua linea di abbigliamento, forse scriverà un libro, di certo farà altri dischi e forse presto un altro film. Perché di Eminem non si butta niente, giustamente. E anche tutti quelli che si stracciavano le vesti e piangevano sull’innocenza perduta e sul cattivo maestrino, ora devo ammettere che sì, il ragazzo è in gamba. E così è più facile perdonargli tutto. Anche il moralismo più rigido si ammorbidisce davanti a una cascata di dollari. E davanti alla sorprendente rivelazione che il ragazzo è bravo. Bravo davvero.

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